
Nel nostro ordinamento l’abuso edilizio è considerato un illecito permanente. Ciò significa che il trascorrere del tempo non lo “cura” mai: un manufatto irregolare resta fuori legge finché non viene demolito oppure regolarizzato attraverso una sanatoria. A differenza di altri illeciti, un abuso urbanistico non conosce prescrizione amministrativa. Non importa che siano passati 5, 10 o 30 anni dalla costruzione: il Comune può sempre ordinare la demolizione dell’opera non autorizzata, e lo può fare anche nei confronti dell’attuale proprietario (quindi, chi acquista un immobile abusivo eredita il rischio delle sanzioni). La Cassazione lo ha ribadito di recente con autorevolezza (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 16349/2025): un abuso edilizio continua a produrre i suoi effetti illegali finché l’opera non viene eliminata o sanata; pertanto un ordine di demolizione non perde efficacia con il tempo e può essere eseguito in qualsiasi momento, anche molti anni dopo. È proprio il caso di dire che lo Stato non dimentica.
Sul piano penale, per i reati edilizi esiste sì un termine di prescrizione, ma anch’esso decorre in modo peculiare. La costruzione abusiva viene considerata consumata solo quando i lavori sono completati (o definitivamente interrotti) in tutte le loro parti. La Cassazione (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 16349/2025) ha chiarito che la prescrizione del reato edilizio inizia a decorrere soltanto dal momento in cui l’opera illegale è ultimata: fino ad allora, l’illecito è in corso e può essere perseguito. Tradotto in pratica, se un fabbricato abusivo resta incompiuto, il “conto alla rovescia” per la prescrizione del reato non parte nemmeno – e l’autore può essere chiamato a risponderne penalmente anche a distanza di molto tempo. In ogni caso, va ricordato che la prescrizione penale (quando matura) non estingue mai l’obbligo di ripristino: anche se l’eventuale reato non è più punibile dopo anni, la costruzione fuori legge deve comunque essere abbattuta oppure condonata.
Molti proprietari confidano nei condoni edilizi per regolarizzare opere costruite senza permesso. Le leggi di condono straordinario approvate in passato (1985, 1994 e 2003) hanno offerto finestre temporali per sanare abusi commessi entro certe date, ma ancora oggi capita di avere istanze di condono pendenti da decenni negli archivi comunali. Tuttavia, la sola presentazione della domanda di condono non sospende automaticamente l’ordine di demolizione, soprattutto se riguardava opere successive o diverse da quelle oggetto della domanda. Con una pronuncia esemplare, la Corte di Cassazione ha confermato che non basta aver chiesto un condono per congelare le ruspe (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 10054/2025). In un caso recente una sopraelevazione abusiva era stata realizzata su un immobile i cui piani inferiori avevano un’istanza di condono pendente da circa 38 anni: ebbene, i giudici hanno stabilito che la parte non coperta dalla vecchia domanda va demolita, poiché su di essa non c’è alcun condono neppure avviato. Il fatto che per altri abusi dell’edificio fosse stata chiesta la sanatoria negli anni ’80 non “protegge” ampliamenti o opere ulteriori eseguite in seguito.
Il Consiglio di Stato ha di recente rafforzato questo principio, chiarendo i limiti del condono in presenza di opere aggiuntive. Con la sentenza n. 8734/2025 (Cons. St., Sez. VI), i giudici amministrativi hanno affermato in modo netto che la domanda di condono non legittima la realizzazione di nuovi lavori. In altri termini, se hai presentato un’istanza per sanare un vecchio abuso, non puoi approfittarne per costruire altro nel frattempo, sperando che tutto rientri nel condono: qualsiasi ulteriore intervento edilizio compiuto senza titolo rimane abusivo e non gode di alcuna “ombra” protettiva solo perché c’è un condono in corso per altre parti. Inoltre, il Consiglio di Stato ha ribadito che il termine per il silenzio-assenso sulla domanda di condono (cioè il periodo dopo il quale, in assenza di risposta, il condono si considera accolto) inizia a decorre solo quando la pratica è completa di tutta la documentazione necessaria e l’opera è valutabile ai fini di legge. Documenti carenti o integrazioni mancate bloccano il silenzio-assenso: non ci si può illudere che la mera inerzia dell’amministrazione, magari dovuta a un’istanza incompleta, equivalga a un condono tacito. In sintesi, presentare la domanda non basta: finché non c’è un provvedimento formale di sanatoria, l’abuso resta tale e può essere colpito da demolizione.
Un altro punto fermo emerso dalle recenti decisioni è che solo una sanatoria piena e incondizionata può estinguere le violazioni edilizie. Se il permesso in sanatoria viene rilasciato dal Comune con prescrizioni da adempiere o solo per una parte delle opere, non mette al riparo dalle conseguenze penali per ciò che rimane fuori regola. La Cassazione ha affrontato una vicenda in cui un manufatto costruito illegalmente in zona vincolata era stato oggetto di un permesso di costruire in sanatoria “condizionato” all’esecuzione di ulteriori lavori di adeguamento: in tale caso, la sanatoria condizionata è risultata inefficace sul piano penale. La Suprema Corte ha infatti sancito che un titolo edilizio postumo produce effetti estintivi sul reato edilizio solo se l’opera era conforme fin dall’origine alle norme (o alle prescrizioni di vincolo) vigenti al momento della costruzione (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 33796/2025). Quando invece il permesso in sanatoria viene rilasciato a patto di effettuare modifiche correttive, significa che manca la condizione essenziale – la doppia conformità dell’intervento – e dunque quel titolo non può “lavare” il reato già commesso. In parole semplici, se l’opera non era regolare fin dall’inizio, ottenerne la regolarizzazione a posteriori è possibile solo quando si rispettano pienamente le regole urbanistiche; se servono altri interventi per renderla conforme, la sanatoria non è completa e il responsabile non evita la condanna né l’obbligo di demolire.
Si conferma così un principio di fondo: un condono non può arrivare dove la legge non consentirebbe comunque di costruire. Ad esempio, realizzare una casa in un’area dove è vietato edificare resterà un illecito insanabile – nessun condono “tombale” può legittimarlo, e tantomeno valgono escamotage come permessi rilasciati per errore o certificati tardivi. La Cassazione ha avvertito che un permesso di costruire viziato o illegittimo non difende l’autore dall’accusa di abuso: se l’atto amministrativo è in contrasto palese con le norme urbanistiche, il giudice penale può considerare l’opera come priva di titolo (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 30473/2025). Ciò significa che chi costruisce facendo leva su una concessione ottenuta in modo irregolare (magari grazie a un errore del Comune o ad altre circostanze discutibili) rischia comunque una condanna per “costruzione sine titulo”. Affidarsi al fatto di avere “un pezzo di carta” non basta se quel pezzo di carta è stato rilasciato in violazione delle leggi: la macroscopica illegittimità del permesso di costruire è un indice che il tribunale può valorizzare per sanzionare l’abuso.
Allo stesso modo, non bisogna pensare che piccole modifiche o difformità rispetto al progetto approvato siano perdonabili o trascurabili: multa anziché demolizione. La normativa edilizia prevede in alcuni casi la possibilità di sostituire la demolizione con una sanzione pecuniaria (la cosiddetta “fiscalizzazione dell’abuso”, ex art. 34 del Testo Unico Edilizia) ma soltanto per difformità parziali che non incidono sui parametri essenziali e purché l’opecutore lo richieda e ne ricorrano i presupposti tecnici. Tuttavia, la giurisprudenza ha più volte messo in guardia da un’applicazione estensiva di questa possibilità: una serie di piccoli abusi può sommarsi fino a costituire un abuso totale. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7010/2025, ha chiarito che anche interventi all’apparenza minori (verande chiuse, tettoie, ampliamenti interni, etc.), se nel complesso trasformano l’edificio in modo significativo rispetto al progetto autorizzato, fanno perdere all’opera la conformità al titolo originario e giustificano un provvedimento demolitorio. In altre parole, tante piccole difformità sommate insieme possono integrare un unico, grande abuso e il Comune ha il dovere di reprimerlo come tale, senza accontentarsi di una multa.
Di fronte a questo quadro rigoroso, chi scopre di avere una costruzione non a norma deve muoversi con realismo e prudenza. Le possibilità di salvare un’opera abusiva ci sono, ma sono limitate alle situazioni previste dalla legge. Fuori dai casi di condono straordinario (che, come detto, riguardano solo abusi molto datati e per i quali si presentò domanda nei termini di legge), lo strumento principale è l’accertamento di conformità (art. 36 DPR 380/2001), cioè la sanatoria ordinaria. Questa può essere richiesta solo se l’opera rispetta la cosiddetta “doppia conformità”: deve risultare conforme sia alle norme urbanistiche in vigore oggi, sia a quelle che erano vigenti al momento in cui è stata realizzata. Se – e solo se – sussiste questa condizione, il Comune potrà rilasciare un permesso in sanatoria dietro pagamento degli oneri e di una sanzione. In caso contrario (ossia, se l’abuso oggi non sarebbe comunque autorizzabile, ad esempio perché in contrasto con il piano regolatore, le distanze, i vincoli ambientali, ecc.), non esiste modo legale di sanare l’opera. Le soluzioni alternative, come cercare cavilli procedurali, appellarsi a presunti diritti acquisiti o confidare nell’inerzia dell’ente, si sono rivelate strategie perdenti. La giurisprudenza odierna mostra anzi un orientamento compatto: il fatto compiuto non paga. Il tempo non legittima l’abuso, il silenzio amministrativo non implica accettazione, e l’affidamento del privato non viene tutelato se fondato su atti illegittimi. Un proprietario non può sperare di “averla vinta” solo perché l’autorità è rimasta inerte per anni: al contrario, appena il caso viene alla luce, le conseguenze possono abbattersi tutte insieme.
Vale la pena ricordare, inoltre, che ignorare un ordine di demolizione può portare a risultati ancor più gravosi. Se il responsabile dell’abuso non esegue la demolizione entro il termine stabilito, il Comune può intervenire in danno, procedendo all’abbattimento forzato a spese del privato. Non solo: trascorso inutilmente il termine, l’opera abusiva e l’area di sedime possono essere acquisite gratuitamente al patrimonio pubblico (perdita della proprietà senza alcun indennizzo, come previsto dall’art. 31 DPR 380/2001). Si tratta di misure severe, ma necessarie a ripristinare la legalità violata. Dura lex, sed lex: la legge può sembrare dura, ma è la legge – e chi sceglie di costruire fuori dalle regole deve sapere a quali rischi va incontro.
In conclusione, il messaggio che arriva dalle sentenze più recenti è chiaro: non esistono più “zone grigie” per gli abusi edilizi. L’epoca dei condoni facili è tramontata e le autorità, spronate dalla magistratura, applicano con fermezza gli strumenti di repressione. Chi ha realizzato opere senza titolo non può fare affidamento su ritardi burocratici o scappatoie legali per farla franca. Al contrario, conviene attivarsi prontamente per valutare se esistono margini di sanatoria o per mitigare le conseguenze. Ogni caso ha le sue peculiarità – dalla veranda costruita in buona fede magari ignorando la procedura, alla villa abusiva eretta sfidando la legge – ma in ogni situazione è fondamentale affrontare il problema prima che arrivi la sanzione. “Summum ius, summa iniuria” dicevano i latini: applicare il massimo rigore della legge, a volte, può sembrare eccessivamente penalizzante; ma in materia edilizia questo rigore mira a tutelare interessi collettivi fondamentali (sicurezza, decoro urbano, uso sostenibile del territorio) e finisce per colpire soprattutto comportamenti opportunistici o negligenti.
Se temi che un tuo immobile presenti irregolarità urbanistiche, non aspettare che venga notificata un’ingiunzione: informati sulla situazione, verifica con tecnici qualificati e affidati a un esperto legale per individuare la strategia migliore. In certi casi, presentare un’istanza di sanatoria ordinaria il prima possibile può fare la differenza; in altri, l’unica opzione sensata potrebbe essere negoziare con l’ente locale tempi e modi dell’abbattimento, magari per conservare le parti conformi. Quel che è certo, alla luce delle pronunce del 2025, è che ignorare il problema o confidare nell’impunità è un grave errore. Le case abusive non si “sistemano da sole” restando in piedi: prima o poi, la giustizia bussa alla porta. E quando lo fa, presenta un conto salato in termini economici (costi di demolizione, sanzioni) e personali (perdita del bene, procedimenti penali).
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Redazione - Staff Studio Legale MP