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Supervisione continua e diritto all’indennità di accompagnamento - Studio Legale MP - Verona

Con l’ordinanza n. 28212 del 23 ottobre 2025, la Corte di Cassazione amplia il diritto all’indennità riconoscendo la tutela anche ai disabili che possono muoversi solo sotto sorveglianza costante, rafforzando la protezione previdenziale e i diritti degli eredi verso l’INPS

 

Indennità di accompagnamento e “supervisione continua” nel diritto previdenziale italiano. L’indennità di accompagnamento è una prestazione assistenziale, introdotta dalla legge 11 febbraio 1980 n. 18 e integrata dalla legge 21 novembre 1988 n. 508, pensata per le persone con invalidità civile totale che necessitano di assistenza permanente. In base a queste norme, il beneficio spetta ai soggetti in condizione di assoluta inabilità fisica o psichica che si trovano alternativamente: (a) nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore, oppure (b) incapaci di compiere gli atti quotidiani della vita (mangiare, vestirsi, curare l’igiene personale, ecc.) senza un’assistenza continua. Si tratta dunque di una tutela economica fondamentale per garantire dignità e sostegno ai disabili più gravi, permettendo loro una vita il più possibile autonoma nonostante le limitazioni. Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi – la giustizia è la volontà costante e perpetua di riconoscere a ciascuno il suo – e proprio il diritto a un aiuto adeguato spetta a chi, per condizioni di salute, non può far fronte da solo alle esigenze elementari della vita quotidiana.

 

Evoluzione giurisprudenziale e “supervisione continua” come requisito. Negli ultimi anni la giurisprudenza italiana ha compiuto significativi passi avanti nell’interpretare i requisiti per l’indennità di accompagnamento, in particolare estendendo il concetto di assistenza continua anche alle ipotesi di sorveglianza assidua e non solo di aiuto materiale. In passato, un approccio più formalistico tendeva a negare il beneficio ai soggetti che, pur materialmente capaci di compiere taluni atti quotidiani o di muovere passi, riuscivano a farlo solo se costantemente controllati da un accompagnatore. Oggi, alla luce delle nuove sentenze, si riconosce che avere bisogno di supervisione continua equivale ad avere bisogno di aiuto permanente. La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 28212 del 23 ottobre 2025, ha affermato un principio di portata innovativa: l’indennità di accompagnamento spetta anche a chi può camminare ma solo sotto costante supervisione, a causa dell’elevato rischio di caduta o di smarrimento. In altre parole, il pericolo continuo di cadere o di farsi male senza la presenza vigilante di un accompagnatore viene equiparato all’incapacità di deambulare in autonomia. Si tratta di una vera svolta giurisprudenziale, che estende la tutela anche ai disabili con gravi disturbi dell’equilibrio, della coordinazione o dell’orientamento (ad esempio persone affette da Alzheimer in fase avanzata, Parkinson grave, disabilità intellettive profonde), i quali possono muoversi fisicamente ma non in condizioni di sicurezza se lasciati soli. La Cassazione, con questa pronuncia, ha dunque chiarito che il concetto di “aiuto permanente” non implica necessariamente un sostegno fisico attivo (sorreggere o trasportare il disabile), ma può consistere in una vigilanza costante atta a prevenire incidenti e a guidare la persona nei movimenti.

 

Accertamento medico-legale: supporto fisico vs sorveglianza costante. Sul piano pratico, l’evoluzione giurisprudenziale ha importanti riflessi nelle modalità di accertamento medico-legale dell’invalidità. In sede di visita per l’indennità di accompagnamento, non conta solo la mera capacità motoria o motrice residua, ma va valutata l’autonomia complessiva del soggetto e il rischio concreto cui andrebbe incontro senza assistenza. I consulenti tecnici e i medici legali sono ora chiamati a un’analisi più approfondita: ad esempio, una persona affetta da grave deterioramento cognitivo o da disturbi psichiatrici può anche essere in grado, dal punto di vista muscolare, di camminare o di alimentarsi, ma potrebbe dimenticarsi di farlo, farlo in modo inadeguato o pericoloso, oppure smarrirsi e mettersi a rischio se prova a uscire da sola. Ecco perché i giudici insistono su un approccio sostanzialistico: la capacità di svolgere gli atti quotidiani non va intesa solo in senso fisico, ma anche come capacità di comprendere tali atti, di organizzarli nei tempi e modi appropriati e di realizzarli in sicurezza, senza compromettere la propria salute e dignità. Emblematica, in tal senso, una sentenza del Tribunale di Milano (Sez. Lavoro, n. 3266/2025), la quale ha evidenziato che il giudice deve valutare la perdita di autonomia non in termini di semplice “numero” di attività che la persona non riesce a compiere, ma piuttosto in base alle conseguenze della sua incapacità sul piano della vita quotidiana. In quella decisione si legge che l’indennità di accompagnamento va riconosciuta anche in favore di coloro i quali, pur essendo materialmente capaci di svolgere gli atti elementari della vita (nutrirsi, vestirsi, curare l’igiene, assumere farmaci), necessitano della presenza costante di un accompagnatore perché, a causa di gravi disturbi cognitivi o psichici, non sono in grado di provvedere da soli in modo tempestivo e adeguato a tali atti, mettendo a repentaglio la propria salute o incolumità. Questa prospettiva integra pienamente il requisito della “assistenza continua” previsto dalla legge, andando oltre la tradizionale distinzione tra supporto materiale e sorveglianza: se la vigilanza permanente è indispensabile affinché il disabile possa vivere la quotidianità senza pericolo, siamo nel campo di applicazione dell’indennità. Si rafforza così un orientamento giurisprudenziale ispirato a criteri di umanità e buon senso, che guarda alla realtà effettiva della vita del disabile più che a schemi astratti. Del resto, la giurisprudenza di legittimità aveva già posto basi importanti in questa direzione: basti ricordare un’altra pronuncia significativa del 2025 (Cass. ord. n. 2744/2025), in cui la Suprema Corte ha confermato il diritto all’accompagnamento in favore di un minore disabile, sottolineando che il giudice può (anzi, deve) discostarsi dalle conclusioni del perito medico qualora queste appaiano riduttive o non colgano la reale gravità della situazione. In quel caso, la Cassazione ha dato ragione alla famiglia di un bambino a cui in primo momento era stato revocato il beneficio: il tribunale, motivando in modo accurato, aveva ristabilito l’indennità nonostante il parere tecnico contrario, proprio perché aveva considerato il complesso delle necessità del minore. La Suprema Corte ha ritenuto corretta questa decisione, ribadendo che il giudice – peritus peritorum, “esperto tra gli esperti” – non è vincolato in modo cieco alla perizia, soprattutto quando sono in gioco i diritti fondamentali delle persone fragili. In sintesi, oggi si assiste a una maggiore sensibilità giudiziaria: viene riconosciuto che la semplice difficoltà nel camminare o nel compiere atti quotidiani non basta per l’indennità (la legge richiede un’incapacità grave, un’impossibilità), ma al tempo stesso si amplia la nozione di incapacità, includendovi situazioni prima trascurate – come la necessità di una sorveglianza continua per proteggere la persona da esiti potenzialmente fatali del suo agire disorientato. È una visione che mette la persona al centro, considerando non solo ciò che fisicamente può o non può fare, ma anche ciò di cui ha costantemente bisogno per vivere in modo sicuro e dignitoso.

Dignità del disabile e tutela effettiva. Tutte queste evoluzioni normative e giurisprudenziali convergono verso un obiettivo: assicurare che nessun avente diritto venga lasciato privo del sostegno di cui necessita. Dietro ogni pratica amministrativa, ogni ricorso o perizia, c’è una storia umana fatta di difficoltà quotidiane, di famiglie impegnate nell’assistenza e di persone che chiedono solo di vedere riconosciuti i propri diritti. «Non sono un animale! Sono un essere umano!» gridava John Merrick nel celebre film The Elephant Man. Questa toccante affermazione ricorda a tutti – giudici, medici e istituzioni – che dietro le definizioni burocratiche (“non deambulante”, “non autonomo”) c’è la persona, con la sua intrinseca dignità. Garantire l’indennità di accompagnamento a chi ne ha realmente bisogno significa, in definitiva, rendere concrete la solidarietà e l’uguaglianza sancite dalla nostra Costituzione. Una società civile si misura anche da come tratta i suoi membri più deboli: assicurare loro la supervisione necessaria, il supporto economico e la vicinanza costante è un dovere morale prima ancora che giuridico.

 

Prestazioni maturate “ante mortem”: diritti degli eredi vs. INPS. Un profilo particolare, spesso fonte di contenziosi, riguarda ciò che accade quando il titolare dell’indennità (o di altra provvidenza previdenziale) viene a mancare prima di aver riscosso tutte le somme a lui dovute. Si parla in questi casi di ratei maturati e non riscossi ante mortem, ossia degli importi del beneficio che erano già diventati esigibili nel patrimonio del beneficiario fino alla data del decesso, ma che egli non ha materialmente incassato. Il principio generale, confermato anche di recente dalla Cassazione, è che queste somme spettano agli eredi iure hereditatis (in forza del loro diritto ereditario). Ad esempio, se a un invalido civile viene riconosciuta in sede giudiziaria l’indennità di accompagnamento a partire da una certa data e la persona muore durante il processo o prima del pagamento, i suoi eredi (coniugi, figli, etc.) hanno diritto a riscuotere dall’INPS gli arretrati accumulati fino al giorno del decesso. Al contrario, non sono trasmissibili agli eredi i benefici non ancora maturati o “potenziali”, per i quali il dante causa non aveva perfezionato il diritto in vita. Su questo punto la Cassazione (ord. n. 2297/2025) ha chiarito, in tema di pensione di vecchiaia, che se il lavoratore deceduto non aveva presentato domanda amministrativa all’INPS prima di morire, i familiari non possono rivendicare le mensilità che avrebbe potuto percepire: senza una domanda valida, infatti, il diritto alla prestazione non sorge affatto, e dunque nulla entra nel patrimonio del defunto. Questo orientamento, applicabile per analogia a varie prestazioni, sottolinea l’importanza delle formalità: in ambito previdenziale il diritto spesso nasce con la domanda (ad esempio la domanda di invalidità civile o di pensione), e finché essa non viene presentata il beneficio resta inespresso. Tuttavia, quando la domanda c’è stata ed emergono ratei dovuti, gli eredi possono agire contro l’INPS per ottenerne la corresponsione. In molte vicende giudiziarie, infatti, i figli o coniugi del disabile deceduto proseguono la causa già iniziata dal loro caro, oppure intraprendono un ricorso qualora l’ente rifiuti il pagamento degli arretrati. In tali casi la difesa dell’INPS talvolta eccepisce la “cessazione della materia del contendere” per sopravvenuta morte dell’attore, ma i giudici confermano regolarmente che il processo può proseguire per la liquidazione in favore degli eredi delle somme maturate. Si tratta, in fin dei conti, di dare attuazione al principio per cui le prestazioni assistenziali dovute e non godute entrano nell’asse ereditario come qualsiasi altro credito vantato dal de cuius.

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  • 29 ottobre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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