Il lavoro domestico svolto all'interno delle mura familiari non è solo un impegno morale: ha un valore economico concreto e, in caso di perdita, può dare origine a un danno patrimoniale risarcibile. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 14288/2025, intervenendo su un caso che coinvolge il decesso di una casalinga e la richiesta di risarcimento del coniuge.
La normativa vigente non fornisce una disciplina espressa sulla patrimonializzazione del lavoro domestico, tuttavia, ai sensi dell'art. 1223 del Codice Civile, il danno patrimoniale comprende sia la perdita subita che il mancato guadagno. Su questa base, la Cassazione ha affermato che anche le attività di cura e assistenza familiare, ancorché non retribuite, costituiscono un apporto economicamente valutabile.
La vicenda trae origine da un ricorso proposto dai figli di una donna deceduta per responsabilità medica, il giudice di merito aveva riconosciuto un risarcimento limitato, giudicando generiche le deduzioni sul contributo della defunta all'economia domestica. Tuttavia, la Suprema Corte ha chiarito che, in casi simili, è possibile ricorrere alla prova per presunzioni.
Nel caso in esame, la giurisprudenza ha statuito che l'età della donna, la convivenza stabile con il marito e l'assenza di un'attività lavorativa esterna sono elementi sufficienti per presumere che ella contribuisse attivamente alla gestione familiare.
Pulizia della casa, preparazione dei pasti, pagamento delle bollette e cura della relazione coniugale sono attività che, se svolte da terzi, avrebbero un costo effettivo. Ne deriva che la perdita di tali prestazioni genera un pregiudizio economico concreto per il coniuge superstite, il quale deve essere ristorato mediante una liquidazione equitativa.
La Corte ha ribadito che il lavoro di casalinga non è un dovere privo di valore, ma un'attività a tutti gli effetti suscettibile di quantificazione, da equiparare, in termini di utilità economica, a una professione esterna.
La pronuncia nel commento ha anche evidenziato un secondo profilo di criticità nella sentenza impugnata. Il giudice d'appello, infatti, aveva trascurato di pronunciarsi sul danno non patrimoniale da perdita del rapporto affettivo, soffermandosi soltanto su un'ipotetica perdita di chance, richiesta in via subordinata.
La Cassazione ha affermato che la sofferenza per la morte di un familiare prossimo, specie in presenza di una consulenza medico-legale agli atti, va adeguatamente riconosciuta. Non è necessario che gli eredi indichino una somma precisa: spetta al giudice, nell'esercizio del proprio potere equitativo, determinare l'entità del risarcimento.
Nel trattare casi simili, è importante:
La giurisprudenza più recente riconosce il valore concreto del lavoro di cura e gestione familiare, tradizionalmente attribuito alle casalinghe ma sempre più condiviso. La perdita di tali attività genera un pregiudizio reale e misurabile, che può, e deve, essere risarcito. Il diritto tutela anche ciò che spesso resta invisibile: il lavoro che tiene unite le famiglie.
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Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.