«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Questa celebre frase de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ben descrive il dilemma odierno in materia urbanistica. Le leggi impongono vincoli edilizi per proteggere interessi superiori – dal paesaggio al tessuto economico-sociale – ma col passare del tempo alcune limitazioni rischiano di diventare anacronistiche, causando più danni che benefici. Nel 2025 la giurisprudenza italiana ha affrontato direttamente questo tema, tracciando una linea di confine tra i vincoli da preservare rigorosamente e quelli da adeguare ai cambiamenti.
Un punto di svolta è arrivato con una importante pronuncia della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 143/2025 (depositata il 7 ottobre 2025), la Consulta ha dichiarato illegittima una norma regionale che impediva ai proprietari di immobili alberghieri di cambiarne la destinazione d’uso, anche quando l’attività alberghiera non era più economicamente sostenibile. In pratica, in Liguria vigeva una legge che blindava gli edifici ad uso hotel: nemmeno di fronte a crisi o mancanza di mercato era possibile trasformarli, ad esempio, in appartamenti. La Corte ha ritenuto questa rigidità eccessiva e contraria ai principi costituzionali.
Perché la norma è stata bocciata? I giudici costituzionali hanno valutato che imporre un vincolo di destinazione senza via d’uscita viola il principio di ragionevolezza e la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). Mantenere forzatamente un albergo inattivo significa, di fatto, degradare il territorio (edifici vuoti e inutilizzati) e ledere il diritto di proprietà, senza alcun reale vantaggio per la collettività. La sentenza evidenzia come la tutela del turismo e del territorio vada bilanciata con la realtà economica: se un hotel non può più funzionare, costringere il proprietario a non riconvertirlo ad altro uso diventa un danno inutile. La Corte Costituzionale ha dunque aperto alla possibilità di svincolare questi immobili, restituendo valore al patrimonio edilizio dismesso e consentendo nuovi investimenti. Si tratta di una decisione epocale, che farà giurisprudenza anche oltre il caso ligure, dando un chiaro segnale a tutte le regioni: i vincoli urbanistici “eterni” vanno rivisti quando vengono meno le ragioni pratiche che li giustificavano.
Da ora in avanti, i proprietari di ex alberghi non più remunerativi potranno chiedere ai comuni la variazione di destinazione d’uso senza incorrere in un diniego automatico basato su norme ormai superate. Ovviamente la trasformazione dovrà essere compatibile con la pianificazione urbanistica generale (ad esempio, rispettare gli indici di zona, i parcheggi, ecc.), ma non potrà più essere bloccata solo per l’esistenza di un vincolo astratto. È una vittoria del buon senso: come affermato nel dispositivo della Consulta, il legislatore deve evitare “la tutela del territorio fine a sé stessa”, perché un vincolo urbanistico ha senso solo finché serve davvero all’interesse pubblico.
Se da un lato c’è maggiore elasticità sui vincoli urbanistici divenuti obsoleti, dall’altro le corti amministrative nel 2025 hanno ribadito tolleranza zero verso chi infrange le regole edilizie o paesaggistiche vigenti. Un esempio lampante è la pronuncia del Consiglio di Stato n. 7876/2025, emessa l’8 ottobre 2025. In quel caso, i proprietari di un edificio situato in area vincolata dal punto di vista paesaggistico avevano effettuato una serie di modifiche sostanziali: avevano alzato l’altezza del tetto e dei corpi scala, trasformato un sottotetto non abitabile in mansarda e in generale incrementato i volumi dell’immobile. Tutto ciò senza autorizzazione paesaggistica, tentando poi di sanare a posteriori le opere.
Il Consiglio di Stato ha confermato la linea già tracciata dalle norme (art. 167 del Codice dei beni culturali) e dalla giurisprudenza precedente: nessuna sanatoria paesaggistica è ammessa se c’è stato un aumento di volume dell’edificio. Il vincolo paesaggistico, infatti, impone che il territorio protetto non subisca alterazioni significative; consentire regolarizzazioni in sanatoria anche dopo ampliamenti volumetrici significherebbe legittimare fatti compiuti potenzialmente dannosi per il paesaggio. Nella sentenza, i giudici sottolineano come di fronte a un vincolo paesaggistico l’amministrazione “non ha alcun margine discrezionale”: deve negare l’autorizzazione in sanatoria se riscontra un incremento di volumetria. Non valgono, in questi casi, né tolleranze millimetriche né interpretazioni creative: ogni ampliamento fuori dalle sagome e dai volumi originariamente approvati costituisce un abuso non sanabile e comporta il ripristino dello stato dei luoghi (ossia la demolizione delle opere abusive).
Allo stesso modo, è molto significativa la sentenza del TAR Lombardia, Sez. II, n. 2757/2025 (23 luglio 2025), relativa a un intervento edilizio a Milano. Una società aveva demolito una vecchia palazzina di due piani (di cui uno residenziale) per costruire al suo posto un edificio nuovo di cinque piani con otto appartamenti. Pur avendo presentato la pratica come ristrutturazione edilizia, nei fatti si era di fronte a un edificio completamente diverso per dimensioni e carico urbanistico. Il TAR ha dato ragione al Comune, che aveva dichiarato improcedibile la Segnalazione Certificata di Inizio Attività: un intervento così radicale non è una ristrutturazione, ma una nuova costruzione. I giudici amministrativi hanno chiarito che la “ristrutturazione” presuppone comunque un minimo di continuità con il fabbricato preesistente; se questa continuità viene meno – come nel caso di un modesto stabile rimpiazzato da un condominio molto più imponente – allora bisogna seguire le regole delle nuove costruzioni, più stringenti (come l’eventuale piano attuativo, standard urbanistici da rispettare, contributi da versare, ecc.). In altri termini, non ci si può mascherare dietro la parola ristrutturazione per eludere i vincoli urbanistici: demolire e ricostruire con volumetrie maggiori attiva procedure differenti e richiede titoli abilitativi adeguati, pena la rimozione delle opere.
Queste decisioni del Consiglio di Stato e del TAR confermano che la tutela del territorio e del paesaggio resta un valore primario: le regole non sono meri formalismi, ma strumenti per garantire uno sviluppo ordinato e sostenibile. Chi sceglie di ignorarle – ad esempio costruendo più del consentito o alterando un edificio vincolato – non può confidare in sanatorie facili o scappatoie. Al contrario, rischia ordinanze di demolizione, sanzioni e lunghe battaglie legali perse in partenza. Come ribadito in varie pronunce, “la legge non ammette ignoranza” in urbanistica: prima di eseguire lavori è fondamentale informarsi bene sulle normative locali, sui piani regolatori e su eventuali vincoli esistenti su immobili e aree.
Il panorama delineato dalle recenti sentenze offre un duplice insegnamento. Da un lato, il legislatore e i giudici stanno mostrando apertura nel rimuovere lacci ormai ingiustificati: il caso dei vincoli di destinazione d’uso alberghiera ne è un esempio, e potenzialmente si potranno rivedere anche altre limitazioni urbanistiche quando producono solo effetti negativi. Pensiamo ad esempio ai piani regolatori molto vecchi, con zonizzazioni non più attuali: l’orientamento emerso suggerisce che norme irragionevoli o eccessivamente punitive possono – e devono – essere modificate, anche attraverso l’intervento dei tribunali. Ciò dà speranza a chi si trova con immobili bloccati da vincoli anacronistici: vale la pena verificare se esistono i presupposti per chiedere una deroga o un aggiornamento della disciplina.
Dall’altro lato, però, c’è la conferma che i paletti fondamentali restano saldi: la volontà di ammorbidire certe regole non va confusa con un “liberi tutti”. I principi cardine dell’urbanistica – come il rispetto delle volumetrie e delle destinazioni autorizzate, la salvaguardia dei beni paesaggistici e storico-artistici, l’obbligo di ottenere permessi per costruire o modificare gli edifici – rimangono pienamente vigenti e vengono anzi ribaditi con forza dalle corti. Questo significa che chi opera fuori dalle regole ne subirà le conseguenze. Le imprese edili e i proprietari farebbero bene a considerare le recenti pronunce come un monito: investire nella regolarità urbanistica paga nel lungo periodo, mentre confidare in un successivo condono o in cavilli per sanare l’insanabile è una strategia destinata al fallimento.
In sintesi, il 2025 ci consegna un quadro più moderno e flessibile su alcuni fronti, ma sempre nel solco della legalità e della tutela del bene comune. L’ordinamento urbanistico italiano si evolve, cercando di correggere gli eccessi di rigidità – là dove creavano storture – senza però rinunciare ai suoi obiettivi primari di governo del territorio. Per i proprietari di immobili e gli operatori del settore, si aprono nuove possibilità (come la riconversione di strutture non più utilizzabili nella loro funzione originaria), ma al contempo si rinnova l’invito a operare sempre con prudenza e rispetto delle regole. Le ultime sentenze fungono da guida: capire quando un vincolo ha ancora senso e quando invece va adeguato è la chiave per muoversi correttamente tra le maglie del diritto urbanistico attuale.
Il messaggio lanciato dai giudici nell’ultimo anno è chiaro: le norme urbanistiche non sono scritte sulla pietra per l’eternità, ma devono rispondere ai bisogni reali della collettività e dei territori in ogni epoca. Quando un vincolo perde la sua ragion d’essere e produce solo effetti negativi, il sistema giuridico dispone degli strumenti per rimuoverlo o aggiornarlo – come dimostrato dalla Corte Costituzionale sul caso degli alberghi. Al tempo stesso, i pilastri posti a tutela del paesaggio, della sicurezza urbanistica e della legalità edilizia non vengono meno: i trasgressori non possono aspettarsi indulgenza, perché il rispetto delle regole rimane il presupposto imprescindibile per qualsiasi trasformazione del territorio.
In medio stat virtus, dicevano i latini: la virtù sta nel mezzo. Ed è proprio questo il nuovo equilibrio che si sta delineando in urbanistica: né deregulation selvaggia, né vincoli ottusi che ignorano la realtà, ma un sistema capace di distinguere caso per caso, di evolvere quando serve e di far rispettare con fermezza ciò che conta davvero.
Redazione - Staff Studio Legale MP