La posizione degli amministratori di società di fronte ai debiti: obblighi legali verso i creditori, azioni di responsabilità e tutela del patrimonio personale.
Nel mondo imprenditoriale, non sono solo le aziende creditrici a preoccuparsi del recupero crediti: anche gli amministratori di società (S.r.l., S.p.A. etc.) devono prestare grande attenzione alla gestione dei debiti dell’impresa. La legge, infatti, impone agli organi amministrativi precisi doveri verso i creditori sociali. Se tali obblighi vengono violati e la società accumula debiti insostenibili, gli amministratori possono andare incontro a responsabilità personali. In altri termini, il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) di una società non sempre “protegge” al 100% chi la gestiva: in determinate circostanze, il patrimonio personale degli amministratori può essere aggredito per soddisfare i creditori insoddisfatti. Vediamo dunque quali sono i doveri legali degli amministratori in materia di gestione del credito e debito aziendale, e quali rischi corrono in caso di mala gestio.
Obblighi di gestione prudente e adeguati assetti: Gli amministratori hanno per legge l’obbligo di conservare l’integrità del patrimonio sociale (art. 2394 c.c.) e di gestire con diligenza la società nell’interesse di soci e creditori. Ciò significa, in primo luogo, non aggravare la posizione debitoria dell’impresa oltre il lecito. Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, entrato pienamente in vigore nel 2022) ha rafforzato tali doveri introducendo il concetto di “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili” (art. 2086 c.c. riformato): ogni azienda deve dotarsi di strutture idonee a rilevare per tempo segnali di crisi. Gli amministratori, quindi, devono monitorare costantemente la situazione finanziaria; se emergono indizi di difficoltà (perdite, calo di liquidità, insoluti ripetuti), essi sono tenuti ad attivarsi prontamente per adottare correttivi (ricapitalizzazione, rinegoziazione del debito, ricerca di nuovi apporti finanziari) o, nei casi estremi, per iniziare procedure concorsuali che limitino le perdite. Questo rappresenta un cambiamento culturale importante rispetto al passato: si è passati da una visione “punitiva” dell’insolvenza a una visione “moderna e neutra della crisi”, considerandola come una fase fisiologica della vita d’impresa da gestire con trasparenza nell’ottica di salvare il valore aziendale. In passato il diritto societario imponeva l’immediata liquidazione quando il capitale sociale era eroso oltre certi limiti; oggi, invece, si tende a consentire la continuità aziendale sotto stretto controllo, purché finalizzata al risanamento. Ad esempio, l’art. 2486 c.c. (modificato) stabilisce che, dopo lo scioglimento della società o il verificarsi di una causa di liquidazione, gli amministratori conservano i poteri di gestione ordinaria e straordinaria solo ai fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Ciò significa che, in una fase di “twilight zone” (pre-insolvenza), gli amministratori possono continuare l’attività solo se serve a non perdere asset aziendali o a migliorare la situazione dei creditori. Operazioni avventate o distrattive in questa fase potrebbero costituire violazione dei doveri e fonte di responsabilità.
Responsabilità verso i creditori sociali: La responsabilità civile degli amministratori verso i creditori è tipicamente chiamata azione ex art. 2394 c.c. (azione dei creditori sociali). Questa azione si configura quando il patrimonio sociale risulta insufficiente a soddisfare i creditori a causa di atti od omissioni degli amministratori. In pratica, se la società va in default (insolvenza) e i beni aziendali non bastano a pagare i debiti, i creditori possono accusare gli amministratori di aver violato i loro obblighi di prudenza e conservazione del patrimonio. Un caso tipico è la prosecuzione abusiva dell’attività: gli amministratori, anziché prendere atto delle perdite e ridurre il capitale o liquidare la società, continuano ad accumulare debiti, magari sperando in una ripresa improbabile, e così “aggravano il dissesto”. In tal modo, al momento del fallimento, il “buco” per i creditori risulta ben più ampio di quanto sarebbe stato se avessero tempestivamente cessato l’attività o chiesto una procedura concorsuale. La giurisprudenza ha elaborato il principio secondo cui il danno risarcibile corrisponde all’aggravamento del passivo subito dai creditori: la differenza tra l’attivo netto al momento in cui si sarebbe dovuto intervenire e l’attivo al momento effettivo della liquidazione. Questa è, ad esempio, la base per le cause avviate dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori della società fallita. Il Codice della Crisi ha confermato tali impostazioni. Nell’ambito della nuova liquidazione giudiziale (il “fallimento” secondo la nuova terminologia), l’art. 255 CCII prevede espressamente che il curatore, previa autorizzazione, “può promuovere o proseguire: a) l’azione sociale di responsabilità; b) l’azione dei creditori sociali prevista dall’art. 2394 c.c. (...); e) ogni altra azione di responsabilità prevista dalla legge”. Insomma, il curatore ha il potere di esercitare sia l’azione per danni alla società, sia quella per danni ai creditori. Questo chiarisce che, una volta aperta la procedura concorsuale, spettano al curatore tutte le azioni contro gli amministratori, incluse quelle dei creditori (che altrimenti, individualmente, non potrebbero più agire, essendo le pretese “aggregate” nel fallimento).
Va sottolineato che l’azione di responsabilità dei creditori sociali è subordinata alla dimostrazione di un nesso causale tra condotta degli amministratori e insufficienza patrimoniale. Non basta che la società sia fallita per far condannare gli amministratori: occorre provare che essi abbiano violato specifici doveri (ad esempio occultando perdite, distraendo beni, contraendo nuovi debiti insostenibili, omettendo di convocare l’assemblea per la ricapitalizzazione, etc.) e che tali condotte abbiano peggiorato il deficit verso i creditori. In assenza di colpa grave o dolo, gli amministratori non rispondono del semplice insuccesso dell’impresa (nemo tenetur ad impossibilia – nessuno è tenuto a risultati impossibili). Tuttavia, l’ordinamento incentiva la diligenza: se un amministratore può provare di aver fatto tutto il possibile per evitare danni (ad esempio attivandosi per una procedura di concordato preventivo o una composizione negoziata della crisi prima che la situazione precipitasse), ciò può costituire esimente o attenuante. Diversamente, l’inerzia o l’occultamento della crisi costituiscono violazioni gravi. Un antico adagio latino ammonisce: “errare humanum est, perseverare autem diabolicum” – sbagliare è umano, ma perseverare nell’errore (soprattutto sapendo di nuocere ad altri) è diabolico.
Azioni individuali del creditore vs azione del curatore: Occorre distinguere due tipi di azioni di responsabilità: (1) l’azione “di massa” esercitata dal curatore fallimentare nell’interesse di tutti i creditori (ex art. 146 L.F. ora 255 CCII), e (2) l’azione individuale del singolo creditore ex art. 2395 c.c., che spetta fuori dalle ipotesi di dissesto generalizzato. L’azione individuale (art. 2395) è residuale e ricorre quando un creditore (o terzo) subisce un danno diretto da un atto doloso degli amministratori distinto dalla semplice perdita patrimoniale della società – ad esempio una frode specifica ai suoi danni. Questa è di natura extracontrattuale (illecito civile) e comporta oneri probatori più rigorosi sull’attore. Nella prassi, le azioni più frequenti in caso di insolvenza sono invece quelle esercitate dal curatore, che rappresenta la massa dei creditori. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha fatto chiarezza su un aspetto importante di tali azioni: la decorrenza della prescrizione. Con la sentenza n. 23659 del 03/08/2023, la Cassazione Civile, Sez. I ha stabilito che la prescrizione dell’azione di responsabilità verso gli amministratori (ex art. 146 L.F. corrispondente all’azione ex art. 2394 c.c. esercitata dal curatore) inizia a decorrere dal momento in cui i creditori possono percepire oggettivamente che il patrimonio sociale è insufficiente per soddisfarli. Vi è una presunzione iuris tantum che tale “dies a quo” coincida con la data di dichiarazione di fallimento, salvo prova contraria da parte dell’amministratore che dimostri che l’insufficienza patrimoniale era manifesta in un momento anteriore. Questo principio di diritto implica che, di regola, i creditori (e il curatore per loro) hanno pieno tempo dalla data del fallimento per valutare e intentare l’azione contro gli ex amministratori, a meno che questi ultimi provino che il dissesto fosse già conclamato prima (il che farebbe scattare la prescrizione prima). Si tratta di una pronuncia a tutela dei creditori, che evita decadenze troppo anticipate e responsabilizza ulteriormente gli amministratori durante la “gestione nella crisi”.
Conseguenze pratiche per gli amministratori: Se un’azione di responsabilità viene accolta, gli amministratori possono essere condannati a risarcire personalmente i danni. In tali casi, il patrimonio personale dell’amministratore (denaro, beni immobili, conto corrente) diventa aggredibile dai creditori sociali, col vantaggio spesso di avere maggiori possibilità di recupero rispetto a un patrimonio societario già depauperato. È bene evidenziare che esistono comunque delle tutele assicurative: molti amministratori sottoscrivono polizze D&O (Directors and Officers) che coprono, entro certi limiti, i danni patrimoniali arrecati a terzi nell’esercizio del loro ruolo, esclusi però i casi di dolo. Inoltre, sul piano penale, condotte gravemente scorrette come la bancarotta fraudolenta possono portare non solo a sanzioni pecuniarie ma anche a pene detentive per gli amministratori colpevoli (ed eventuali soci complici). Ma restando sul piano civilistico, ciò che preme agli amministratori onesti è prevenire situazioni di responsabilità: adottare comportamenti diligenti, documentare le decisioni difficili, coinvolgere tempestivamente i professionisti (legali, commercialisti, consulenti della crisi) non appena la situazione finanziaria dell’azienda vacilla. Il Codice della Crisi ha introdotto istituti come la composizione negoziata (procedura di allerta assistita da un esperto) proprio per offrire un percorso di risanamento prima che sia troppo tardi, permettendo all’impresa di ristrutturare il debito sotto controllo ma evitando la perdita di valore. Attivare questi strumenti potrebbe esonerare gli amministratori da accuse di inerzia. Come recita un antico principio: “nemo tenetur ad impossibilia”, ovvero nessuno può essere tenuto a fare l’impossibile – agli amministratori è richiesto di fare tutto il possibile per proteggere i creditori, se poi l’impresa fallisce per cause di forza maggiore o non imputabili a loro, non ne saranno ritenuti responsabili.
Recenti sviluppi giurisprudenziali: La materia è in continua evoluzione. Abbiamo già citato la Cass. 23659/2023 sul termine di prescrizione. Un altro punto dibattuto riguarda il rapporto tra l’azione dei creditori e l’apertura del fallimento: secondo un indirizzo recente, se i creditori avevano già citato in giudizio gli amministratori prima del fallimento, possono proseguire la causa anche dopo, purché si coordinino col curatore – questo per evitare che gli amministratori sfuggano a responsabilità per mere questioni procedurali. Inoltre, la Cassazione 2021 n. 24725 (Sez. Unite) ha chiarito che la natura della responsabilità ex art. 2394 c.c. è concorsuale (verso la massa dei creditori) e non direttamente verso il singolo, confermando che spetta al curatore esercitarla dopo il fallimento e che l’eventuale risarcimento va ripartito tra tutti i creditori chirografari. Insomma, si consolida l’idea che l’azione dei creditori sociali sia una sorta di “azione di massa” collettiva. Contestualmente, si è affermato che gli amministratori rispondono anche per atti di mala gestio precedenti al loro mandato se era ragionevole porvi rimedio: ad esempio, l’amministratore subentrante che non denuncia irregolarità può divenire corresponsabile. Al contrario, in un interessante caso del 2024 il Tribunale di Milano ha escluso la responsabilità di un amministratore che, insediatosi poco prima del fallimento, aveva fatto “tutto il possibile” per gestire la crisi (dimostrando di aver tentato la via del concordato, poi sfumata per cause esterne). Ciò a riprova che i giudici valutano attentamente il comportamento concreto degli amministratori.
In definitiva, il messaggio per gli amministratori è chiaro: occuparsi attivamente del recupero crediti dalla prospettiva opposta, ossia garantire che la propria società adempia regolarmente ai debiti verso fornitori, banche, Fisco, dipendenti, ecc. Gestire con oculatezza il flusso di cassa ed evitare di contrarre obbligazioni oltre le possibilità dell’azienda non è solo buona amministrazione, ma anche una protezione personale per chi siede nel CdA. In caso di difficoltà finanziarie, meglio attivarsi subito – “chi è causa del suo mal, pianga sé stesso” dice il proverbio: ignorare i campanelli d’allarme può tradursi in conseguenze gravose. Viceversa, amministrare con trasparenza e tempestività, coinvolgendo i creditori in piani di rientro concordati o procedure concorsuali minori (come il concordato minore o il piano di ristrutturazione) può non solo salvare l’impresa ma anche mettere gli amministratori al riparo da accuse.
In chiusura, una citazione letteraria ben si adatta al tema dei debiti e delle insolvenze: la poetessa Emily Dickinson osservò che “Quando siamo debitori ma di poco, paghiamo. Quando siamo debitori di così tanto da sfidare il Denaro, siamo blandamente insolventi”. Ciò riflette una dura realtà: oltre una certa soglia di indebitamento, la solvibilità vacilla e spesso subentra l’insolvenza, con tutto il suo carico di conseguenze legali. Agli amministratori spetta il compito di non far mai sprofondare la società in quel “punto di non ritorno”; ma se ciò accade, devono saper gestire la crisi in modo ordinato e leale. In tal modo potranno forse evitare sia il fallimento dell’azienda, sia il loro “fallimento” personale in tribunale. La normativa attuale – tra Codice della Crisi e orientamenti giurisprudenziali – offre linee guida precise: trasparenza, tempestività e responsabilità. Seguendole, l’amministratore potrà affrontare anche le stagioni più tempestose dell’impresa senza ritrovarsi naufrago in balia dei creditori.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.