Nel diritto societario, esiste un paradosso affascinante e denso di conseguenze pratiche: una società può essere formalmente dichiarata "estinta" tramite la sua cancellazione dal Registro delle Imprese, eppure le sue relazioni giuridiche, i suoi diritti e le sue obbligazioni, possono rifiutarsi di scomparire con essa. Questo scenario, a lungo fonte di incertezza e di contrasti giurisprudenziali, ha finalmente trovato una soluzione chiara e definitiva.
Come scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo, "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". Questa celebre riflessione descrive metaforicamente la recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità. Il "cambiamento" è rappresentato dalla storica sentenza n. 19750 del 16 luglio 2025 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.1 Ciò che "rimane", invece, è il principio fondamentale della tutela dei diritti patrimoniali e della sopravvivenza delle obbligazioni giuridiche. Questa pronuncia non è un mero aggiustamento, ma un vero e proprio
revirement, un cambio di rotta che riallinea l'interpretazione normativa ai pilastri del codice civile.
Il presente articolo si propone di analizzare in dettaglio questa decisione epocale, illustrando il suo netto distacco dalla giurisprudenza precedente e delineando il nuovo panorama strategico per ex soci, debitori della società estinta e creditori sociali, i quali si trovano oggi a operare in un quadro giuridico profondamente rinnovato.
Il cuore della decisione delle Sezioni Unite è racchiuso in un principio di diritto tanto limpido quanto rivoluzionario: "L'estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non comporta anche l'estinzione dei crediti della stessa, i quali costituiscono oggetto di trasferimento in favore dei soci...".1
Per comprendere appieno la portata di questa affermazione, è necessario scomporla. La Corte, innanzitutto, conferma che la cancellazione della società dal Registro delle Imprese determina un "fenomeno di tipo successorio".1 Non si tratta di una successione
mortis causa identica a quella tra persone fisiche, ma di un meccanismo sui generis in cui gli ex soci subentrano nelle posizioni giuridiche attive e passive che facevano capo all'ente. I diritti e i beni non inclusi nel bilancio finale di liquidazione, pertanto, non si dissolvono nel nulla ma si trasferiscono ai soci, i quali ne diventano contitolari in regime di comunione indivisa (communio incidens).6
Di conseguenza, la cancellazione viene ricondotta alla sua natura propria: un atto di pubblicità con efficacia costitutiva riguardo all'esistenza dell'ente societario, ma privo di un effetto sostanziale estintivo sui rapporti giuridici sottostanti. La società come soggetto giuridico cessa di esistere, ma il suo patrimonio, inteso come insieme di diritti e obblighi, le sopravvive e si trasmette.1
Per apprezzare la novità della sentenza del 2025, è indispensabile guardare al passato. Fino a questo momento, la materia era governata da un diverso principio, sancito dalle stesse Sezioni Unite con le celebri sentenze nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013.1 Secondo tale orientamento, dalla successione in capo ai soci erano escluse le cosiddette
"mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi".1
La logica sottesa a questa esclusione si fondava su una presunzione di rinuncia. Si riteneva che il liquidatore, omettendo di inserire tali poste attive incerte nel bilancio finale di liquidazione, compisse una scelta implicita di rinunciarvi in nome di una più rapida e agevole chiusura della procedura estintiva.1 L'effetto era drastico: tali crediti si estinguevano automaticamente con la cancellazione della società.
La sentenza del 2025 smantella questo dogma pezzo per pezzo, evidenziandone le criticità logiche e pratiche. Una delle critiche più acute e tecnicamente raffinate riguarda l'insanabile conflitto tra la regola giuridica del 2013 e i principi contabili. L'orientamento precedente, di fatto, creava un paradosso: per salvare un credito incerto dall'estinzione, il liquidatore avrebbe dovuto iscriverlo nel bilancio finale. Tuttavia, i principi contabili nazionali (come l'OIC 15 e, soprattutto, l'OIC 31 sulle "attività potenziali") e il principio generale della prudenza (art. 2423-bis c.c.) spesso vietano l'iscrizione in bilancio di attività potenziali o crediti il cui realizzo è incerto, fino a quando l'evento futuro che ne conferma l'esistenza non si sia verificato.1 Il liquidatore si trovava così stretto in una morsa: violare le norme contabili per salvare il credito o rispettare le norme contabili e causarne l'estinzione giuridica. Le Sezioni Unite del 2025 hanno risolto questo
Catch-22, riconoscendo che la mancata iscrizione di un credito in bilancio non è un atto di volontà abdicativa, ma, molto spesso, l'adempimento di un preciso obbligo contabile.1
Inoltre, la Corte ha stigmatizzato l'incertezza generata dalla vaga distinzione tra "diritti" e "mere pretese", che aveva alimentato un vasto contenzioso interpretativo.1
La seguente tabella riassume l'evoluzione giurisprudenziale, evidenziando la portata del cambiamento.
Tabella 1: L'Evoluzione della Giurisprudenza sui Crediti della Società Cancellata
Aspetto Giuridico | impostazione Pre-2025 (Cass. SS.UU. 2013) | Dottrina Post-2025 (Cass. SS.UU. n. 19750) |
---|---|---|
Sorte dei Crediti non Iscritti | Presunti rinunciati e quindi estinti se "mere pretese" o incerti/illiquidi. | Sopravvivono e si trasferiscono agli ex soci, indipendentemente dalla loro natura. |
Natura Giuridica della Cancellazione | Aveva un effetto sostanziale, estinguendo determinate poste attive. | Atto puramente formale, che estingue l'ente ma non i suoi diritti. |
Onere della Prova della Rinuncia | Implicitamente a carico del socio, che doveva dimostrare che il credito non era una "mera pretesa". | Esplicitamente a carico del debitore, che deve provare una valida e comunicata remissione. |
Logica Sottostante | Privilegiare la rapidità e la definitività del procedimento di liquidazione. | Tutelare i principi fondamentali del diritto di proprietà e i rigorosi requisiti per la rinuncia al credito. |
Il fondamento dogmatico della nuova sentenza può essere riassunto nell'antica e saggia massima latina: Nemo praesumitur donare, ovvero nessuno si presume che doni. La rinuncia a un diritto di credito, che costituisce un impoverimento per il creditore e un arricchimento per il debitore, non può mai essere presunta, ma deve discendere da una volontà chiara e inequivocabile.
Le Sezioni Unite ancorano saldamente la loro decisione ai rigorosi presupposti previsti dal codice civile per la remissione del debito (art. 1236 c.c.).1 Analizzando la giurisprudenza consolidata in materia 7, emergono requisiti stringenti che la mera cancellazione della società non può soddisfare:
Volontà Inequivoca: La volontà di rimettere il debito deve emergere da un comportamento "assolutamente incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto di credito".9 Il mero silenzio o l'inerzia del liquidatore, come la mancata iscrizione a bilancio, sono di per sé atti equivoci e dunque insufficienti.10
Consapevolezza del Diritto: Per poter rinunciare a un diritto, il creditore (la società) deve prima essere consapevole della sua esistenza.9 Ciò è palesemente impossibile per crediti non ancora emersi o per "attività potenziali".
Atto Recettizio: La remissione è un atto unilaterale che produce effetto solo quando "è comunicata al debitore".8 Le Sezioni Unite chiariscono in modo definitivo che né il deposito del bilancio finale né l'iscrizione della cancellazione nel Registro delle Imprese costituiscono una comunicazione specifica a un determinato debitore, essendo forme di pubblicità rivolte alla generalità dei terzi.1
Da questa rigorosa ricostruzione discende la conseguenza pratica più dirompente della sentenza: l'inversione dell'onere della prova. Se prima il debitore convenuto in giudizio da un ex socio poteva limitarsi a eccepire la cancellazione della società, scaricando sul socio l'onere di dimostrare la sopravvivenza del credito, oggi lo scenario è capovolto. La sopravvivenza del credito è la regola, la sua estinzione per rinuncia è l'eccezione. Pertanto, spetta al debitore che intende liberarsi dall'obbligazione l'onere di allegare e provare, quale eccezione in senso stretto, tutti i presupposti di una valida remissione del debito: una volontà abdicativa, inequivoca e specificamente comunicata.1 Si tratta di una prova estremamente difficile da fornire, che cambia radicalmente le strategie processuali.
La nuova pronuncia ridisegna la mappa dei diritti e degli obblighi per tutti gli attori coinvolti.
Per gli ex soci (in qualità di attori):
La loro posizione è enormemente rafforzata. Hanno piena legittimazione attiva per agire in giudizio al fine di recuperare i crediti della società estinta, in qualità di suoi successori.4 Se la società era già parte di un giudizio al momento della cancellazione, il processo non si interrompe né si estingue, ma prosegue con i soci in qualità di successori ai sensi dell'
art. 110 c.p.c..13 Strategicamente, il loro compito si concentra ora sulla prova dell'esistenza originaria del credito, essendo l'onere di dimostrarne l'eventuale estinzione passato interamente alla controparte.
Per i debitori della società (in qualità di convenuti):
La loro linea difensiva basata sulla "scomparsa" della società creditrice è ormai priva di fondamento. L'unica difesa possibile per paralizzare la pretesa è dimostrare una valida remissione del debito, con tutte le difficoltà probatorie che ciò comporta. Dovranno reperire prove di un atto specifico e comunicato, non potendo più fare affidamento su presunzioni.
Per i creditori della società (terzi):
La sentenza produce un effetto benefico indiretto anche per loro. La sopravvivenza dei crediti della società estinta implica che il "patrimonio" successorio trasferito ai soci, su cui i creditori sociali possono rivalersi, è potenzialmente più cospicuo. Questa tutela è ulteriormente rafforzata da recenti orientamenti di legittimità (es. Cass. n. 18720/2024 15 e
Cass. n. 32729/2023 18) che hanno interpretato in senso lato le "somme riscosse" dai soci ai fini della loro responsabilità ex art. 2495 c.c. Tale nozione non si limita alle distribuzioni di denaro, ma include qualsiasi attribuzione patrimoniale netta risultante dal bilancio, anche se astratta.17 I creditori di una società cancellata hanno quindi maggiori possibilità di vedere soddisfatte le proprie ragioni, potendo aggredire soci la cui responsabilità è garantita da un attivo successorio più ampio e da una nozione di "riscossione" più favorevole al creditore.
L'orizzonte delle responsabilità post-cancellazione si estende anche al campo, spesso minato, dei debiti tributari. È principio consolidato che gli ex soci rispondano dei debiti fiscali della società estinta, sempre nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione.19
Ma la questione più dibattuta e di recente oggetto di un clamoroso revirement riguarda la sorte delle sanzioni tributarie. Per le persone fisiche, vige il principio di intrasmissibilità agli eredi (art. 8, D.Lgs. 472/97). Per lungo tempo si è ritenuto che lo stesso valesse per i soci di società estinte. Tuttavia, con la recente e dirompente ordinanza n. 23341/2024, la Cassazione ha stabilito che le sanzioni tributarie si trasmettono agli ex soci.5 Il ragionamento si fonda sulla natura
sui generis della successione societaria: a differenza dell'erede, che è estraneo agli atti del defunto, il socio era parte integrante dell'ente che ha commesso la violazione e che, potenzialmente, ne ha tratto vantaggio. Questa distinzione, sottile ma cruciale, impedisce l'applicazione analogica del principio di intrasmissibilità, esponendo i soci a un rischio patrimoniale significativamente maggiore e rendendo ancora più critica una gestione diligente e professionalmente assistita della fase di liquidazione.
La sentenza n. 19750/2025 delle Sezioni Unite segna la fine di un'era. Il dogma della rinuncia presunta è stato abbattuto, la regola è ora la sopravvivenza dei crediti e l'onere della prova è stato riallocato in conformità ai principi cardine del codice civile. La Corte ha ristabilito un equilibrio che tutela il patrimonio sociale, evitando che diritti di credito vengano ingiustificatamente sacrificati sull'altare di una frettolosa chiusura della liquidazione.
Il panorama giuridico che emerge dalla cancellazione di una società resta un terreno complesso, un intreccio di fenomeni successori, regole processuali e oneri probatori in continua evoluzione. La nuova giurisprudenza, pur facendo chiarezza, apre a nuove sfide e opportunità strategiche. Navigare in questo scenario, per recuperare un credito che si credeva perduto, per difendersi da una pretesa "ereditata" o per gestire le complesse passività sociali e tributarie, richiede oggi più che mai una competenza legale specialistica, aggiornata e in grado di cogliere le sfumature di un diritto vivo e dinamico.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.