Il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023) ha sostituito dal 2023 la precedente normativa in materia di appalti, introducendo principi guida innovativi. Tra questi spiccano il principio del risultato – che impone alle stazioni appaltanti di perseguire il miglior esito possibile dell’affidamento, in termini di qualità e tempi – e il principio della fiducia, che mira a snellire le procedure confidando nella correttezza dell’azione amministrativa. Accanto ad essi, resta centrale il principio dell’accesso al mercato, volto a garantire massima concorrenza e partecipazione alle gare. In sintesi, il legislatore ha cercato di congegnare un sistema più agile e digitale, con meno burocrazia e più responsabilità per le stazioni appaltanti, nel solco degli obiettivi del PNRR.
Tuttavia, «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», scriveva Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo. Ed è compito degli interpreti – giudici in primis – assicurarsi che le novità non tradiscano i principi fondamentali. Le prime pronunce giudiziali del 2024–2025 confermano infatti che, al di là dei proclami di semplificazione, non vengono meno i tradizionali presìdi di legalità, trasparenza e tutela della concorrenza. Vediamo allora come i tribunali hanno applicato concretamente alcune delle nuove norme chiave.
Una delle questioni dove si temeva un allentamento dei vincoli è il principio di rotazione negli affidamenti sotto-soglia. Il nuovo Codice conferma che, nelle procedure negoziate semplificate o affidamenti diretti, la Pubblica Amministrazione non può favorire sempre gli stessi operatori. In pratica l’ente deve, di regola, evitare di riaffidare un appalto al contraente uscente, salvo adeguata motivazione.
Su questo tema è intervenuta una sentenza di grande rilievo: Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 4897/2025. Il Consiglio di Stato ha ribadito che il principio di rotazione resta un caposaldo anche nel vigore del nuovo Codice. Nel caso concreto, una ASL aveva affidato nuovamente un servizio al precedente gestore tramite una procedura semplificata, preceduta da un mero avviso di manifestazione di interesse rivolto a pochi operatori di un elenco ristretto. I giudici hanno confermato l’annullamento di quell’aggiudicazione, perché in sostanza si era trattato di un affidamento diretto mascherato: la consultazione preventiva non era stata aperta a tutti i potenziali interessati, eludendo la concorrenza. Il Consiglio di Stato ha dunque sancito che invitare solo alcuni fornitori preselezionati non basta a bypassare il divieto di riaffidamento al gestore uscente. Anche se l’appalto successivo non era identico al precedente, era nello stesso settore e quindi la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare la rotazione (ossia escludere o almeno motivare in modo stringente la scelta dello stesso operatore per la seconda volta). La violazione del principio di rotazione rende illegittimo l’affidamento, come già affermato dalla giurisprudenza precedente. Questa continuità interpretativa evidenzia che le regole del nuovo Codice devono essere lette in armonia con i valori antitrust: evitare rendite di posizione e garantire pari opportunità ai concorrenti. Le stazioni appaltanti sono dunque richiamate a un rigoroso rispetto di tale principio, specie ora che le procedure sotto-soglia sono rese più flessibili: la flessibilità non può tradursi in arbitrarietà. In definitiva, la pronuncia n. 4897/2025 conferma che “pacta sunt servanda”: i principi cardine (come la rotazione) vincolano ancora le amministrazioni, che non possono disattenderli in nome della semplificazione.
Un altro ambito interessato dalle prime decisioni riguarda l’interpretazione dei requisiti tecnici e professionali richiesti ai concorrenti e il cosiddetto principio di equivalenza nelle offerte. Il nuovo Codice tende a favorire la partecipazione più ampia possibile alle gare, evitando clausole eccessivamente restrittive nei bandi. A confermarlo è intervenuta la sentenza Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 2050/2025, che ha fatto chiarezza su un caso di appalto “misto” (comprendente servizi e lavori) svolto da un raggruppamento di imprese.
Il Consiglio di Stato ha affermato che la lex specialis di gara (cioè il bando e il disciplinare) non può imporre obblighi più gravosi di quelli previsti dal diritto europeo. In particolare, richiamando anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, i giudici hanno ribadito il principio di equivalenza: un prodotto, servizio o requisito tecnico equivalente a quello richiesto deve essere accettato, e non si possono escludere offerte conformi alle norme UE solo per formalismi nazionali. Nel caso di specie, si contestava l’obbligo per la società capogruppo di un RTI verticale di eseguire anche prestazioni secondarie oltre a quelle principali: il Consiglio di Stato ha escluso tale obbligo, ritenendolo ingiustificato e anticoncorrenziale. Ogni membro del raggruppamento può svolgere le attività per cui ha qualificazione, senza dover coprire necessariamente tutte le categorie di prestazioni: imporre il contrario avrebbe limitato inutilmente la partecipazione alle gare complesse. Questa pronuncia, dunque, apre il mercato e conferma un indirizzo pro-concorrenziale: le stazioni appaltanti devono evitare di introdurre nei bandi requisiti o oneri non proporzionati e non giustificati dall’oggetto dell’appalto. Il messaggio alle PA è chiaro: il nuovo Codice va applicato privilegiando la sostanza (cioè l’effettiva capacità dell’offerente di eseguire la commessa) rispetto alla forma, e lasciando spazio a soluzioni alternative equivalenti che soddisfino le esigenze della gara. Ciò in linea con la normativa comunitaria e con l’obiettivo di non restringere il confronto competitivo oltre lo stretto necessario. In sintesi, grazie anche all’arbitrato dei tribunali, il sistema sta assicurando che “summum ius, summa iniuria” non diventi realtà: evitare un’applicazione eccessivamente rigida o formale delle regole che rischi di tradursi in ingiustizia, privilegiando invece interpretazioni che garantiscano efficienza e pluralità di offerte.
Tra le cause di esclusione automatica dalle gare pubbliche, una delle più discusse riguarda le violazioni fiscali e contributive da parte delle imprese partecipanti. La normativa prevede che un concorrente venga escluso se ha debiti fiscali o previdenziali “gravi” definitivamente accertati e non regolarizzati. Il limite quantitativo di gravità è stato fissato (dall’art. 80 del vecchio Codice e richiamato nel nuovo) in un importo sopra i 5.000 euro. Alcune imprese hanno contestato la legittimità di questa esclusione automatica, sostenendo che sarebbe eccessivamente rigida e incostituzionale. La questione è arrivata davanti alla Corte Costituzionale, che nel 2025 si è pronunciata in merito.
Con la sentenza Corte Cost., n. 138/2025 (depositata il 28 luglio 2025), la Consulta ha dichiarato conforme alla Costituzione la norma che impone l’esclusione dalle gare per le imprese con irregolarità fiscali o contributive sopra soglie prefissate. In pratica, è stata ritenuta legittima la previsione che considera “grave” una violazione fiscale se il debito supera 5.000 euro e che ne impone l’automatica esclusione salvo avvenuta regolarizzazione. La Corte ha motivato che tale meccanismo non viola il principio di proporzionalità né discrimina, ma anzi persegue interessi pubblici rilevanti: da un lato garantire che chi contratta con la P.A. sia in regola con il Fisco e gli obblighi sociali, dall’altro evitare vantaggi competitivi sleali a chi non adempie ai propri doveri tributari. Si tratta di una conferma della “linea dura” già tracciata in passato: l’affidabilità fiscale è parte integrante dei requisiti di moralità professionale dell’impresa. Dunque nessuna apertura su questo fronte dal nuovo Codice né dalla giustizia costituzionale – anzi, un monito alle aziende: partecipare alle gare pubbliche richiede una situazione fiscale impeccabile. Chi ha pendenze significative con l’Erario deve prima sanarle (o quantomeno aver ottenuto una rateizzazione accordata) se non vuole vedere la propria offerta esclusa. Questa pronuncia della Corte Costituzionale chiude ogni dubbio di legittimità sulla norma: le stazioni appaltanti devono escludere d’ufficio l’operatore economico in caso di debiti fiscali definitivi oltre soglia. Per le imprese, dunque, il messaggio è chiaro: compliance fiscale e contributiva non sono optional, ma prerequisiti essenziali per accedere al mercato degli appalti pubblici.
Un ulteriore aspetto innovativo del nuovo Codice Appalti riguarda la cosiddetta clausola sociale a tutela dei lavoratori dell’appaltatore uscente. L’art. 102 del D.Lgs. 36/2023 prevede che, nei bandi di gara per appalti di servizi ad alta intensità di manodopera, possa essere inserito l’obbligo per il nuovo aggiudicatario di assorbire il personale già impiegato dal precedente gestore, garantendo così continuità occupazionale. Inoltre, le imprese concorrenti sono spesso tenute a presentare una dichiarazione sull’impegno al rispetto della stabilità occupazionale. Ma cosa accade se tale dichiarazione non viene prodotta, specialmente quando nell’appalto non ci sono in realtà lavoratori da riassorbire?
Su questo punto è intervenuta una significativa decisione: TAR Sicilia, sent. n. 2885/2025. Il Tribunale amministrativo ha affrontato il caso di un’impresa esclusa da una gara di lavori pubblici perché non aveva allegato la “relazione ex art. 102” richiesta dal disciplinare, ovvero un documento in cui dichiarava il proprio impegno a garantire la stabilità del personale. Nel caso concreto, però, l’appalto non comportava affatto il subentro in rapporti di lavoro preesistenti (trattandosi di lavori, non di un servizio continuativo con dipendenti da assorbire). Il TAR ha annullato l’esclusione, sancendo due principi importanti: primo, se l’appalto non prevede personale da riassumere, l’obbligo di presentare una dichiarazione di impegno occupazionale non ha ragion d’essere e la sua mancata presentazione non può giustificare l’esclusione; secondo, anche qualora la stazione appaltante richieda comunque tale dichiarazione per mera prassi, l’eventuale omissione deve essere sanabile tramite soccorso istruttorio. In altre parole, il giudice ha qualificato quella richiesta come un adempimento formale non essenziale: escludere un concorrente in assenza di un effettivo obbligo sostanziale (perché non c’erano lavoratori da tutelare) contrasterebbe con i principi di proporzionalità e buon andamento. La pronuncia del TAR Sicilia richiama dunque le amministrazioni a un uso equilibrato della clausola sociale: va applicata solo quando serve a proteggere realmente i dipendenti in caso di cambio appalto, non come vuoto formalismo da inserire ovunque. Questa linea interpretativa, peraltro, risulta in armonia con recenti orientamenti del Consiglio di Stato sul tema. Per le imprese partecipanti, è una tutela importante: non rischiano più l’esclusione per aver omesso un documento superfluo in assenza di personale da salvaguardare. Allo stesso tempo, quando la clausola sociale è applicabile (ad esempio nei servizi di pulizia, vigilanza, etc., dove il nuovo gestore deve riassorbire il personale del vecchio), resta fondamentale rispettarla e fornire le dovute dichiarazioni. In sintesi, anche su questo fronte i giudici amministrativi mostrano un approccio concreto e sostanzialistico: le regole vanno applicate con logica e buon senso, avendo riguardo alla finalità per cui sono pensate – in questo caso, la tutela dei lavoratori – e non come trappole burocratiche per escludere concorrenti.
Dall’analisi di queste prime sentenze sul nuovo Codice degli appalti emerge un quadro chiaro: le imprese e le Pubbliche Amministrazioni sono chiamate ad adeguarsi alle novità, ma anche a mantenere alta l’attenzione sui principi cardine. La riforma ha introdotto strumenti più flessibili e rapidi, ma i controlli giurisdizionali garantiscono che flessibilità non significhi arbitrio. In particolare:
Le PA devono gestire le procedure semplificate (come gli affidamenti diretti sotto-soglia) con equilibrio, motivando le scelte soprattutto se coinvolgono il precedente aggiudicatario, e assicurando un minimo di concorrenza anche dove la legge non impone gare pubbliche formalmente aperte.
Le imprese devono curare scrupolosamente la propria regolarità fiscale e contributiva, consapevoli che un piccolo debito non sanato può precludere l’accesso a importanti opportunità di business con il settore pubblico.
In fase di gara, occorre leggere con attenzione i bandi: se questi richiedono requisiti o documenti insoliti (come la famosa relazione sulla forza lavoro), è bene chiarire eventuali dubbi con la stazione appaltante o produrre comunque una dichiarazione, per evitare rischi di esclusione. Allo stesso tempo, se una clausola appare sproporzionata o contraria alla normativa, l’impresa può contestarla nelle sedi opportune, forte degli orientamenti giurisprudenziali favorevoli.
Sul fronte delle offerte tecniche, vige il principio di equivalenza: i concorrenti sono incoraggiati a proporre soluzioni migliorative o equivalenti, senza timore di venire esclusi arbitrariamente, purché rispettino i requisiti sostanziali. Le PA dal canto loro devono valutare con apertura mentale le proposte, nel rispetto del bando ma senza formalismi estremi.
In definitiva, il nuovo scenario normativo – illuminato dalle prime sentenze – presenta sia opportunità che insidie. Uno studio attento e un approccio strategico sono essenziali: le imprese hanno spazi maggiori per partecipare e innovare, ma devono muoversi con prudenza, rispettando rigorosamente le regole del gioco. Le amministrazioni possono contare su iter più snelli, ma non su zone franche prive di controlli.
Il diritto degli appalti è da sempre un terreno complesso e in evoluzione. La recente riforma ha riscritto molte regole, ma i principi fondamentali – concorrenza leale, trasparenza, imparzialità e tutela dei lavoratori – restano il filo conduttore che i tribunali difendono con decisione. Per chi opera in questo settore, aggiornarsi è fondamentale: ogni gara può nascondere insidie procedurali o opportunità di tutela che solo una conoscenza approfondita della normativa e della giurisprudenza può svelare.
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Redazione - Staff Studio Legale MP