Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator
Studio Legale MP - Verona logo
Ingiusta detenzione: ottenere il risarcimento dallo Stato - Studio Legale MP - Verona

Lo Stato deve risarcire chi ha subìto una detenzione ingiusta. Ecco come funziona l’indennizzo previsto dalla legge, quali sono i requisiti, gli importi spettanti e cosa dicono le più recenti sentenze (2024–2025) a tutela dei diritti dei detenuti.


Cos’è la riparazione per ingiusta detenzione?

La riparazione per ingiusta detenzione è l’istituto previsto dalla legge italiana per indennizzare chi è stato detenuto senza colpa, cioè risultato poi estraneo al reato contestato. In altre parole, se una persona è stata in custodia cautelare (carcere, arresti domiciliari o fermo) oppure ha scontato una pena detentiva per una condanna che viene successivamente annullata con assoluzione o proscioglimento, ha diritto a un risarcimento dei danni dallo Stato. Questo diritto è stabilito dall’art. 314 del codice di procedura penale ed è uno strumento di “equa riparazione” per la ingiusta privazione della libertà personale. Non si tratta di un risarcimento pieno equiparabile a quello per qualsiasi illecito civile, ma di un indennizzo di natura speciale e solidaristica: lo Stato riconosce di aver incarcerato ingiustamente un individuo innocente e gli offre una somma di denaro a titolo di riparazione morale ed economica.

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.” Questa celebre frase di Piero Calamandrei ben esprime il valore inestimabile della libertà perduta. Chi è stato detenuto ingiustamente ha subito un torto gravissimo che nessuna somma potrà davvero colmare. Tuttavia, l’ordinamento cerca di ristorare almeno in parte il danno (morale, fisico, professionale, familiare) con un indennizzo statale. La riparazione per ingiusta detenzione rappresenta dunque un riconoscimento istituzionale dell’errore commesso e un atto di giustizia riparativa verso la vittima di un’aberrazione giudiziaria.

 

Chi ha diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione

Vediamo innanzitutto quando scatta il diritto al risarcimento per detenzione ingiusta. I presupposti principali sono due:

  • Esito favorevole del procedimento penale: l’interessato dev’essere stato assolto con formula piena (perché il fatto non sussiste, perché non lo ha commesso, etc.), oppure prosciolto/archiviato, oppure la sua condanna dev’essere stata annullata in revisione riconoscendo un errore giudiziario. In sintesi, la persona deve risultare innocente rispetto ai fatti per i quali era stata detenuta. È importante notare che anche chi ha patito custodia cautelare e poi ottiene un proscioglimento per prescrizione o amnistia potrebbe avere diritto all’indennizzo se nel provvedimento il giudice afferma in modo espresso la sua innocenza (art. 314 co.2 c.p.p.). Dunque non solo l’assoluzione nel merito, ma anche altre forme di chiusura del caso possono aprire la strada al risarcimento, purché venga riconosciuto che la detenzione è risultata “ingiusta” in senso sostanziale o formale.
  • Assenza di condotta dolosa o gravemente colposa dell’interessato: questo requisito è fondamentale ma spesso poco compreso dai non addetti ai lavori. La legge infatti esclude l’indennizzo se la persona detenuta vi ha dato causa con dolo o colpa grave (art. 314 co.1 c.p.p.). Ciò significa che, anche se poi è stata assolta, non verrà risarcito chi ha contribuito in maniera determinante a provocare la propria detenzione attraverso un comportamento altamente imprudente, scorretto o sospetto. Ad esempio, fornire false informazioni o autoaccusarsi ingiustamente, cercando magari di proteggere qualcun altro, è un comportamento doloso che esclude qualsiasi riparazione in caso di successiva assoluzione. Ma la giurisprudenza ha chiarito che anche condotte meno estreme, ma gravemente imprudenti, possono impedire l’indennizzo.

Cassazione Penale, Sez. IV, sent. n. 23673 del 13 giugno 2024 ha ribadito che va negato il risarcimento a chi, “pur mirando ad altri scopi, con evidente e macroscopica negligenza o imprudenza crea una situazione tale da costituire una ragione prevedibile di intervento dell’autorità giudiziaria”. In quel caso concreto, un uomo inizialmente arrestato per maltrattamenti in famiglia (poi assolto) si era reso protagonista di comportamenti così violenti e allarmanti da giustificare ampiamente, ab initio, l’adozione di misure cautelari nei suoi confronti. La sua condotta era connotata da “colpa grave”, dunque il fatto che in giudizio sia emersa l’innocenza non gli ha aperto comunque la porta all’indennizzo. Allo stesso modo, la Cassazione Penale, Sez. IV, sent. n. 16402 del 9 aprile 2024 (ud. 16/05/2024) ha confermato la linea rigorosa: perfino un’apparente connivenza “passiva” in un reato altrui può integrare quella colpa grave che fa perdere il diritto alla riparazione. 

Nel caso esaminato, la ricorrente era stata ingiustamente detenuta per alcuni mesi, ma frequentava abitualmente persone coinvolte in traffici illeciti e tollerava certe attività criminose: tale condotta ambigua, pur senza prova di un suo reato, è stata considerata indice di grave negligenza, sufficiente a escludere l’indennizzo.

Questi esempi sottolineano un principio cruciale: l’indennizzo per ingiusta detenzione non scatta automaticamente con l’assoluzione. Occorre dimostrare che la persona non abbia contribuito in modo decisivo all’errore giudiziario. In pratica, viene premiato solo l’innocente “virtuoso” – colui che subisce passivamente l’ingiustizia – mentre chi, ad esempio, si mette nei guai da solo con comportamenti sopra le righe o vicino all’illegalità non viene risarcito. È una linea dura (“summum ius, summa iniuria”, verrebbe da commentare: la giustizia applicata al massimo rigore può sembrare sommamente ingiusta in casi del genere), ma dettata dall’idea che lo Stato debba indennizzare solo chi è stato privato della libertà senza alcuna colpa. Chi invece, pur senza commettere reati, ha tenuto comportamenti imprudenti tali da attirare fortemente su di sé il sospetto e l’azione penale, si considera abbia in parte “provocato” la propria detenzione cautelare: in questi casi la legge non riconosce alcun ristoro economico.

 

Importo dell’indennizzo: massimale, calcolo e criterio equitativo

Uno degli aspetti più tecnici della riparazione per ingiusta detenzione riguarda quanto può essere liquidato a titolo di indennizzo. Molti potrebbero pensare che il risarcimento sia proporzionato ai danni effettivamente subiti (anni di vita persi, traumi psicologici, perdita del lavoro, ecc.). In realtà, la legge stabilisce un tetto massimo e un criterio standard per quantificare l’indennità, indipendentemente dalle specifiche conseguenze patite da ciascuno.

Il massimale previsto per legge (art. 315 c.p.p.) è attualmente di 516.456,90 euro. Questa è la somma massima che può essere riconosciuta, anche nei casi di detenzione ingiusta di lunga durata. Tale cifra corrisponde, per espressa previsione normativa, all’indennizzo massimo per sei anni di detenzione indebita. Ne consegue un calcolo base di circa 235,82 euro per ogni giorno di ingiusta detenzione.

In pratica, il legislatore ha voluto dare un valore economico uniforme al “giorno di libertà perduta” (poco meno di 240 euro al giorno), fino a coprire al massimo sei anni di carcere ingiusto. Se una persona è stata detenuta per un periodo inferiore, il calcolo proporzionale si farà su quel numero di giorni; se, al contrario, ha passato più di sei anni incarcerato da innocente, comunque non potrà ottenere più di 516 mila euro totali. Si tratta di una scelta discutibile ma chiara: il risarcimento ha natura di indennizzo forfettario e solidaristico, non di risarcimento integrale del danno civile. 

La Cassazione ha infatti sottolineato che la riparazione per ingiusta detenzione “non ha natura di risarcimento del danno, ma di semplice indennità basata su principi di solidarietà sociale”, estranea ai criteri civilistici del lucro cessante e danno emergente. In altre parole, non si procede a quantificare precisamente tutto il pregiudizio sofferto dall’innocente (cosa che probabilmente porterebbe a cifre ben superiori, specie per chi ha perso il lavoro, la reputazione o la salute in carcere); si riconosce piuttosto un importo equitativo standard, come gesto riparatorio simbolico da parte dello Stato verso il cittadino offeso.

Detto questo, la somma concretamente liquidata nel caso specifico può variare in diminuzione o in aumento rispetto al semplice calcolo aritmetico (e fermo restando il tetto massimo). La norma affida infatti al giudice della riparazione un certo margine di discrezionalità “equitativa”. La Cassazione Penale, Sez. IV, sent. n. 24007 del 6 settembre 2024 ha offerto una dettagliata sintesi dei criteri di calcolo e aggiustamento dell’indennizzo:

  • Base di calcolo giornaliera: il punto di partenza è sempre il parametro aritmetico di circa 235,82 € al giorno di detenzione ingiustamente subita. Questo è il valore medio individuato dividendo il massimale per i giorni in sei anni.
  • Adeguamenti in aumento: il giudice può riconoscere un surplus rispetto al base pro die se vi sono circostanze eccezionalmente gravi o danni aggiuntivi subiti dall’istante. Ad esempio, se la persona durante la detenzione ha riportato un grave pregiudizio alla salute, oppure se la privazione della libertà gli ha causato la perdita irreparabile di affetti familiari o della posizione lavorativa, il tribunale può ritenere opportuno aumentare l’indennizzo. Queste circostanze devono però essere concrete e specifiche, inerenti al caso singolo, e soprattutto socialmente apprezzabili. In passato la giurisprudenza ha riconosciuto aumenti in presenza di condizioni particolarmente umilianti di detenzione, oppure se l’ingiusta accusa ha avuto enorme risonanza mediatica devastando l’immagine della persona. Ogni incremento deve comunque essere motivato puntualmente, per evitare arbitri.
  • Adeguamenti in riduzione: viceversa, la condotta dell’istante durante la vicenda può suggerire una decurtazione dell’importo. Attenzione: qui non parliamo dei casi di colpa grave che esclude del tutto l’indennizzo (già trattati sopra, in cui nulla è dovuto), bensì di situazioni di colpa lieve o altri elementi attenuanti. Ad esempio, se il richiedente ha tenuto un comportamento solo lievemente imprudente (insufficiente a negargli il diritto, ma comunque censurabile) oppure se, pur innocente, ha contribuito in minima parte a generare equivoci, il giudice può ridurre l’indennità di base. La Cassazione ha chiarito che la colpa lieve non impedisce il risarcimento, ma può giustificarne la riduzione. Allo stesso modo, se il periodo detentivo ingiusto è coinciso in parte con altre restrizioni legittime (es. l’individuo era detenuto anche per altra causa), l’indennizzo può essere commisurato solo al danno effettivo. In ogni caso, quando viene liquidato un importo inferiore al calcolo standard, il giudice deve motivare specificamente il perché della decurtazione, indicando i parametri valutati e spiegando perché le conseguenze subite dall’ingiusta detenzione risultano in parte già compensate dal “normale” valore base o attenuate da circostanze particolari.

In sostanza, il criterio di calcolo dell’indennizzo parte da un valore uniforme per tutti (equo ma necessariamente generico) e poi viene personalizzato entro certi limiti. Ciò permette di dare una risposta più giusta ai casi concreti, evitando sia liquidazioni simboliche irrisorie, sia risarcimenti sproporzionati. La Cassazione ha comunque avvertito che l’equità non deve mai sconfinare nell’arbitrio: ogni scostamento dal parametro deve essere giustificato in modo logico e trasparente, altrimenti la decisione potrà essere annullata.

Vale la pena ricordare che questa equa riparazione per ingiusta detenzione – pur con tutti i suoi limiti – ha un peso finanziario non indifferente per lo Stato: i dati più recenti (Relazione Ministero Giustizia 2024) indicano che nell’anno 2024 sono stati liquidati circa 26,9 milioni di euro in indennizzi, con un importo medio per ordinanza di 48 mila euro circa. Ciò significa che ogni anno centinaia di persone in Italia vengono riconosciute vittime di detenzione indebita e risarcite dallo Stato. Un fenomeno che fa riflettere sull’importanza di prevenire errori giudiziari e sull’impatto umano e sociale che questi ultimi comportano.

 

Procedura per chiedere il risarcimento e termini

Chi ritiene di aver diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione deve attivarsi in tempi precisi e seguire un iter ben definito. Ecco i punti chiave della procedura:

  • Competenza: la domanda di riparazione si presenta alla Corte d’Appello (sezione penale) competente per il distretto in cui è stato definito il processo. Di solito coincide con la corte d’appello del luogo dove si è svolto il giudizio che si è concluso con l’assoluzione o proscioglimento dell’interessato.
  • Termine di decadenza: è fondamentale non lasciar trascorrere troppo tempo. La richiesta va presentata entro 2 anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o assoluzione è divenuta definitiva (passata in giudicato). Decorso questo termine biennale, il diritto si estingue e non potrà più essere fatto valere. Ad esempio, se sono stato assolto con sentenza definitiva il 1° settembre 2023, avrò tempo fino al 1° settembre 2025 per depositare l’istanza di riparazione; oltre quella data la domanda sarà dichiarata irricevibile. La Cassazione ha specificato anche come conteggiare il termine in casi particolari (ad esempio, se dopo l’assoluzione la procura tenta inutilmente un ricorso tardivo): in ogni caso, conviene muoversi tempestivamente senza aspettare l’ultimo momento.
  • Forma e contenuto della domanda: l’istanza di riparazione è un atto di natura penale (anche se produce effetti economici), tipicamente redatto da un avvocato. Deve indicare i dati del procedimento concluso, le circostanze dell’ingiusta detenzione (periodo e tipo di misura sofferta) e gli elementi a sostegno del diritto all’indennizzo (es. l’assenza di colpa grave a carico del richiedente). È utile allegare documentazione che provi eventuali conseguenze subite (danni alla salute, spese legali sostenute, etc.) per orientare il giudice nella quantificazione equa.
  • Notifica al Ministero: la parte “resistente” in questi procedimenti è il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), che rappresenta lo Stato chiamato a pagare. La domanda va notificata quindi anche al MEF, spesso tramite l’Avvocatura dello Stato, che potrà costituirsi per eventualmente opporsi.
  • Udienza in camera di consiglio: la Corte d’Appello tratta la richiesta in camera di consiglio, ovvero in una procedura semplificata e non pubblica, con la partecipazione del Pubblico Ministero e dei difensori. Di solito non c’è un vero e proprio dibattimento, ma i giudici esaminano gli atti, possono acquisire documenti e all’esito decidono se accogliere o rigettare l’istanza. Se la accolgono, emettono un’ordinanza motivata che liquida la somma dovuta al richiedente, tenendo conto dei criteri visti sopra. Se la rigettano (per mancanza dei presupposti, o ritenendo che vi fosse colpa grave, etc.), emettono un’ordinanza di diniego.
  • Impugnazioni: contro la decisione della Corte d’Appello si può ricorrere in Cassazione (se ci sono motivi di legittimità da far valere, ad es. errori di diritto o vizi di motivazione). La Cassazione può confermare la decisione o annullarla (eventualmente disponendo un nuovo esame). È importante sapere che il ricorso in Cassazione non sospende il pagamento: quindi se la Corte d’Appello liquida un indennizzo, lo Stato deve versarlo anche se ha impugnato, salvo poi eventualmente chiedere la restituzione se in Cassazione il provvedimento viene annullato.

Un aspetto interessante, chiarito di recente, riguarda le spese legali in Cassazione se il ricorso viene rigettato. Normalmente, chi perde un giudizio può essere condannato a rimborsare le spese di controparte. Ma nella riparazione per ingiusta detenzione la situazione è particolare: spesso il Ministero dell’Economia (parte resistente) neppure si costituisce, lasciando che sia la Corte a decidere sul ricorso del privato. Cassazione Penale, Sez. IV, sent. n. 26952 del 20 giugno 2024 ha stabilito che il Ministero, se risulta vincitore in Cassazione, può ottenere la liquidazione delle spese processuali solo se ha svolto un’effettiva attività difensiva per contrastare il ricorso dell’istante[. In altre parole, se l’Avvocatura dello Stato non si è attivata (nemmeno con una memoria scritta) per resistere alla pretesa indennitaria, nonostante il rigetto del ricorso la Corte non gli riconoscerà alcun rimborso spese. 

Questo principio tutela il richiedente da oneri eccessivi: chi vede bocciata la propria istanza in Cassazione non sarà costretto a pagare le spese dello Stato a meno che lo Stato stesso non abbia effettivamente dovuto impiegare risorse per difendersi. Dunque, anche nell’eventualità di un esito sfavorevole, il cittadino non subirà automatica “doppia beffa” (niente indennizzo e in più le spese da pagare), specie se l’Avvocatura non è intervenuta attivamente contro di lui.

 

Errori giudiziari e altre ipotesi di risarcimento da parte dello Stato

Fin qui abbiamo parlato della riparazione per misure cautelari o pene detentive rivelatesi infondate prima di una condanna definitiva o a seguito di assoluzione in appello. Esiste un caso affine ma distinto: la riparazione per errore giudiziario in senso stretto, disciplinata dall’art. 643 c.p.p. Questa si riferisce a quando una persona è stata addirittura condannata in via definitiva ingiustamente (magari scontando anni di carcere da colpevole dichiarato) e poi, in un processo di revisione, viene riconosciuta l’erroneità del verdetto e dichiarata innocente. In tali situazioni drammatiche (si pensi ai casi noti di persone scarcerate dopo decenni per revisione del processo), lo Stato deve parimenti un risarcimento. La procedura e i criteri di calcolo dell’indennizzo per errore giudiziario sono simili a quelli visti per l’ingiusta detenzione, con la differenza che il termine di 2 anni decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione che ha prosciolto l’interessato. 

È doveroso menzionare questo istituto per completezza, sebbene sia meno frequente, in quanto per fortuna pochi errori giudiziari arrivano alla condanna definitiva prima di essere corretti.

Oltre agli errori nei provvedimenti restrittivi, vi sono altre situazioni in cui un cittadino può chiedere danni allo Stato per ingiustizie subite in ambito penale. Un campo particolarmente delicato riguarda le violazioni dei diritti umani dei detenuti. Anche chi era effettivamente colpevole e sta legittimamente scontando una pena detentiva conserva dei diritti inviolabili (alla vita, alla salute, alla dignità). Se lo Stato, nell’esercizio della custodia, viola grossolanamente questi diritti, può essere chiamato a risponderne civilmente. Ad esempio, condizioni di detenzione inumane o degradanti (celle sovraffollate, mancanza di bisogni primari, trattamenti disumani) possono dar luogo a risarcimenti: dal 2013 in poi, sull’onda di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’Italia ha introdotto rimedi come l’art. 35-ter Ordinamento Penitenziario, che permette al detenuto di ottenere sconti di pena o indennizzi monetari per periodi di detenzione subiti in condizioni contrarie all’art. 3 CEDU (trattamenti inumani e degradanti).

Un caso di grande attualità è la tutela del diritto alla salute in carcere. Le autorità hanno il dovere di garantire cure adeguate ai detenuti e di non sottoporli a pene che diventino contrarie al senso di umanità. La Corte EDU, sentenza 10 aprile 2025 (Morabito c. Italia), ha condannato l’Italia per aver mantenuto al 41-bis (il regime detentivo più duro) un detenuto ultra-novantenne affetto da Alzheimer e grave decadimento cognitivo. I giudici europei hanno ritenuto che la protrazione automatica del carcere duro, senza considerare l’evidente deterioramento mentale del detenuto, costituisse un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 CEDU. Questo pronunciamento richiama lo Stato a un maggiore rispetto della dignità anche verso chi ha commesso gravi crimini: la pena non può trasformarsi in un “fine pena mai” sanitario o in una forma di tortura bianca. Sul piano pratico, la condanna europea comporta per l’Italia l’obbligo di rimuovere le cause della violazione (in quel caso, riesaminare il regime speciale) e di corrispondere un equo indennizzo al detenuto per il pregiudizio subito, oltre alle spese legali.

Anche i casi di decesso o lesioni di detenuti per omissioni dello Stato possono dar luogo a azioni risarcitorie da parte dei familiari. Un esempio importante: Cassazione Civile, Sez. III, ord. n. 29826 del 19 novembre 2024, in cui la Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria per la morte di un giovane detenuto tossicodipendente, deceduto in cella per overdose di stupefacenti. Secondo la Cassazione, il carcere aveva il dovere di impedire l’introduzione di droga all’interno e di vigilare adeguatamente su un soggetto notoriamente fragile (il ragazzo era in programma terapeutico SERT appena prima dell’arresto). La mancata prevenzione di un evento del genere costituisce una colpa omissiva grave a carico dell’amministrazione, che ha violato gli obblighi di garantire la sicurezza e la salute dei reclusi. 

In questo caso la famiglia del detenuto ha ottenuto un risarcimento, sebbene la Corte abbia anche rilevato un concorso di colpa del danneggiato (che volontariamente assunse la sostanza), riducendo proporzionalmente l’importo dovuto. Il principio affermato è chiaro: lo Stato risponde civilmente dei danni subiti dal detenuto quando non ha adottato le misure doverose per tutelarne i diritti fondamentali (vita, integrità, salute). Ciò può riguardare episodi di violenze non impedite, suicidi in carcere per negligenza nella sorveglianza, mancate cure mediche tempestive, e situazioni analoghe. Si tratta di cause di responsabilità civile extracontrattuale contro la Pubblica Amministrazione (Ministero della Giustizia in primis), da intentare davanti al giudice ordinario civile.

Per un cittadino non esperto, può sembrare sorprendente che lo Stato debba risarcire anche “colpevoli” in certe circostanze. In realtà, è espressione di uno Stato di diritto maturo: la pena deve rispettare limiti di umanità e legalità, e quando l’amministrazione penitenziaria sbaglia, ne risponde come qualsiasi altro soggetto. Ciò rafforza la fiducia nella giustizia, perché dimostra che nessuno è al di sopra della legge – nemmeno lo Stato stesso, che anzi è tenuto a dare l’esempio nel rispettare i diritti umani.

 

Conclusioni: tutela legale e importanza di un supporto esperto

Affrontare una vicenda di ingiusta detenzione o altre gravi violazioni subìte per mano dello Stato è emotivamente e tecnicamente difficile. Spesso la persona vittima di un errore giudiziario o di un abuso in carcere esce provata, disorientata e sfiduciata dalle istituzioni. Eppure, è proprio in questi casi che l’ordinamento offre gli strumenti per ottenere giustizia e ristoro. Conoscere i propri diritti è il primo passo: sapere che esiste la possibilità di chiedere un indennizzo, che ci sono termini da rispettare e criteri ben precisi, permette di non perdere un’occasione di riconoscimento morale (oltre che materiale) del torto subito.

Tuttavia, muoversi in autonomia in questi ambiti non è semplice. Le norme sono complesse, la giurisprudenza è in continua evoluzione (come abbiamo visto con le sentenze più recenti) e ogni caso presenta sfumature particolari. Per questo è fondamentale affidarsi a professionisti esperti in materia di risarcimento da ingiusta detenzione e diritti dei detenuti. Uno studio legale competente potrà valutare attentamente la situazione individuale, raccogliere le prove necessarie (documenti processuali, certificati medici, testimonianze) e predisporre una strategia vincente per ottenere il massimo indennizzo possibile. Inoltre, gli avvocati sapranno contrastare eventuali obiezioni dello Stato (ad esempio eccezioni di colpa grave) e sostenere la domanda con gli argomenti giuridici più aggiornati.

Contattaci: Se tu o un tuo familiare siete stati coinvolti in un caso di detenzione ingiusta, errore giudiziario o avete subìto violazioni di diritti in carcere, non esitare a reagire. Contatta subito lo Studio Legale MP: il nostro team, con professionalità e dedizione, valuterà la tua vicenda e ti guiderà passo dopo passo per far valere i tuoi diritti. Ogni ingiustizia merita di essere riparata – noi siamo al tuo fianco per ottenere il risarcimento e la giustizia che ti spettano, trasformando un torto subito in un nuovo inizio.

Hai bisogno di assistenza o di un preventivo?

  • 05 settembre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.