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Malasanità: diagnosi tardive e diritto al consenso informato - Studio Legale MP - Verona

Le più recenti sentenze in materia di responsabilità medica affrontano temi cruciali come il ritardo diagnostico e la violazione del consenso informato, rafforzando la tutela del paziente e delineando nuovi obblighi per medici e strutture sanitarie

 

Il diritto alla salute e la responsabilità medica

«La salute è il primo dovere della vita.» Questa celebre frase di Oscar Wilde richiama l’importanza centrale della salute per ogni individuo. In Italia il diritto alla salute è tutelato dall’art. 32 della Costituzione, che garantisce cure gratuite agli indigenti e afferma che nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge e nel rispetto della dignità umana. Ne discende il principio che ogni paziente ha diritto a cure adeguate e consapevoli: non solo a essere curato correttamente, ma anche a essere informato e coinvolto nelle decisioni terapeutiche. Su questo doppio binario – qualità della cura e rispetto dell’autodeterminazione – si fonda la moderna responsabilità medica (o responsabilità sanitaria).

In ambito civile, la responsabilità medica implica l’obbligo per il medico e le strutture sanitarie di risarcire i danni causati al paziente da errori, negligenze o omissioni nelle cure. Parliamo di malasanità quando un trattamento errato, un intervento eseguito con imperizia, una diagnosi mancata o ritardata, oppure la violazione del diritto del paziente a essere informato, provocano un danno alla salute. Tale danno può consistere in un aggravamento della patologia, in lesioni ulteriori, in una guarigione incompleta o più lenta, fino ai casi più tragici di perdita della vita del paziente. In tutti questi frangenti il nostro ordinamento prevede la possibilità di ottenere un risarcimento, ma la natura e l’entità del risarcimento dipendono da una valutazione giuridica molto precisa del caso concreto. Come vedremo, la Corte di Cassazione negli ultimi tempi ha meglio definito alcuni concetti chiave, per assicurare che la tutela risarcitoria sia davvero equa e completa. Salus aegroti suprema lex: la salute del paziente è la legge suprema, secondo un antico adagio latino. Ed è proprio alla luce di questo principio che la giurisprudenza più recente sta intervenendo per colmare lacune e chiarire ambiguità, in modo da rafforzare le garanzie dei pazienti vittime di errori sanitari. Vediamo allora due aspetti cruciali – il problema delle diagnosi tardive (e della conseguente perdita di chance di guarigione) e la questione del consenso informato – alla luce delle novità emerse.

 

Diagnosi tardiva, perdita di chance e danno da anticipazione della morte

Una delle situazioni più delicate in cui può incorrere un medico è il ritardo diagnostico: quando una malattia non viene riconosciuta in tempo, impedendo di iniziare subito le cure necessarie. Il classico esempio è il tumore maligno diagnosticato troppo tardi, che priva il paziente della possibilità di guarigione o comunque di vivere più a lungo. In questi casi il danno subito dal paziente (o dai suoi familiari, in caso di decesso) è innegabile, ma dal punto di vista giuridico occorre definirne la natura: è una perdita totale del bene vita, oppure è la perdita di una chance di sopravvivenza? La differenza non è solo teorica, perché influisce sul modo in cui viene calcolato il risarcimento.

La chance in diritto indica una possibilità, qualcosa di non certo: ad esempio, la possibilità di guarire con una terapia tempestiva, che però non possiamo sapere con sicurezza assoluta se avrebbe salvato il paziente. Per molti anni, in giurisprudenza si è discusso se la perdita di chance di guarigione dovesse considerarsi un danno autonomo (parziale, da risarcire proporzionalmente alla probabilità persa) oppure un aspetto del danno principale. Oggi la Cassazione sembra aver tracciato una linea più chiara. Con un’importante pronuncia, i giudici supremi hanno stabilito che, quando l’errore medico anticipa la morte del paziente, non si deve parlare di mera chance, ma di lesione piena del diritto alla vita. In altre parole, se a causa del ritardo diagnostico il paziente è deceduto prima di quanto sarebbe avvenuto con le cure corrette, il danno da risarcire è quello della perdita anticipata della vita (per i familiari, perdita del rapporto parentale), non un semplice “mancato guadagno di probabilità”【Cass. civ., Sez. III, ord. n. 25480/2025】. La categoria della chance va riservata ai casi di incertezza radicale sul nesso causale, quando proprio non è possibile stabilire in alcun modo se l’errore abbia influito sull’esito. Se invece, anche solo in termini probabilistici, è possibile accertare che l’errore del medico abbia contribuito a causare l’evento (es. la morte o un aggravamento significativo), allora siamo fuori dall’ambito della chance: si configurano danni concreti e attuali, da risarcire integralmente.

Questa precisazione ha implicazioni pratiche molto rilevanti. Sul piano probatorio, spetta ai familiari del paziente dimostrare che la condotta colposa del medico ha inciso sulla tempistica dell’esito fatale (ad esempio attraverso perizie medico-legali che ricostruiscono il decorso della malattia con e senza l’errore). Una volta provato il nesso di causa, il risarcimento dovrà coprire interamente il danno da morte anticipata, senza riduzioni percentuali legate all’alea. La Cassazione, in sostanza, vuole evitare che si “nasconda” un grave danno reale dietro l’etichetta della chance: se un paziente ha perso anni di vita (o la possibilità di curarsi e sopravvivere più a lungo) per un errore altrui, i suoi cari hanno diritto a un ristoro pieno. Si rafforza così la tutela delle vittime, delimitando l’uso della chance solo alle situazioni di vera incertezza scientifica.

Va aggiunto che anche quando il paziente sopravvive ma subisce un aggravamento irreversibile per un ritardo diagnostico (ad esempio: la malattia, non curata tempestivamente, causa disabilità permanenti che si sarebbero potute evitare), si pone il problema di quantificare il danno biologico. In tali ipotesi, più che di perdita della vita, si parlerà di perdita di chance di guarigione o di contenimento del danno: il paziente va risarcito per quella quota di integrità fisica che avrebbe probabilmente mantenuto se curato per tempo. Anche qui, tuttavia, la Cassazione invita a usare prudenza nel definire “chance” ciò che, a ben vedere, è un danno concreto. Il criterio adottato dai giudici è: fin dove si può ricostruire il decorso ipotetico con ragionevole certezza (sia pure espressa in termini di elevata probabilità), il risarcimento deve tenere conto di questa realtà. Solo l’eventuale margine di incertezza estrema può essere qualificato come chance.

In parallelo, non va dimenticato che il ritardo diagnostico può avere conseguenze non solo sul piano civilistico (risarcimento del danno), ma anche sul piano penale. Omissioni gravi da parte del medico nel prendersi cura del paziente possono integrare reati come l’omicidio colposo. Ad esempio, la Corte di Cassazione penale ha recentemente condannato un medico di base per non aver seguito adeguatamente l’evoluzione clinica di un assistito: il medico di famiglia, una volta instaurato il rapporto di cura, ha una posizione di garanzia verso il paziente e deve fare tutto il necessario per tutelarne la salute. Nel caso esaminato, il paziente era deceduto perché il medico si era limitato a prescrivere una visita specialistica (trasmettendo un modulo) senza poi verificare che il malato accedesse tempestivamente alle cure; ciò comportò un fatale aggravamento non intercettato in tempo. La Cassazione ha affermato che il medico di medicina generale rimane responsabile fino a quando il paziente è preso in carico: non basta indirizzarlo ad altri, occorre assicurarsi attivamente che riceva le cure e intervenire se la situazione peggiora【Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 25145/2025】. Questo principio, dal lato civile, si traduce nell’obbligo per tutti i medici (di base o specialisti) di non abbandonare il paziente e di monitorare il decorso della patologia, specialmente dopo aver riscontrato sintomi o referti preoccupanti. Un mancato follow-up può costituire colpa grave e fonte di risarcimento se causa un danno.

Consenso informato: un diritto inviolabile del paziente

Accanto alla correttezza tecnica della prestazione sanitaria, l’altro pilastro fondamentale nella tutela del paziente è il consenso informato. Ogni trattamento medico, per quanto ben eseguito, deve essere preceduto dal consenso libero e consapevole del paziente, salvo i casi eccezionali previsti dalla legge (trattamenti obbligatori per motivi di sanità pubblica, TSO, interventi in stato di necessità, ecc.). Il consenso informato trova fondamento nei principi costituzionali di tutela della salute e della dignità umana, e nel diritto alla autodeterminazione in campo terapeutico. In pratica, significa che il paziente ha il diritto di conoscere in modo chiaro e completo la diagnosi, la prognosi, la natura dell’intervento o della terapia proposta, i benefici attesi, i possibili rischi e complicanze, nonché le alternative eventualmente disponibili, inclusa la possibilità di non curarsi. Solo dopo aver ricevuto queste informazioni in modo comprensibile, il paziente può esprimere un consenso valido al trattamento. Diversamente, la relazione di cura si riduce a un’imposizione unilaterale, incompatibile con il nostro ordinamento.

In quest’ottica, la firma di un modulo di consenso prestampato non basta di per sé a dimostrare che il paziente sia stato realmente informato: ciò che conta è la sostanza, non la forma. “Il consenso informato non può essere ridotto a una mera formalità burocratica”, ammonisce la Cassazione【Cass. civ., Sez. III, ord. n. 25824/2025】. Esso deve garantire la libertà decisionale del paziente, valorizzandone la dignità e la volontà. Questo vuol dire, ad esempio, che il medico deve dedicare tempo al dialogo, usare un linguaggio comprensibile evitando termini tecnici oscuri, verificare che il paziente abbia compreso davvero le informazioni e lasciargli il tempo di riflettere e porre domande. Un consenso affrettato o estorto senza spiegazioni dettagliate è giuridicamente nullo. La legge n. 219/2017 ha ulteriormente rafforzato questi principi, sancendo esplicitamente che nessun trattamento può essere iniziato senza il consenso informato, che può essere revocato dal paziente in qualsiasi momento.

Cosa accade, dunque, se il medico viola il dovere di informazione? Da tempo la giurisprudenza riconosce che si tratta di un illecito che può causare un danno risarcibile, distinto dal danno biologico. Si parla in particolare di danno da lesione del diritto all’autodeterminazione. Immaginiamo un caso tipico: al paziente viene praticato un intervento chirurgico senza averlo informato adeguatamente dei rischi; si verifica una complicanza grave (ma non dovuta a errore del chirurgo, rientrava tra i rischi possibili) e il paziente subisce un danno fisico. In uno scenario del genere, il paziente può sostenere: “Se avessi saputo che c’era questo rischio, avrei rifiutato l’operazione”. Il medico quindi, negando un’informazione essenziale, ha privato il paziente della possibilità di scegliere, esponendolo a un evento avverso che egli non avrebbe accettato. La giurisprudenza in casi simili condanna il medico al risarcimento sia del danno biologico derivante dalla complicanza, sia di un ulteriore danno da violazione della libertà di decisione. Tuttavia, non basta che il paziente affermi dopo il fatto che avrebbe detto di no: occorre una verifica concreta. La Cassazione ha chiarito che l’onere della prova su questo punto ricade sul paziente. In altre parole, è il paziente che deve convincere il giudice che, se correttamente informato, non avrebbe prestato il proprio consenso al trattamento (oppure avrebbe scelto un percorso alternativo meno invasivo)【Cass. civ., Sez. III, ord. n. 15079/2025】. Se questa prova manca, il risarcimento potrebbe essere negato limitatamente al profilo della lesione dell’autodeterminazione.

Facciamo un esempio concreto basato su una vicenda realmente esaminata dai giudici: una donna si sottopone a una serie di interventi all’occhio per curare una patologia, subendo però complicanze che le causano gravi danni alla vista. In giudizio emerge che i medici non l’avevano informata adeguatamente dei rischi né delle possibili alternative terapeutiche. Tuttavia, la Corte d’Appello accerta anche che, date le condizioni della paziente, probabilmente ella avrebbe scelto comunque di operarsi perché era l’unica speranza di migliorare la sua situazione visiva. Di conseguenza, pur riconoscendo la violazione dell’obbligo informativo, i giudici negano il risarcimento per questo aspetto, ritenendo che la paziente non abbia dimostrato che una corretta informazione le avrebbe evitato il danno (poiché non avrebbe modificato la sua scelta). La Cassazione ha confermato questo orientamento: il danno da mancato consenso va risarcito solo se c’è nesso causale tra difetto di informazione e danno, ovvero se il paziente, adeguatamente informato, avrebbe evitato quell’intervento o quella terapia foriera di conseguenze pregiudizievoli. Diversamente, se il paziente avrebbe comunque accettato il rischio (o se il trattamento era in realtà l’unica opzione sensata), la violazione resta una colpa deontologica grave, ma non genera obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale.

Attenzione però: il fatto che il paziente avrebbe forse scelto comunque di operarsi non giustifica affatto l’omettere le informazioni. L’obbligo di informare è autonomo e la sua violazione può di per sé causare un danno morale al paziente, consistente nell’aver subito un trattamento non pienamente consapevole. In alcuni casi la giurisprudenza ha riconosciuto un ristoro al paziente per il solo fatto di essere stato trattato come “oggetto” di cure e non come persona dotata di volontà, specie quando l’intervento ha esiti irreversibili che il paziente dovrà accettare per il resto della vita. Si pensi a interventi demolitivi o mutilanti (come l’amputazione di un organo, o terapie invasive) autorizzati con consenso viziato: anche se erano necessari, il paziente non informato può patire uno shock e un trauma psicologico nello scoprire ex post cosa gli è stato fatto. In questi frangenti, alcune sentenze hanno liquidato un danno da lesione della dignità e autonomia decisionale, riconoscendo che “la mancata informazione ha impedito al paziente di prepararsi psicologicamente all’evento e di partecipare alle scelte, cagionandogli sofferenza e senso di violazione di sé”. L’orientamento attuale, però, è cauto su questo punto: serve dimostrare in concreto che la carenza di informazioni ha provocato un impatto negativo, distinto dagli effetti dell’atto medico in sé.

In definitiva, il consenso informato è un elemento essenziale del rapporto terapeutico, sul quale medici e strutture non possono transigere. Le ultime sentenze ne sottolineano la portata: non un semplice foglio da firmare, ma un vero processo di comunicazione e comprensione. Sul medico grava il dovere non solo di acquisire una firma, ma di mettere il paziente nelle condizioni di decidere liberamente e coscientemente. Per il paziente, questo si traduce nel diritto di pretendere spiegazioni esaurienti e veritiere: qualora ciò non avvenga e si verifichi un danno, è possibile intraprendere azione legale per ottenere giustizia.

 

Conclusioni

Gli sviluppi recenti in materia di malasanità mostrano una chiara direzione: rafforzare la tutela del paziente sia sul fronte del risarcimento del danno alla salute, sia sul fronte del rispetto della sua volontà. La Cassazione ha posto paletti importanti, stabilendo che ogni vita umana ha un valore intero e non può essere frammentato in percentuali di probabilità quando l’errore medico ne ha anticipato la fine. Parallelamente, ha ribadito che ogni paziente è persona, non “caso clinico”, e come tale va informato e coinvolto: la conoscenza e il consenso sono parte integrante della buona cura. Questi principi, oltre a guidare le decisioni nei tribunali, offrono un orientamento prezioso anche ai professionisti della sanità, chiamati a un esercizio della medicina sempre più trasparente, comunicativo e centrato sulla persona. Dal canto loro, i cittadini devono sapere che dispongono di strumenti legali efficaci per far valere i propri diritti: di fronte a un errore sanitario, ignorare non è mai un rimedio. È possibile agire, richiedere documentazione clinica, consultare esperti medico-legali e legali, e se del caso promuovere una causa per ottenere riconoscimento del torto subito e un equo risarcimento.

Come recita un noto brocardo latino, “ubi ius, ibi remedium”: dove c’è un diritto violato, deve esserci un rimedio. Nel campo della responsabilità medica questo si traduce nell’impegno della giustizia a riparare, per quanto possibile, l’irreparabile. Ovviamente nessun risarcimento potrà restituire la salute perduta o una vita spezzata, ma è fondamentale, per le vittime, avere quantomeno giustizia e sostegno economico, e per i medici rendersi conto degli errori e prevenirne di futuri. La sfida presente e futura è garantire un sistema sanitario in cui l’errore sia l’eccezione rarissima, non nascosta ma gestita con responsabilità; e in cui il paziente sia sempre al centro, informato, consapevole e rispettato. La strada è tracciata dalle pronunce recenti: più rigore nel vagliare il nesso causale e più centralità alla persona.

 

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  • 31 ottobre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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