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SE LO STATO TOCCA IL FONDO (MA NON QUELLO GIUSTO) - Studio Legale MP - Verona

Doppia morale dello Stato Italiano che prima istituisce il fondo per risarcire le Vittime degli efferati crimini nazisti e poi “sguinzaglia” l’Avvocatura per evitare di attingervi

 

Abstract

L’articolo illustra la ("discutibile") gestione del "Fondo per le vittime del Terzo Reich", istituito dal D.L. 36/2022 per risarcire i deportati nei lager nazisti. Nonostante la previsione di risorse destinate alle vittime, lo Stato Italiano, attraverso l'Avvocatura, ostacola l'accesso a tali fondi, ricorrendo a cavilli legali che rallentano i processi di risarcimento. Il testo analizza criticamente il comportamento dello Stato e le difficoltà giuridiche incontrate dai richiedenti, evidenziando la tensione tra i diritti delle vittime e l'inerzia istituzionale. Viene anche esaminata la pronuncia della Corte Costituzionale sull'art. 43 e si propone una riflessione sulla necessità di migliorare l'accesso alle risorse previste dalla legge.

 

Nel cuore di Neuengamme, ridente sobborgo di Amburgo, c’è un ameno giardinetto di rose che già di per sé ispirerebbe poesia, ma che non manca neppure di strappare qualche lacrima agli sparuti avventori che scientemente o accidentalmente vi capitino. E a commuoverli non sono tanto la fragranza e la spettacolarità dei rovi, bensì una lapide posta a perenne memoria di una delle più efferate stragi naziste lì consumate: “Qui sosta in silenzio, ma quando ti allontani parla.” E noi vogliamo parlare. Ma lo facciamo non già dai soliti pulpiti onusti della più stucchevole retorica, ma dagli scranni che più ci competono: quelli del foro. E lo facciamo per denunciare l’ignavia e l’ipocrisia dello Stato Italiano, che in modo del tutto irrispettoso e irresponsabile, dopo aver istituito con il D.l. 36/2022 il “Fondo per le vittime del Terzo Reich”, finalizzato al ristoro dei deportati nei Lager Nazisti e di quanti abbiano sperimentato direttamente sulla lor pelle gli abomini perpetrati dalle milizie alemanne, oggi cerca di ostacolare con una condotta processuale del tutto censurabile l’accesso a dette risorse, ricorrendo tramite l’Avvocatura dello Stato a ogni stratagemma e sotterfugio per rallentare o addirittura impedire il conseguimento dei titoli richiesti dalla Legge ai fini della corresponsione dei risarcimenti dovuti.

 

È ormai notorio, invero, che chiunque abbia direttamente subito le angherie naziste e sia stato personalmente toccato dai crimini commessi dalle forze armate del Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale, vanti, con i relativi eredi, un preciso diritto al risarcimento dei danni patiti, e questo in virtù principalmente dell’art.43 del D.L. 36/2022, con cui è stato istituito il “Fondo  per le vittime del Terzo Reich”, finanziato prevalentemente con i fondi europei del PNRR. Per accedere a questo fondo è necessario vantare, alternativamente, dei titoli specifici individuati dalle Legge, ossia una sentenza di accertamento e liquidazione dei danni testé menzionati oppure una transazione giudiziale, previo parere dell’Avvocatura dello Stato.

 

Detto art. 43 ha posto questioni di grandissimo interesse sia per gli operatori del diritto sia per gli studiosi di discipline giuridiche, toccando diversissime branche ordinamentali, dal diritto civile al diritto internazionale, passando per il diritto costituzionale e il diritto processuale.

 

L’art.43 può vantare un retroterra piuttosto esteso e infatti nell’incipit della norma di nuovo conio, peraltro contenuta  all’interno di un decreto legge avente tutt’altra destinazione e contenuti, si specifica espressamente  che l’istituzione del Fondo risiede nella volontà di assicurare continuità all’Accordo tra la Repubblica  italiana e quella Federale Tedesca, concluso a Bonn il 2 giugno 1961 e reso esecutivo con d.P.R. il 14  aprile 1962, n. 1263. Con tale accordo la Germania aveva versato alla Repubblica italiana, a  definizione delle questioni economiche pendenti la somma di 40 milioni di marchi tedeschi (Parte I,  art. 1.1.); a seguito di tale versamento “il Governo italiano dichiara che sono definite tutte le  rivendicazioni e richieste della Repubblica italiana, o di persone fisiche o giuridiche italiane,  ancora pendenti nei confronti della Repubblica Federale di Germania o nei confronti di persone  fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1°  settembre 1939 e l’8 maggio 1945” (Parte I, art. 2.1.). E infatti la norma dell’art. 43 del d.l. 36/2022  espressamente fa riferimento al ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro  accordo è il “titolo giuridico in base al quale l’erario si è assunto l’onere di ristorare le vittime dei crimini nazisti  per i danni subiti”.

 

Questa norma, nei migliori auspici dei suoi estensori, doveva inoltre rispondere a questioni strettamente operative legate alle procedure esecutive aventi ad oggetto i beni della Repubblica Federale Tedesca ubicati nel territorio italiano, su cui intendevano soddisfarsi in via coattiva quanti avevano ottenuto una sentenza di condanna dello Stato tedesco, alla quale tuttavia quest’ultimo non aveva ottemperato. Invero, mediante l’istituzione del Fondo per le Vittime del Terzo Reich, lo Stato Italiano manlevava quello tedesco, riconducendo a quanto riposto nel fondo medesimo le pretese risarcitorie degli interessati.

 

La previsione in parola è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte Costituzionale, con cui si è escluso che l’art.43 violi gli artt. 2 e 24 della Carta Fondamentale, come sospettavano alcuni per via della sostituzione all’ordinaria procedura esecutiva di un fondo ad hoc. Invero, secondo la Corte, la lesione della tutela giurisdizionale è ravvisabile solo qualora l’intervento del legislatore sia volto a frustrare definitivamente l’attuazione di un preesistente diritto, ciò che non accade nel caso in esame poiché il legislatore non travolge completamente le aspettative dei ricorrenti. La Consulta, inoltre, ha escluso che la disposizione medesima contrasti con gli artt. 3 e 111 Cost., violazione supposta dai più in ragione dell’apparente trattamento di favore riservato alla Germania mediante l’estinzione ex lege delle ordinarie procedure esecutive. Infatti la assoluta peculiarità della fattispecie, che vede la necessità di bilanciamento tra l’obbligo di rispetto dell’Accordo di Bonn del 1961 la tutela giurisdizionale delle vittime dei suddetti crimini di guerra, costituisce ragione giustificatrice sufficiente per una disciplina differenziata ed eccezionale, la quale (…) segna un non irragionevole punto di equilibrio nella complessa vicenda degli indennizzi e dei risarcimenti dei danni da crimini di guerra”.

 

Ciò posto, chiariti la ratio e i termini d’operatività dell’art.43 nonché le modalità d’accesso a questo fondo, è giusto sensibilizzare l’opinione pubblica tutta, e non solo gli operatori del diritto, che tanto dispendio di energie, tra trattative intergovernative, sentenze di Corti Nazionali e Internazionali, ricorsi, appelli e reclami, rischia in concreto di risolversi in un nulla di fatto. Invero, la maggior parte degli interessati al Fondo de quo deve ancora munirsi della sentenza di accertamento e liquidazione dei danni, ossia di uno dei titoli richiesti dalla Legge per accedere alle risorse all’uopo stanziate. Di qui, la necessità di radicare una lite che veda convenuta la Repubblica Federale di Germania, per acclarare i fatti delittuosi commessi dal Terzo Reich.

 

Epperò lo Stato Italiano, per quanto in fase di cognizione non sia tenuto a prendere parte al processo, essendo eventualmente coinvolto solo nella fase d’esecuzione, quando le risorse del fondo dovranno in concreto essere destinate al danneggiato o al suo erede, millanta una sua ineludibile legittimazione passiva, che si sostanzierebbe in un litisconsorzio necessario che la appai nel ruolo di convenuto alla Repubblica Federale di Germania. Negli scritti dell’Avvocatura, infatti, si legge che “lo Stato Italiano risulta essersi assunto – mediante la disposizione legislativa in commento – le obbligazioni risarcitorie a carico della Repubblica Federale di Germania, con liberazione ex lege del debitore originario, nei cui confronti non è più ammessa la proposizione oppure la prosecuzione di eventuali azioni esecutive”. Va premesso che, contrariamente a quanto dalla stessa affermato, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, così come la Presidenza del Consiglio dei Ministri, non vanta alcun interesse né alcuna legittimazione ad agire in codesta fase del giudizio, avente ad oggetto il mero accertamento della responsabilità della Repubblica Federale di Germania per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi a danno dei militari di guerra italiani deportati nei lager nazisti.

 

L’Avvocatura pare quindi malamente interpretare la normativa di riferimento, così come i ruoli che la Repubblica Federale di Germania e lo Stato Italiano assumono nei giudizi de quibus, rispettivamente nella fase di cognizione ed in quella di esecuzione. È invero solo con riferimento a quest’ultima fase che il Ministero dell’economia e delle finanze ha interesse e legittimazione ad agire, quale rappresentante del Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità. D’altro canto, è chiaro che, con riferimento all’an della pretesa, ossia alla sussistenza della responsabilità per atto illecito della Repubblica Federale di Germania, è unicamente quest’ultima il soggetto legittimato passivo e titolare passivo della pretesa azionata in giudizio.

 

A suffragio della tesi sostenuta dal MeF, l’Avvocatura dello Stato invoca l’obbligo, contenuto nel più volte menzionato art. 43, della notificazione degli atti introduttivi al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che secondo la ricostruzione del Mef comporterebbe necessariamente la definizione di un caso di litisconsorzio necessario. In realtà, è palese che il regime di notificazione previsto ha una funzione meramente deflattiva del contenzioso, sì da permettere il  raggiungimento di un accordo transattivo, da usare quale titolo, alternativo alla sentenza di condanna, per l’escussione del Fondo. Peraltro, è chiaro che il Ministero potrebbe solamente, in sede transattiva, contraddire in merito al quantum della pretesa, non potendo certo entrare nel merito dell’an della pretesa stessa. Da tutto quanto considerato, non pare esservi dubbio alcuno che i soggetti, per avere diritto a percepire le somme del Fondo, devono essere titolari di un credito contro la Germania accertato con sentenza passata in giudicato. È solo a tal punto che lo Stato italiano subentra alla Germania, una volta, cioè, che abbia inizio l’azione esecutiva sul Fondo medesimo.

 

Questa ingerenza dello Stato Italiano nel procedimento da cui dovrebbe derivare il titolo per l’acceso al fondo, è un effettivo intervento di disturbo, teso a ingolfare la macchina processuale, a rendere più farraginoso e lento l’iter procedimentale e, nei suoi migliori auspici, a evitare che una sentenza venga mai pronunciata, così da non corrispondere alcunché all’interessato.

 

Considerato che l’art. 43 prevede termini perentori per l’attivazione della procedura (o, eventualmente, del processo) per munirsi del titolo richiesto ai fini dell’escussione del fondo, è facile constatare come la più pregnante conseguenza della posizione del MeF, secondo l’avvocatura, riguarderebbe la decadenza in cui incorrerebbero quanti abbiano radicato la lite contro la Repubblica Federale Tedesca nei termini perentori previsti dalla legge ma non verso lo Stato italiano. Infatti, se la controparte dovesse identificarsi finanche nel Mef, ecco che il contraddittorio risulterebbe incompleto, e allora risulterebbe violato il rispetto dei termini perentori summenzionati, così da riporre definitivamente nel nulla l’iniziativa degli interessati al risarcimento.

 

Ancora più deleterio è quanto asserito dall’Avvocatura dello Stato circa la configurabilità dei presupposti per ottenere il risarcimento del danno, arrivando addirittura a mettere in dubbio l’effettività di quest’ultimo. Ora, anche il più indisciplinato e indolente degli scolari non avrebbe difficoltà ad ammettere che la deportazione in un lager o in un campo di lavoro tedeschi non coincidesse esattamente con un’escursione edonistica nel cuore dell’Europa, ma che, al contrario, rappresentasse senz’altro una delle più terribili tragedie cui potesse venire esposta la vita di un uomo. Essere caricati su un carro bestiame, lasciati a digiuno per settimane, esposti alle intemperie, costretti alla promiscuità con corpi senza vita, essere rinchiusi in una baracca insieme a decine di persone, conducendo una vita di stenti dilaniata tra le torture (quali essere lasciati sugli attenti dalle sei alle nove di mattina, essere contati ad ogni ora, essere impiegati per raccogliere i cadaveri), per poi, pelle e ossa, e al freddo, essere sfruttati per lavori di prigionia, il tutto senza mai ricevere cibo, secondo il ministero, non rappresenta ipso facto un crimine contro l’umanità e neppure una fattispecie idonea a fondare di per sé una qualche pretesa risarcitoria. Negli scritti difensivi dell’Avvocatura si legge che “appare quindi di palese infondatezza la tesi secondo la quale la pretesa responsabilità risarcitoria della RFG sarebbe, sostanzialmente, attribuibile già alla stessa cattura e al trasferimento del militare italiano in Germania”; “Va quindi escluso che il mero fatto che essi fossero adibiti al lavoro potesse costituire reato; mentre, al fine di sostenere la sussistenza di altri reati, per giunta dolosi, servirebbero elementi di congrua consistenza, del tutto assenti nella fattispecie”; mentre andrebbe verificato “se il mero fatto della cattura e del trasferimento in Germania potessero rientrare nella fattispecie dei ‘crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona’”. Da strabuzzare gli occhi. In sostanza, secondo l’Avvocatura, non solo bisogna documentare e provare accuratamente quanto accaduto nei campi di concentramento nazisti, così da accertare l’effettività dei danni subiti dagli internati (come se non fossero notorie la brutalità e la crudeltà senza confini riservate ai prigionieri), ma inoltre, laddove fossero provati, questi fatti non necessariamente rappresenterebbero dei crimini contro l’umanità. Infatti, sempre nelle carte della difesa si legge che la “domanda dovrà necessariamente essere rigettata anche nel merito, laddove non risulti acquisita al processo la prova che il danneggiato sia stato vittima del reato di cui si tratta nel presente giudizio; nonché laddove, come nel presente caso, manchi la prova delle varie tipologie di danno cui si fa riferimento nel ricorso”. E davvero sconvolgente è la disinvoltura con cui l’Avvocatura profetizza l’esito dei ricorsi, asserendo che la relativa domanda è “prescritta, infondata, inammissibile e/o improcedibile e comunque non provata”.

 

Tante bestialità messe in fila fanno trasalire, mentre un brivido di sdegno corre lungo la schiena. Accettare l’idea che l’autore di simili belluine affermazioni s’aggiri tra i banchi del tribunale anziché tornare su quelli scolastici, è duro calle. Egli invoca la prova dei patimenti subiti dagli internati. Ebbene a scuola la troverebbe. La troverebbe nei versi di Primo Levi, nei paragrafi infarciti di numeri e dati di qualsiasi manuale di Storia Contemporanea, nelle foto delle cataste di cadaveri accumulate negli anditi più reconditi dei diversi Lager, nelle testimonianze accuratamente raccolte e documentate dei superstiti, nei contributi della cinematografia, che in questo campo annovera degli autentici capolavori, e delle arti tutte.

 

Un altro escamotage che dà la misura della pochezza intellettuale oltreché morale dell’Avvocatura dello Stato, è la pretesa che i gravissimi fatti consumati nei lager nazisti siano sottoposti alla medesima disciplina di un reato qualunque, essendo anch’essi conseguentemente soggetti a prescrizione. Quindi, stando a questa ricostruzione, se un mariolo di quartiere ruba una bicicletta o una SS nazista concorre allo sterminio di milioni di persone, poco cambia, poiché laddove non dovessero essere prontamente chiamati a rispondere dell’illecito commesso, godranno entrambi della prescrizione e dei relativi (per loro) benefici. Al contrario, è pacifico che rispetto a delitti così gravi non possa operare il regime della prescrizione, e questo conformemente alla previsione, cristallizzata nel codice penale, per cui imprescrittibili sono i reati per i quali “la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti” (art. 157 c.p.). A lume di naso si direbbe che finanche trucidare vagonate di persone inermi sia un reato sanzionabile con l’ergastolo e che dunque sia impermeabile al regime della prescrizione. Nello stesso modo statuiscono i Trattati Internazionali, ma più direttamente si può convenire che a una simile previsione concorrono inderogabili esigenze di ordine morale ed equitativo. E questo vale anche per la prescrizione prevista in sede civile, che conta su termini ancora più compassati (che se venissero rispettati conculcherebbero in concreto tutte le aspettative di ristoro, proprio in ragione della ristrettezza di questi termini).

 

Ancora, l’Avvocatura dello Stato, in questo suo concitato brainstorming, si è addirittura appellata alle altre forme di risarcimento riconosciute agli internati nel corso di questi settant’anni di vita Repubblicana. In un passaggio afferma che “Al riguardo, si evidenzia – infatti – che alle vittime dei crimini perpetrati dal Terzo Reich e dal regime fascista, la Repubblica italiana ha già conferito consistenti benefici e indennizzi con: a) la legge 10 marzo 1955, n. 96; b) il decreto del Presidente della Repubblica 6 ottobre 1963, n. 2043; c) la legge 18 novembre 1980, n. 791; e d) la legge 29 gennaio 1994, n. 94. voglia in ogni caso decurtare dall’eventuale risarcimento che fosse attribuito agli odierni attori, sia le somme già percepite sulla base della normativa sopracitata, sia quelle che gli attori avrebbero comunque potuto percepire nel caso in cui non fossero incorsi nelle menzionate decadenze”. Con questa chiosa, l’Avvocatura ha toccato il parossismo della meschinità, poiché non solo quanto già corrisposto dallo Stato italiano ammonta a sparute migliaia di euro, ma ha visto come beneficiari davvero pochissimi aventi diritto. Infatti, in seguito ai già menzionati accordi di Bonn e alle leggi approvate negli anni successivi, i soldi messi così a disposizione vengono destinati a chi avesse investito nella moneta e nelle banche del Terzo Reich, con conseguente rigida destinazione di dette risorse alla vittime mietute nei lager, col risultato che delle 323.731 richieste vagliate dalla commissione governativa, ne vengono accolte appena 12.673, quasi tutti deportati per motivi politici o razziali, mentre sono soltanto 1.077 gli indennizzi agli ex internati militari, a fronte di 266mila domande. Si tratta comunque di cifre irrisorie, come riprova quanto liquidato per un deportato che morì ad Auschwitz: negli anni Sessanta la famiglia fu risarcita con 432.859 lire, che alla rivalutazione di oggi corrispondono a 4.686 euro.

 

Questi sono solo alcuni degli escamotages pensati dallo Stato per centellinare le risorse da destinare a fini risarcitori, ciò che non fa onore alla Repubblica, nata dalle ceneri e sulle rovine lasciate dalla barbarie nazifascista.

La gravità di cotali affermazioni, da un punto di vista strettamente giuridico, sta nella pervicacia con cui, oltre ogni ragionevole rilievo funzionale all’esatta definizione della fattispecie, l’Avvocatura dello Stato tenta di conculcare le legittime aspettative dei deportati o dei relativi eredi, con asserzioni tecnicamente erronee poste a fondamento di temerarie resistenze verso quanto legittimamente allegato e attestato dagli attori. Un simile contegno mina alla base il rapporto fiduciario che innerva la complessa trama degli scambi tra Stato e cittadini, e le controindicazioni di una generalizzata e diffusa sfiducia verso le Istituzioni rischiano sovente di risolversi in una disgregazione effettiva del tessuto amministrativo, con ricadute sulla credibilità dello Stato agli occhi degli amministrati. La dissonanza evidente di una condotta quale quella dello Stato Italiano, che prima istituisce un fondo per una certa categoria di persone e poi si adopra per lasciare le proprie leggi lettera morta, addirittura in spregio a quanto statuito dalla Corte Costituizionale, cioè dall’organismo giudiziario deputato alla valutazione della conformità delle norme alla Legge Fondamentale, desta molte perplessità. Sacrificare sull’altare degli interessi finanziari dello Stato i diritti dei propri concittadini, è tipico delle più spietate tecnocrazie, tra cui la Repubblica Italiana non può e non deve confondersi. Il contegno dello Stato è dunque contrario ai principi del nostro ordinamento, che premia su tutti il principio di leale e onesta interazione tra potere centrale e cittadini, i quali sono in tutto danneggiati dalla vicenda de quo, sia che si tratti di persone direttamente interessate alla distribuzione delle risorse stanziate, sia che si tratti di semplici osservatori, che possono però derivare precise convinzioni circa l’affidabilità di uno Stato che per primo non rispetta le proprie leggi.

 

E che dopo quasi Ottant’anni ancora vi siano sacche di resistenza per non accordare agli eredi dei superstiti quanto loro dovuto a titolo di ristoro dei patimenti e delle angherie subite, stride al cospetto delle coscienze. E ad acuire l’insofferenza verso questo stato di cose concorre l’ipocrisia di uno Stato che, propagandata l’istituzione del “Fondo per le Vittime del Terzo Reich” e assicurata la piena disponibilità ad accogliere le istanze delle vittime stesse o dei loro eredi, in concreto ricorre a tutti i mezzi che gli sono concessi per negare l’evidenza e forzare la trama delle varie norme, tradendo così la fiducia dei cittadini e decenni di lotte per il riconoscimento di questo diritto al risarcimento, che effettivamente aiuterebbe a regolare i conti con la storia, quei conti che ancora infastidiscono più di qualcuno.

Dovevamo parlare e abbiamo parlato.

 

 

 

  • 13 settembre 2024
  • Nicolo Dalla_Benetta

Autore: Nicolò Dalla Benetta


Nicolò Dalla Benetta -

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