Bilanciamento tra diritto all’unità familiare e tutela dell’ordine pubblico nella sentenza 2461/2025 della Corte d’Appello di Venezia (permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare ex art. 30 T.U. Immigrazione)
La sentenza n. 2461/2025 della Corte d’Appello di Venezia (depositata il 10 luglio 2025), dove la Corte ha accolto appello presentato dallo Studio, affronta in maniera approfondita il tema del contenzioso amministrativo in materia di immigrazione, con particolare riguardo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare ai sensi dell’art. 30 del Testo Unico Immigrazione (D.Lgs. 286/1998). Il caso esaminato vede un cittadino straniero, da molti anni radicato in Italia e convivente con familiari italiani di secondo grado (nella specie, una sorella cittadina italiana), impugnare il diniego opposto dalla Questura alla sua istanza di permesso per motivi familiari. Il rifiuto amministrativo era motivato dalla presenza di gravi precedenti penali a carico del richiedente – in particolare una condanna per un reato di violenza sessuale risalente al 2019 – ritenuti indice di pericolosità sociale tale da giustificare il mancato accoglimento dell’istanza. L’interessato, dal canto suo, contestava la decisione autoritativa lamentando il difetto di una rigorosa istruttoria sulla sua situazione attuale e familiare: sottolineava di aver intrapreso un positivo percorso di reinserimento sociale e lavorativo dopo l’unico reato commesso, di vivere stabilmente in Italia dal 2013 e di convivere con la sorella italiana, elementi che la Pubblica Amministrazione avrebbe dovuto considerare in sede di valutazione. In sostanza, si contrapponevano due esigenze fondamentali: da un lato il diritto all’unità familiare del cittadino straniero – tutelato dall’art. 30 T.U. Immigrazione e collegato al divieto di espulsione previsto dall’art. 19, comma 2, lett. c) D.Lgs. 286/1998 per gli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado di nazionalità italiana – e dall’altro la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza collettiva, che impone di negare il soggiorno a chi rappresenti una minaccia concreta per la società. La pronuncia in commento costituisce un esempio emblematico di come l’autorità giudiziaria è chiamata a bilanciare questi interessi contrapposti in modo attuale, concreto e proporzionato, evitando automatismi. Si tratta di una decisione dal forte impatto umano, poiché in gioco vi è il destino di una persona integrata nel nostro tessuto familiare e sociale; qualora la sua richiesta fosse definitivamente respinta, egli sarebbe costretto a lasciare il Paese e i propri cari, sperimentando in prima persona l’amara condizione dell’esule magistralmente descritta da Dante Alighieri: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.”.
Sin dalle premesse motivazionali, la Corte d’Appello imposta l’analisi nel solco tracciato dalla normativa vigente e dalla giurisprudenza consolidata, ribadendo che il diniego di un permesso per motivi familiari richiede un accertamento rigoroso della pericolosità sociale attuale e concreta dello straniero. Viene ricordato come, per effetto delle riforme introdotte con il D.Lgs. 5/2007, non sia più ammesso alcun automatismo ostativo basato sulle mere pregresse condanne del richiedente: in passato, prima della modifica normativa, talune tipologie di reato comportavano ex lege l’immediata espulsione o il rigetto dell’istanza di soggiorno, in un’ottica di presunzione legislativa di pericolosità. Oggi, invece, l’autorità è tenuta a effettuare caso per caso un giudizio concreto sulla pericolosità, fondato sulla situazione aggiornata della persona. La Corte richiama espressamente questo principio, sottolineando che per negare il titolo di soggiorno occorre “la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale effettuato in concreto, il quale induca a concludere che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza, tale da rendere recessiva la valutazione degli ulteriori elementi ... contenuti nel novellato art. 5, comma 5, T.U. Immigrazione”. In altre parole, i precedenti penali, ancorché gravi, non possono tradursi in un automatico marchio di pericolosità indelebile: è necessario verificarne la rilevanza effettiva nel presente, valutando anche elementi favorevoli all’interessato quali la condotta successiva al reato, l’eventuale riabilitazione, il percorso di integrazione socio-lavorativa e, soprattutto, il radicamento familiare. Sul punto la Corte d’Appello valorizza l’argomentazione già sviluppata dalla difesa del ricorrente e accolta in numerose pronunce di legittimità, evidenziando come il provvedimento amministrativo impugnato difettasse di una motivazione concreta sulla pericolosità attuale. Non basta infatti richiamare la condanna penale pregressa: è onere dell’autorità valutare se, alla luce di elementi di fatto aggiornati, quel passato illecito si traduca ancora in una minaccia reale. Come affermato anche dalla Cassazione, l’Amministrazione e poi il giudice devono esplicitare “in concreto le ragioni dell’attuale pericolosità sociale del richiedente il permesso di soggiorno tali da giustificare il rigetto dell’istanza”, altrimenti il provvedimento risulta viziato. Nel caso di specie, la Corte evidenzia come il primo giudice avesse sì riconosciuto in teoria che “pur non potendosi desumere meccanicisticamente” la pericolosità dalla sola condanna per un reato rientrante nelle categorie di cui all’art. 5, comma 5-bis T.U. (come i delitti contro la libertà sessuale), tuttavia, in concreto, non avesse adeguatamente considerato gli elementi sopravvenuti e favorevoli al ricorrente. La Corte d’Appello, al contrario, adotta un approccio sostanzialistico: considera decisivo il fatto che la condanna risalga a diversi anni prima e costituisca episodio isolato, a fronte di una successiva buona condotta dell’interessato, inseritosi proficuamente nella società italiana e privo di ulteriori pendenze. Facta non praesumuntur, sed probantur – i fatti non si presumono, ma devono essere provati: in ossequio a questo principio generale, il Collegio giudica insufficiente la generica equiparazione del ricorrente ai “soggetti pericolosi” operata dalla Questura, in assenza di una dimostrazione puntuale di attuale pericolosità. Del resto, già da tempo la Suprema Corte ha chiarito che nell’esame dei requisiti per il soggiorno familiare “la valutazione della pericolosità deve essere effettuata in base ad elementi di fatto aggiornati all’epoca della decisione, ovvero a presunzioni fondate su circostanze concrete ed attuali”. In altri termini, fatti molto risalenti nel tempo possono essere richiamati solo come indizi indiretti e di supporto, mai come unico fondamento per escludere il diritto al soggiorno. Un precedente della Cassazione del 2021 – richiamato implicitamente anche dalla Corte veneziana – ha cassato una decisione proprio perché quest’ultima si era basata esclusivamente su condanne vecchie di oltre dieci anni, ribaltando il senso delle norme che impongono invece un giudizio attualizzato del caso concreto. Si comprende dunque come la ratio del sistema normativo ed esegetico vigente sia eliminare ogni automatismo arbitrario: summum ius, summa iniuria, la rigorosa applicazione letterale della norma (il “summum ius” dell’espulsione automatica in presenza di taluni reati) rischierebbe di tradursi in estrema ingiustizia (“summa iniuria”) se non temperata da una valutazione equilibrata delle circostanze individuali.
Parallelamente all’analisi sulla pericolosità, la Corte d’Appello dedica ampio spazio alla considerazione dei legami familiari dell'appellante e al loro peso specifico nel bilanciamento finale. Viene accertato e ribadito che l’interessato possiede in Italia un nucleo familiare effettivo: il vincolo di parentela e convivenza con la sorella cittadina italiana risulta documentalmente provato in atti (il certificato anagrafico attestante la coabitazione, lo stato di famiglia, ecc.), e costituisce la base legale della richiesta di permesso ai sensi dell’art. 30 T.U. Immigrazione. La presenza di stretti familiari sul territorio nazionale è giuridicamente tutelata quale espressione del diritto all’unità familiare, corollario del diritto alla vita privata e familiare sancito anche a livello sovranazionale (art. 8 CEDU). La Corte valorizza dunque i dati relativi all’integrazione familiare del ricorrente: la stabile convivenza con la sorella, il sostegno reciproco e l’effettività di tali rapporti affettivi. Tali elementi, ai sensi dell’art. 5, comma 5, T.U. Immigrazione, devono sempre essere presi in considerazione dall’autorità in sede di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, insieme ad altri fattori quali la durata della permanenza in Italia e l’esistenza di legami sociali e culturali nel nostro Paese. La sentenza in esame richiama proprio la lettera e lo spirito di questa disposizione, evidenziando che il legislatore – con le riforme del 2007 – ha inteso attribuire maggiore rilievo a motivi di carattere umanitario legati alla tutela dell’unità familiare, i quali devono poi essere confrontati con le esigenze di tutela sociale per stabilire in concreto quale interesse debba recedere. È evidente, quindi, che non vi è una preminenza assoluta a priori né dell’interesse dello straniero a restare con la famiglia né dell’interesse pubblico alla sicurezza: occorre valutare caso per caso, in modo proporzionato. In quest’ottica, “il relativo giudizio di bilanciamento va operato in maniera concreta ed attuale”, guardando alle particolarità del singolo caso ed alla situazione esistente al momento della decisione, ed è escluso che fatti ormai lontani nel tempo possano avere peso determinante, oltre una funzione meramente argomentativa di riscontro. La Corte d’Appello applica tali principi con rigore: nel ponderare gli interessi in gioco, dà atto da un lato della gravità astratta del reato commesso in passato dal ricorrente (certamente un elemento che milita a favore dell’interesse pubblico) ma, dall’altro lato, sottolinea la forte attenuazione del rischio per l’ordine pubblico intervenuta col trascorrere del tempo e con il comportamento irreprensibile successivo dell’interessato. Il pericolo per la collettività, inizialmente desunto ex lege dalla condanna, risulta nei fatti essersi affievolito; specularmente, l’interesse privato alla conservazione dell’unità familiare ha assunto un peso concreto sempre maggiore col radicamento del ricorrente nella comunità italiana. La Corte osserva come, ad oggi, l’allontanamento forzato dello straniero arrecherebbe un vulnus significativo non solo a lui stesso – privandolo degli affetti e del sostegno familiare quotidiano – ma anche ai suoi congiunti italiani, il cui diritto a mantenere la relazione familiare subirebbe una lesione.
Questa considerazione riflette un orientamento ormai consolidato anche in sede europea: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a partire dalla celebre sentenza Boultif c. Svizzera (2001), ha elaborato una serie di criteri per valutare la proporzionalità dell’espulsione di uno straniero rispetto al diritto alla vita familiare. Tali criteri – noti come criteri Boultif, poi confermati dalla Grande Camera nel caso Üner c. Paesi Bassi (2006) – includono, tra gli altri: la natura e gravità del reato commesso dallo straniero; la durata del soggiorno nel Paese ospitante; il tempo trascorso e la condotta tenuta dopo il reato; la situazione familiare effettiva (durata del matrimonio o convivenza, presenza di figli e loro età); la profondità dei legami sociali e culturali sia nel Paese di accoglienza che in quello di origine; nonché l’eventuale difficoltà che i familiari incontrerebbero se fossero costretti a seguirlo nel Paese d’origine. È evidente come la pronuncia veneziana sia perfettamente in linea con questo approccio: anche la Corte d’Appello, pur non menzionando espressamente le decisioni di Strasburgo, procede di fatto a un esame puntuale di tutti gli aspetti rilevanti (offesa originaria e condotta attuale, radicamento in Italia, esistenza di alternative nel Paese d’origine, ecc.), così da compiere un giudizio di proporzionalità equilibrato. In proposito, va ricordato anche il recente orientamento della Corte di Cassazione: numerose decisioni (Cass. civ. nn. 29148/2020, 30342/2021, 23423/2022, 26173/2023, tra le altre) hanno riaffermato che in tema di permesso per motivi familiari dev’essere sempre effettuato un bilanciamento tra la pericolosità sociale del soggetto e la tutela effettiva dei suoi vincoli familiari. Si è chiarito che soltanto una minaccia davvero attuale e significativa per l’ordine pubblico può giustificare l’espulsione o il diniego del titolo, facendone prevalere la logica punitivo-preventiva sull’interesse all’unità familiare; diversamente, in assenza di tale minaccia concreta, deve darsi attuazione al diritto alla vita familiare dello straniero, in conformità ai principi costituzionali e internazionali. La sentenza in esame, nel mettere in pratica tali principi, offre quindi una motivazione esemplare e ben strutturata: la Corte d’Appello di Venezia ricostruisce con rigore tutti gli snodi argomentativi richiesti (normativi, giurisprudenziali e fattuali) e giunge a una soluzione equilibrata, esente da vizi logici. In ultima analisi, infatti, il Collegio conclude che nel caso concreto non sussiste un livello di pericolosità sociale attuale sufficientemente elevato da prevalere sul diritto fondamentale all’unità familiare.
Pertanto viene ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego impugnato e, in riforma della decisione di primo grado, la Corte riconosce il diritto del ricorrente al rilascio del permesso di soggiorno per coesione familiare. La pronuncia n. 2461/2025 si segnala per la chiarezza con cui espone il doveroso metodo di valutazione nelle controversie analoghe: prima facie, l’interesse pubblico alla sicurezza va certamente considerato primario, ma non può essere soddisfatto con atti automatici o sommari; occorre piuttosto un’istruttoria sostanziale e un giudizio concreto, attento all’evoluzione nel tempo della condotta individuale e rispettoso del valore giuridico e sociale della famiglia. Solo così l’esigenza statuale di prevenire rischi collettivi potrà coniugarsi con il rispetto dei diritti fondamentali della persona, evitando decisioni sproporzionate e, in definitiva, ingiuste.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.