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Condominio: novità su parcheggi, assemblee e sicurezza - Studio Legale MP - Verona

La Suprema Corte chiarisce confini di diritti e doveri in condominio: dalle dispute sui parcheggi nelle aree comuni alla validità delle assemblee convocate via e-mail, fino alla responsabilità dei singoli per la sicurezza dello stabile.

«Buoni recinti fanno buoni vicini» – Robert Frost

Nel vivere collettivo di un condominio le questioni legali non mancano, confermando il detto antico secondo cui communio est mater rixarum (la comunione di beni è madre dei litigi). Le più recenti pronunce del 2025 offrono però nuovi punti fermi su alcuni temi critici: dal diritto di parcheggiare nelle aree comuni al corretto modo di convocare l’assemblea condominiale, fino agli obblighi di manutenzione per la sicurezza dell’edificio in assenza di un amministratore. Queste sentenze della Corte di Cassazione rafforzano la tutela dei condomini e delineano con chiarezza i confini tra i diritti dei singoli e l’interesse collettivo del condominio. Chi vive in condominio – proprietario o inquilino – può così comprendere meglio quali sono le proprie facoltà e responsabilità, evitando errori che potrebbero sfociare in annullamenti di delibere o addirittura in sanzioni. Di seguito analizziamo tre decisioni chiave, dal taglio tecnico ma di grande rilevanza pratica, che ogni amministratore e condomino dovrebbe conoscere.

 

1. Parcheggio nelle parti comuni: serve un titolo chiaro o vale la parità di uso

Una recente pronuncia della Cassazione ha fatto luce su uno dei temi più dibattuti in condominio: il diritto di parcheggiare negli spazi comuni. Con la sentenza Cass. civ., Sez. II, n. 25227/2025 (depositata il 15 settembre 2025), la Suprema Corte ha respinto il ricorso di una condomina che rivendicava un diritto esclusivo di parcheggio in un’area condominiale, basandosi su clausole del suo atto di acquisto e su precedenti delibere assembleari favorevoli. Il caso riguardava un condominio in cui l’assemblea, con una delibera del 2007, aveva regolamentato l’uso di una zona di cortile destinandola solo al passaggio verso i garage e vietando la sosta a tutti i condomini. Alcuni proprietari impugnavano la delibera, sostenendo che nei loro atti di acquisto era menzionato il diritto di parcheggiare in quell’area sin dal 1983, come confermato anche da un accordo privato del 1995 recepito dall’assemblea.

I giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello di Roma) avevano già dato torto ai condomini ricorrenti, e la Cassazione ha confermato quella linea: senza un titolo inequivoco, nessuno può vantare un posto auto riservato su proprietà comune. In primo luogo, la Corte ha ribadito che un diritto di parcheggio su area comune, per avere valore di diritto reale autonomo (simile a una servitù), deve risultare in modo chiaro dagli atti di proprietà. Nel caso in esame né il rogito degli interessati né quelli precedenti menzionavano esplicitamente un diritto del genere; anzi, precedenti sentenze passate in giudicato avevano già accertato che l’area in questione era condominiale e destinata storicamente solo a manovra e transito.

In secondo luogo, la Cassazione ha sottolineato che un accordo privato tra alcuni condomini o una delibera assembleare non bastano a creare un diritto d’uso esclusivo su una parte comune. Per incidere sui diritti reali di tutti, servirebbe il consenso unanime di tutti i partecipanti, formalizzato come richiesto dalla legge (ad esempio in un atto scritto). Nel caso concreto, la scrittura privata del 1995 si limitava a concedere un’autorizzazione temporanea di passaggio pedonale, non un vero ius parking. Di conseguenza, la successiva delibera condominiale che vietava la sosta non lesiva alcun diritto acquisito, ma anzi perseguiva un fine legittimo.

L’assemblea condominiale ha infatti il potere di disciplinare l’uso dei beni comuni per garantirne un godimento ordinato e paritario: imporre limitazioni come il divieto di parcheggio in un’area di manovra è lecito se serve a evitare intralci e se vale per tutti i condomini indistintamente. In questo caso la delibera del 2007, vietando la sosta a chiunque, mirava a mantenere libera l’area per l’accesso ai garage di tutti, senza creare privilegi. Ciò, ha affermato la Corte, non costituisce lesione dei diritti individuali, bensì una regolamentazione ragionevole nell’interesse comune.

Che cosa ci insegna questa sentenza? Prima di tutto che, in condominio, nessuno può “ritagliarsi” un uso esclusivo di un bene comune senza una base legale solida. Chi acquista un appartamento farebbe bene a verificare attentamente il proprio atto di acquisto e il regolamento condominiale: se non c’è scritto chiaramente, non si può presumere di avere diritti esclusivi su cortili, cortili o posti auto. Consuetudini verbali o accordi informali non formalizzati all’unanimità non bastano. D’altro canto, la pronuncia tutela il potere dell’assemblea di organizzare gli spazi comuni: decisioni come riservare un’area a passaggio e manovra, se prese nel rispetto delle maggioranze di legge, sono legittime e vincolanti, purché non eliminino completamente il diritto di ogni condomino di utilizzare il bene comune. In sintesi, vige il principio del pari uso: salvo diversa pattuizione unanime, le parti comuni devono rimanere a disposizione di tutti i condomini in modo equilibrato.

 

2. Convocazioni assembleari: la e-mail semplice non basta (serve la PEC o la raccomandata)

Il secondo tema cruciale affrontato dalla giurisprudenza recente riguarda le modalità di convocazione dell’assemblea condominiale. Con l’ordinanza Cass. civ., Sez. II, n. 16399/2025 (18 giugno 2025), la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito che la convocazione inviata tramite e-mail ordinaria non è valida, nemmeno se il destinatario aveva dato un’apparente disponibilità a riceverla in quel modo. Si tratta di una presa di posizione netta su una questione che negli ultimi anni ha creato incertezze fra amministratori e condòmini: l’uso della posta elettronica “comune” (non certificata) per chiamare i condomini in assemblea.

Cosa prevede la legge? L’art. 66 disp. att. c.c. stabilisce espressamente che l’avviso di convocazione deve essere comunicato con almeno cinque giorni di anticipo mediante raccomandata A/R, PEC (posta elettronica certificata), fax oppure consegna a mano (con firma di ricevuta). Ogni altra forma, sottolinea la Cassazione, non garantisce la prova della ricezione e quindi non soddisfa i requisiti legali. La posta elettronica semplice, in particolare, non fornisce alcuna certezza giuridica dell’avvenuta consegna al destinatario: non dà riscontro automatico né ha valore legale equiparato a PEC o raccomandata.

Nel caso concreto esaminato (che ha originato l’ordinanza in questione), un amministratore aveva convocato un’assemblea inviando sì le raccomandate alla maggioranza dei condomini, ma usando un’e-mail non certificata per due condomini, sostenendo che questi gli avevano fornito previamente il consenso scritto a quel metodo. In primo e secondo grado la convocazione era stata ritenuta valida, proprio in virtù di quell’assenso dei condomini interessati. La Cassazione invece ha capovolto la decisione: le norme in tema di convocazione sono di natura imperativa e non derogabili nemmeno con l’accordo delle parti. Il consenso del singolo condomino a ricevere avvisi via e-mail normale, secondo la Suprema Corte, non ha alcun valore di sanatoria, perché è diretto a eludere una forma prevista dalla legge a tutela di tutti i partecipanti.

Di conseguenza, l’assemblea così convocata era a rischio: la deliberazione adottata poteva essere annullata su ricorso del condomino assente che non aveva ricevuto l’avviso secondo le forme di rito. Proprio questo è accaduto: uno dei destinatari tramite e-mail ha impugnato la delibera sostenendo di non aver mai ricevuto la comunicazione. Alla luce dell’orientamento consolidato ora dalla Cassazione, un giudice non potrà che dichiarare irregolare la convocazione e annullabile la delibera, costringendo il condominio a ripetere l’assemblea da capo con le giuste modalità. Con evidenti perdite di tempo e costi.

L’ordinanza n. 16399/2025 lancia dunque un messaggio forte: quando si tratta di convocazioni, meglio attenersi scrupolosamente alle forme previste. La PEC è l’unico strumento digitale equiparato alla raccomandata, perché garantisce la prova di invio e consegna (ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna). La semplice e-mail no. Questo significa che l’amministratore deve sempre poter dimostrare di aver inviato l’avviso correttamente: conservarsi le ricevute di ritorno delle raccomandate, le ricevute PEC o le firme per ricevuta nel caso di consegna a mano. In caso contrario, si espone non solo all’annullamento delle decisioni assembleari, ma anche a possibili responsabilità professionali per negligenza.

Dal lato dei condomini, questa pronuncia chiarisce i loro diritti: se un condomino non viene convocato con i mezzi dovuti (e non partecipa all’assemblea), può far valere l’irregolarità e chiedere l’annullamento delle delibere prese. Ovviamente, è sempre consigliabile impugnare entro i termini di legge (30 giorni dall’avviso di ricevimento del verbale) per far valere tempestivamente il vizio. In definitiva, niente scorciatoie nelle convocazioni: la comodità dell’e-mail non vale il rischio di invalidare un’assemblea intera. L’uso dei canali formali garantisce invece stabilità alle decisioni condominiali e tutela il diritto di tutti ad essere correttamente informati.

3. Sicurezza dell’edificio: obblighi dei condomini se manca l’amministratore

L’ultimo importante aggiornamento giurisprudenziale attiene alla sicurezza e manutenzione straordinaria negli edifici condominiali, soprattutto in situazioni critiche in cui manca l’amministratore o comunque l’assemblea non riesce a deliberare. In tali casi, chi risponde se lo stabile minaccia rovina o vi sono lavori urgenti non eseguiti? La Cassazione, con la sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 14225/2025 (udienza 19 marzo 2025, dep. 11 aprile 2025), ha affermato un principio rigoroso: in mancanza di un amministratore formalmente nominato, l’obbligo di intervenire per garantire la pubblica incolumità grava su ciascun condomino proprietario.

Questa pronuncia nasce in sede penale, dalla condanna di due proprietari di un edificio condominiale fatiscente a Napoli. L’immobile versava in gravi condizioni di dissesto statico, tanto che il Comune aveva emesso varie ordinanze urgenti imponendo ai proprietari di eseguire lavori di messa in sicurezza. Queste ingiunzioni tuttavia erano rimaste inattuate: l’assemblea condominiale di fatto non operava e gli interessati non avevano fatto i lavori, anche a causa dell’ostruzionismo di un altro condomino che impediva di affidare gli interventi alle ditte incaricate, rifiutandosi anche di contribuire alle spese. Il Tribunale, rilevato il pericolo per la pubblica incolumità, aveva dichiarato i due condomini responsabili della contravvenzione di omissione di lavori in edifici che minacciano rovina (art. 677 cod. pen.), infliggendo a ciascuno un’ammenda. I proprietari ricorrevano in Cassazione sostenendo che la colpa del mancato intervento non fosse loro, dato che un altro condomino bloccava ogni iniziativa e che comunque essi avevano tentato di attivarsi.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando principi di grande interesse anche oltre lo specifico caso penale. I giudici sottolineano che la sicurezza strutturale dell’edificio è un dovere inderogabile dei proprietari. In assenza di un amministratore, o se l’assemblea non riesce a deliberare, non può valere come scusa il disaccordo interno: il singolo condomino non può lavarsi le mani, ma deve attivarsi in ogni modo ragionevole per rimuovere il pericolo. Nel caso di specie, la Cassazione osserva che i condomini diligenti avrebbero potuto percorrere varie strade per superare l’empasse: ad esempio, anticipare loro stessi la quota del condomino moroso per far partire i lavori indispensabili, salvo poi agire in regresso per recuperare forzosamente quella somma; oppure rivolgersi al giudice per ottenere un provvedimento d’urgenza che imponesse al condomino riottoso di contribuire. Il fatto di non aver esplorato queste possibilità ha lasciato gli immobili in pericolo, e ciò è bastato a configurare la loro responsabilità. In altre parole, la mancata esecuzione dei lavori non era dovuta a una causa di forza maggiore tale da scagionare i ricorrenti nemmeno sotto il profilo della colpa.

Un passaggio chiave della sentenza afferma che l’obbligo penalmente sanzionato di provvedere ai lavori necessari per scongiurare pericoli (art. 677 c.p.) ricade sul singolo condomino quando non vi sia una volontà assembleare che si forma (perché l’assemblea non decide o manca l’amministratore). Tale obbligo opera indipendentemente dall’origine del pericolo e da chi lo abbia eventualmente causato: se la facciata minaccia crollo, ogni proprietario ne risponde, punto. L’amministratore di condominio – quando c’è – è certamente il primo garante della sicurezza, tenuto a intervenire e ad esempio transennare o interdìre l’area pericolante per evitare danni a persone. Ma se l’amministratore non c’è, la responsabilità ricade sui proprietari.

Questa decisione è un monito importante: la vita in condominio comporta non solo diritti, ma anche doveri indivisibili verso terzi. Ogni condomino deve aver cura che dalle parti comuni non derivi danno a persone o cose; in caso di ordini urgenti delle autorità (come ordinanze sindacali), tutti sono tenuti a cooperare per adempiere. Chi resta passivo rischia conseguenze non solo civili (ad esempio dover risarcire eventuali danni), ma perfino sanzioni penali se viola norme poste a tutela della pubblica incolumità. Dunque, se nel proprio stabile vi sono lavori urgenti di sicurezza da eseguire – ad esempio caduta di calcinacci, tetto pericolante, rischio di crollo – non è ammesso che i condomini si blocchino a vicenda in eterno: qualcuno deve agire. È preferibile convocare subito un’assemblea straordinaria e nominare eventualmente un amministratore ad acta, oppure interessare il tribunale per le misure del caso. L’importante è non ignorare le diffide delle autorità.

In sintesi, la Cassazione con questa sentenza ha ridestato le coscienze nei condomini dormienti: la sicurezza non può attendere le lungaggini delle liti condominiali. Il singolo che prende l’iniziativa per mettere in sicurezza lo stabile (anche anticipando costi) è tutelato dal diritto e potrà rivalersi sugli altri in un secondo momento; al contrario, l’inerzia collettiva può sfociare in condanne e responsabilità personali. Un condominio senza amministratore non è una terra di nessuno: ogni proprietario ne è custode e garante verso l’esterno.

Per la vita in condominio, quindi, nessun privilegio nascosto sui beni comuni (posti auto & affini) senza accordo unanime e valido; nessuna scorciatoia sulle regole formali (convocazioni via e-mail semplice da evitare tassativamente); nessuna scusa per i ritardi nei lavori urgenti (i proprietari rispondono in solido della sicurezza). Questi principi, oltre a prevenire contenziosi, favoriscono una convivenza più ordinata e consapevole: ogni condomino sa meglio quali sono i propri diritti ma anche i propri obblighi inderogabili.

Per gli amministratori di condominio, in particolare, le sentenze richiamate rappresentano linee guida da seguire scrupolosamente. Vietato indulgere a prassi “semplificate” che violano la legge (pena l’annullamento delle assemblee); doveroso far rispettare l’uguaglianza nell’uso delle cose comuni; fondamentale intervenire tempestivamente in caso di pericoli, coinvolgendo tutti i proprietari nelle decisioni necessarie. In una parola: rigore. Il diritto condominiale è fatto di equilibrio tra interessi contrapposti – individuali e collettivi – e la Cassazione, con queste pronunce, ha voluto ribilanciare la bilancia (è proprio il caso di dirlo) a favore della legalità e sicurezza, condizioni indispensabili per una pacifica convivenza negli edifici condivisi.

“Summum ius, summa iniuria” scrivevano i latini: applicare rigidamente una norma può talvolta produrre un’ingiustizia. Ma nelle vicende condominiali odierne, abbiamo visto che il rispetto rigoroso delle regole – lungi dall’essere un eccesso di zelo – è ciò che garantisce il massimo equilibrio e tutela per tutti.

In definitiva, chi vive in condominio è chiamato a un doppio ruolo: godere appieno dei propri spazi e diritti, ma anche farsi carico, quando occorre, delle responsabilità comuni. Conoscere e seguire le indicazioni della più recente giurisprudenza aiuta ad evitare passi falsi e a gestire in modo intelligente le situazioni critiche, a beneficio proprio e dei propri vicini. E se le questioni legali si complicano, affidarsi a professionisti esperti potrà fare la differenza tra un litigio rovinoso e una soluzione efficace.

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  • 06 novembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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