“Verba volant, scripta manent.” Le parole volano, gli scritti rimangono. Nell’era digitale questo antico adagio latino assume un significato ancora più incisivo: ciò che viene pubblicato online tende a restare disponibile indefinitamente. Un articolo di cronaca giudiziaria, magari relativo a una vecchia vicenda poi risoltasi positivamente per la persona coinvolta, può continuare a comparire nei risultati di Google anche a distanza di anni, cristallizzando per sempre un’immagine negativa e superata. Ne deriva un danno potenziale alla reputazione personale, alla privacy e persino alla vita professionale e di relazione degli interessati. In risposta a questa sfida è nato il diritto all’oblio, ovvero il diritto di ottenere la rimozione o almeno la deindicizzazione di contenuti online obsoleti o lesivi, specialmente quando le informazioni non corrispondono più alla realtà dei fatti. Si tratta di un diritto relativamente nuovo, definito a livello europeo a partire dalla celebre sentenza Google Spain del 2014 e poi consacrato nell’ordinamento UE tramite l’art. 17 del GDPR (il “diritto alla cancellazione”). In Italia, tale diritto ha trovato terreno fertile anche nelle aule giudiziarie, con una giurisprudenza in continua evoluzione per stare al passo con le trasformazioni del web.
Il diritto all’oblio è, in sostanza, il diritto di non restare esposti per sempre a una rappresentazione di sé non più attuale e potenzialmente dannosa. Non significa “censurare la storia” o eliminare ogni traccia del passato, ma piuttosto contestualizzare e limitare la diffusione di informazioni personali datate, soprattutto se il loro perdurare online risulta ingiustificato. In pratica, l’esercizio del diritto all’oblio avviene spesso tramite la richiesta di deindicizzazione: si chiede ai motori di ricerca (come Google) di rimuovere dai risultati certi link associati al proprio nome. È importante notare che deindicizzare non equivale a cancellare le notizie alla fonte: gli articoli originali restano sui siti dov’erano pubblicati, ma diventano più difficili da reperire per il grande pubblico, a tutela della riservatezza dell’individuo interessato.
Per ottenere la deindicizzazione occorre presentare una specifica richiesta al motore di ricerca, oppure adire l’Autorità Garante Privacy o le vie legali se la richiesta viene negata. Non sempre però la legge riconosce tale diritto in modo incondizionato: la tutela della privacy e dell’onore del singolo deve sempre fare i conti con altri interessi di rango costituzionale, primo fra tutti la libertà di informazione e il diritto della collettività a conoscere fatti di pubblico interesse. Da qui nasce un delicato bilanciamento.
“Chi mi ruba la borsa ruba spazzatura; [...] ma chi mi ruba il mio buon nome, mi deruba di ciò che non lo arricchisce, ma mi rende realmente povero.” Questo celebre monito di Shakespeare evidenzia quanto la reputazione sia un bene prezioso e vulnerabile. Nel bilanciare diritto all’oblio e diritto di cronaca, il nostro ordinamento cerca proprio di proteggere il “buon nome” delle persone senza per questo comprimere indebitamente la libertà di stampa.
In linea generale, la giurisprudenza ha stabilito che il diritto all’oblio non è un diritto assoluto: può cedere il passo di fronte a un perdurante e prevalente interesse pubblico alla notizia. La Corte di Cassazione, richiamando orientamenti consolidati, individua una serie di criteri chiave per valutare caso per caso se una vecchia notizia debba essere “dimenticata” oppure no: l’interesse pubblico attuale alla diffusione di quella informazione; la notorietà della persona coinvolta (soprattutto se si tratta di personaggi pubblici o di rilievo, anche solo a livello locale); la veridicità e l’accuratezza della notizia (che dev’essere stata pubblicata in modo corretto, senza eccessi né dettagli morbosi, e senza insinuazioni maliziose); il tempo trascorso dal fatto e l’eventuale venir meno della sua rilevanza; infine, la presenza di eventuali aggiornamenti successivi (ad esempio l’esito favorevole di un procedimento penale) che rendano il dato originale superato o incompleto. Solo in presenza di determinati presupposti – come un interesse pubblico ancora vivo e attuale e l’assenza di evoluzioni significative nella vicenda – il diritto di cronaca può prevalere sul diritto all’oblio. In tutti gli altri casi, soprattutto quando le informazioni sono ormai obsolete o parziali, prevale il diritto della persona a non restare indefinitamente esposta a quelle notizie.
Negli anni 2024 e 2025 la Corte di Cassazione si è pronunciata più volte su questi temi, fornendo indicazioni importanti su come applicare concretamente il diritto all’oblio. In particolare, tre pronunce recenti della Terza Sezione Civile delineano una linea interpretativa chiara e coerente.
Aggiornare le notizie è un dovere: Cass. civ., Sez. III, ord. n. 3013/2024 – Con questa decisione (ordinanza del 1° febbraio 2024), la Cassazione ha affrontato il caso di un uomo apparso sui giornali per una condanna poi annullata in appello con assoluzione. Il ricorrente lamentava che gli articoli online sul suo conto non fossero mai stati aggiornati per riportare l’esito a lui favorevole, continuando a descriverlo come colpevole. La Suprema Corte ha ricordato che il diritto all’oblio può essere compresso in favore del diritto di cronaca solo al ricorrere di stringenti condizioni, come l’effettivo interesse pubblico attuale alla notizia e la notorietà del soggetto, condizioni che in quel caso specifico difettavano. Ha sottolineato che mantenere in rete notizie non aggiornate relative a persone poi prosciolte costituisce un pregiudizio indubbio alla loro reputazione. Pertanto, se un organo di informazione omette di integrare o rettificare adeguatamente la notizia dopo sviluppi rilevanti (come un’assoluzione), può incorrere in responsabilità civile per i danni causati. Nel caso di specie, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato, giudicando necessario un nuovo esame della vicenda: il giudice di merito dovrà valutare meglio il nesso tra mancato aggiornamento dell’articolo e danno reputazionale subito, applicando con maggior rigore i principi indicati (in altri termini, potrebbe profilarsi un risarcimento se verrà riconosciuto il danno).
Deindicizzazione solo dopo l’assoluzione definitiva: Cass. civ., Sez. III, ord. n. 31859/2024 – Un ulteriore chiarimento è giunto a dicembre 2024, con un’ordinanza in cui la Cassazione ha ribadito un concetto fondamentale: prima della definizione ultima di un procedimento penale non si può pretendere l’oblio. Nel caso concreto, un individuo coinvolto in un procedimento penale del 2013 (poi conclusosi a suo favore nel 2021) aveva chiesto la deindicizzazione di vari articoli che narravano la sua vicenda giudiziaria. La Cassazione ha stabilito che il momento in cui può essere legittimamente esercitato il diritto all’oblio è successivo a una sentenza di proscioglimento o assoluzione definitiva: prima di allora, prevale l’interesse pubblico a conoscere gli sviluppi della vicenda, soprattutto se ancora sub iudice. Inoltre, la Corte ha ricordato che l’istanza di deindicizzazione va presentata “al momento opportuno”, ossia non prematuramente, altrimenti si rischia di pregiudicare l’equilibrio tra riservatezza e diritto di cronaca. La sentenza ha anche evidenziato che chiedere la deindicizzazione non equivale a pretendere la cancellazione delle notizie: i contenuti originali possono restare online (anche perché costituiscono archivio storico), ma ciò che si può ottenere è di ridurne la visibilità tramite i motori di ricerca, in ossequio ai principi di necessità e proporzionalità nel trattamento dei dati personali. A tal proposito viene citata la recente Riforma Cartabia (dal nome dell’ex Ministro della Giustizia) che, con le modifiche normative del 2021 entrate in vigore nel 2022-2023, ha introdotto meccanismi procedurali semplificati per ottenere la deindicizzazione a seguito di una sentenza di proscioglimento o assoluzione: ad esempio, oggi nei processi penali conclusi con esito liberatorio il giudice può disporre d’ufficio l’ordine di deindicizzazione delle informazioni concernenti quel procedimento. Ciò non significa però che l’oblio sia automatico: ogni richiesta va comunque ponderata, specie se vi sono ancora ragioni di interesse pubblico nella vicenda.
Google e responsabilità nel trattamento dei dati: Cass. civ., Sez. III, sent. n. 14488/2025 – L’ultima tappa di questo percorso giurisprudenziale è una sentenza della Cassazione del 21 maggio 2025 destinata a diventare un riferimento chiave in materia di diritto all’oblio in rapporto ai motori di ricerca. La vicenda riguardava un soggetto assolto da accuse penali gravissime (associazione criminale di stampo mafioso), il quale lamentava che cercando il proprio nome online apparissero ancora vecchi articoli che lo collegavano a quei fatti, senza menzionare l’esito assolutorio. Google si era rifiutata di rimuovere quei risultati, sostenendo che il diritto all’oblio dovesse cedere di fronte all’interesse del pubblico a reperire notizie di quel tipo. La Cassazione, investita della questione, ha accolto il ricorso dell’interessato delineando principi di grande importanza: innanzitutto ha confermato che non esiste un diritto all’oblio “puro” e illimitato, dovendo sempre essere bilanciato con la libertà di informazione, specialmente in ambito di cronaca giudiziaria. Tuttavia, quando le informazioni online risultano obsolescenti e non aggiornate, perché ad esempio non riportano l’esito favorevole per la persona coinvolta, il soggetto ha pieno diritto di chiederne la deindicizzazione o quantomeno l’integrazione. La Corte ha indicato i fattori determinanti da considerare: il grado di notorietà dell’interessato (anche locale), la rilevanza originaria della notizia e la necessità di contestualizzazione. Ha affermato che se una notizia era stata diffusa legittimamente anni prima ma non viene aggiornata con l’indicazione dell’assoluzione intervenuta, l’interessato può pretendere che venga quantomeno apposta una nota o integrazione a corredo dell’articolo, così da fornire un quadro veritiero e completo. Un rifiuto ingiustificato da parte del gestore del sito o del motore di ricerca a fronte di tale richiesta può configurare un illecito, con conseguente obbligo di risarcire il danno morale e materiale derivante da un’informazione incompleta e lesiva. La Cassazione ha inoltre puntualizzato che Google, in qualità di titolare del trattamento dei dati indicizzati, ha responsabilità ben precise ai sensi del GDPR: deve valutare le richieste di deindicizzazione tenendo conto del tempo trascorso dalla pubblicazione originale della notizia (la Corte ha chiarito che il parametro temporale da cui partire è la data del fatto/notizia, non eventuali sviluppi successivi) e dell’eventuale venir meno dell’interesse pubblico. Non è richiesto, invece, che Google rimuova globalmente quei contenuti da tutte le versioni del motore di ricerca: in linea con l’orientamento europeo, la deindicizzazione può essere limitata alle versioni dell’UE o nazionali, lasciando ai giudici nazionali il compito di definire l’equo bilanciamento nel caso concreto.
Queste pronunce, lette nel loro insieme, tracciano un filo rosso: il sistema giuridico italiano, allineandosi anche alla giurisprudenza UE, riconosce il diritto all’oblio come strumento fondamentale per la tutela dell’identità personale nell’era digitale, ma al tempo stesso ne stabilisce confini chiari per non minare la memoria storica e la funzione informativa della stampa. La chiave sta nell’aggiornamento e contestualizzazione: una notizia vera e d’interesse pubblico può restare accessibile, purché sia contestualizzata dagli sviluppi successivi (ad esempio indicando che la persona è stata assolta) e resa meno invasiva attraverso la deindicizzazione dai motori di ricerca. In tal modo il passato non viene cancellato, ma perde l’ingiusta capacità di perseguitare per sempre chi, quel passato, lo ha ormai superato.
Merita un breve approfondimento la citata Riforma Cartabia, ovvero il complesso di modifiche normative alla giustizia penale introdotte con il D.lgs. 150/2022 (in attuazione della legge 134/2021) e altri interventi collegati. Tra le tante novità, questa riforma ha inserito disposizioni volte a garantire una più efficace tutela della privacy degli imputati una volta concluso il processo. In particolare, nell’intento di riparare al danno d’immagine sofferto da chi viene assolto o prosciolto, è stata prevista la possibilità che il giudice disponga la deindicizzazione delle notizie relative a quel procedimento. Ad esempio, è stato introdotto l’art. 64-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che consente al giudice – su istanza di parte o anche d’ufficio – di ordinare ai gestori dei motori di ricerca di deindicizzare i contenuti inerenti a una determinata vicenda giudiziaria conclusasi con provvedimento favorevole all’imputato. Si tratta di un importante riconoscimento legislativo del diritto all’oblio, che affianca la tutela giurisdizionale già esistente: ora chi esce innocente da un processo ha uno strumento in più, rapido e mirato, per impedire che il proprio nome resti associato perennemente a quell’accusa infondata. Naturalmente, anche in questo caso il provvedimento deve tenere conto della rilevanza pubblica della notizia e non può pregiudicare esigenze eccezionali di cronaca, ma segna comunque un passo avanti concreto verso la protezione dell’onore dei cittadini.
Le evoluzioni normative e giurisprudenziali degli ultimi anni mostrano come il diritto all’oblio stia assumendo un ruolo centrale nel nostro ordinamento, quale mezzo per riappropriarsi della propria vita e reputazione una volta che vicende giudiziarie o fatti di cronaca siano tramontati. Allo stesso tempo, i giudici e il legislatore sono consapevoli che questo diritto non può trasformarsi in un oblio della storia: ciò che è accaduto, specialmente se di interesse pubblico, non va cancellato ma opportunamente bilanciato. Il risultato è un approccio equilibrato: sì alla rimozione o offuscamento delle informazioni personali ormai inutilmente pregiudizievoli, ma con strumenti che preservino la correttezza dell’informazione. La direzione tracciata dalle sentenze recenti è chiara: Internet “deve dimenticare” solo quando la persistenza di una notizia lede ingiustamente i diritti di qualcuno, e sempre dopo aver valutato se vi sia ancora un interesse della collettività a ricordare. Questo equilibrio fine tutela sia l’individuo che la società nel suo complesso, garantendo che “la verità” online non rimanga ferma al primo capitolo della storia, ma rifletta anche gli ultimi.
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Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.