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Ricorso Pinto per ritardi processuali: tempi, costi e strategie per ottenere il giusto indennizzo - Studio Legale MP - Verona

Tempi e strategie per ottenere un equo risarcimento se il tuo processo si trascina eccessivamente: scopri come funziona il ricorso ex legge Pinto e come far valere i tuoi diritti.

 

“Giustizia ritardata è giustizia negata”, ammoniva il filosofo Montesquieu già nel Settecento. Questa massima riecheggia tutt’oggi nei tribunali italiani, dove la lentezza dei processi può frustrare le aspettative di cittadini e imprese. Per arginare questo fenomeno e garantire almeno un ristoro a chi ha subito anni di attesa, l’ordinamento italiano prevede il ricorso Pinto – dal nome della legge n. 89/2001 – che consente di ottenere un’indennizzo dallo Stato in caso di durata irragionevole del processo. In altre parole, se un procedimento giudiziario si protrae oltre i limiti di una ragionevole durata, la parte lesa ha diritto a un equo risarcimento per il danno (patrimoniale e non patrimoniale) patito a causa dell’attesa. Questo rimedio, introdotto dopo numerose condanne dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dà attuazione concreta al principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e al motto secondo cui “justice delayed is justice denied”. Vediamo dunque quando è possibile richiedere l’indennizzo Pinto, quanto tempo occorre, quali costi sono previsti e quali strategie adottare per ottenere il giusto ristoro.

 

Quando un processo è troppo lungo? – Tempi e requisiti del ricorso Pinto

Non ogni ritardo dà diritto automaticamente a un risarcimento. La legge Pinto fissa dei parametri temporali precisi oltre i quali la durata del processo si presume irragionevole. In generale, un procedimento eccede il termine di ragionevole durata se supera: tre anni in primo grado, due anni in secondo grado (appello) e un anno nel giudizio di legittimità (Cassazione). Esistono termini particolari per procedure speciali: ad esempio tre anni per i processi esecutivi e sei anni per le procedure fallimentari. Inoltre, la legge prevede un tetto massimo: se l’intero procedimento si conclude con decisione definitiva entro sei anni complessivi, anche sforando i limiti dei singoli gradi, non sorge diritto ad indennizzo. Questa sorta di “franchigia” tutela lo Stato nei casi in cui il processo, pur lungo in qualche fase, è stato comunque definito in tempi non biblici.

Va precisato che nel valutare la ragionevole durata si escludono dal conteggio alcuni periodi “morti” o ritardi non imputabili allo Stato. Ad esempio, non si calcola il tempo in cui il processo è sospeso per legge, i rinvii chiesti dalle parti (chi provoca dilazioni non può poi lamentarsene), i tempi morti dovuti a condotte dilatorie dell’istante stesso, ecc. In sostanza, la “lumaca” della giustizia si misura sul tempo effettivo impiegato dallo Stato per giungere a una decisione definitiva, al netto di pause fisiologiche o stratagemmi dilatori di avvocati e parti.

Quando il processo di merito termina (ad es. con sentenza passata in giudicato), la parte che ha subito il lungo iter deve attivarsi tempestivamente per chiedere l’indennizzo. La legge Pinto infatti impone un termine di decadenza di 6 mesi: il ricorso va presentato a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione finale è divenuta definitiva. Questo significa che, una volta concluso il processo principale (civile, penale, amministrativo, etc.), si hanno solo sei mesi di tempo per depositare l’istanza di riparazione; diversamente, il diritto si perde. La Corte Costituzionale ha peraltro chiarito che tale termine semestrale inizia a decorrere solo da quando la parte ha avuto formale conoscenza della conclusione del giudizio (notifica o comunicazione della sentenza definitiva), così da garantire l’effettività della tutela.

Il ricorso Pinto si propone con atto introduttivo depositato presso la Corte d’Appello competente (di regola, quella del distretto in cui si è svolto il primo grado del processo “lumaca”). L’istanza viene assegnata a un magistrato della Corte d’Appello, il quale procede in modo relativamente snello (spesso con un decreto motivato anziché una sentenza, salvo eventuale opposizione). Possono agire tutti i soggetti che erano parte del processo dall’eccessiva durata e ne hanno patito le conseguenze – siano essi attori, convenuti, imputati, parti civili, intervenienti, ecc. – indipendentemente dall’esito del giudizio. In altre parole, anche chi ha perso la causa o un imputato poi assolto può chiedere l’indennizzo per il ritardo, purché abbia subito un danno dal lungo tempo trascorso (si presume in re ipsa un danno morale da ansia e stress prolungato). Persino gli eredi di una parte possono proseguire o proporre il ricorso Pinto, se il danneggiato è deceduto, dato che il diritto all’equa riparazione si trasmette iure hereditatis.

È importante sapere che la normativa attuale obbliga le parti ad attivarsi durante il processo per accelerarne i tempi, pena la perdita del diritto all’indennizzo. Le riforme del 2012 e soprattutto del 2016 hanno introdotto i cosiddetti “rimedi preventivi”: prima di poter lamentare la durata irragionevole, la parte deve aver compiuto almeno un’azione acceleratoria nel corso del giudizio lumaca. Ad esempio, nelle cause civili occorre aver richiesto il passaggio al rito sommario o aver depositato un’istanza di decisione immediata (ex art. 281-sexies c.p.c.), nel processo penale va presentata un’istanza di accelerazione al giudice, nel processo amministrativo l’istanza di prelievo al TAR, e così via. Queste richieste vanno fatte almeno 6 mesi prima che il processo ecceda la durata ragionevole (quindi prima che maturino i 3 anni in primo grado, i 2 in appello, etc.). Se il processo è iniziato e diventato lento dopo il 31 ottobre 2016, il mancato utilizzo dei rimedi preventivi rende improcedibile la domanda di indennizzo. Lo scopo dichiarato è di evitare che le parti stiano passive per poi lucrare sull’indennizzo: dura lex, sed lex. Tuttavia, questo meccanismo ha sollevato dubbi quando il “rimedio” richiesto è di fatto inutile. Emblematico il caso dell’istanza di accelerazione in Cassazione: la Corte Costituzionale, con sentenza n. 142/2023, l’ha dichiarata illegittima come condizione di ammissibilità del Pinto, perché tale istanza non garantisce alcuna effettiva riduzione dei tempi. In altri termini, non si può negare il risarcimento se l’unica azione richiesta era un adempimento inefficace. La Consulta ha però precisato che la mancata presentazione di richieste acceleratorie potrà influire sul “quantum” dell’indennizzo – ad esempio segnalando uno scarso interesse della parte a una definizione rapida – ma non può precludere del tutto il diritto alla riparazione. Al di là di questo intervento, l’obbligo di attivismo processuale resta per gli altri casi: anche nei procedimenti dinanzi al Giudice di Pace (spesso di modesta entità), la Cassazione ha stabilito che è necessaria un’istanza di sollecita trattazione per poter poi accedere alla legge Pinto. In definitiva, chi subisce un processo lungo deve dimostrare di aver fatto la propria parte per sollecitarlo; solo così potrà bussare a quattrini allo Stato senza vedersi opporre di aver dormito sui propri diritti.

 

Quanto spetta? – Misura dell’indennizzo e costi della procedura

Ottenere il giusto indennizzo per un processo eccessivamente lungo significa anche sapere a quanto ammonta il risarcimento e quali costi comporta richiederlo. Iniziamo dai costi vivi: buona notizia, il ricorso Pinto è esente dal contributo unificato (normalmente dovuto per avviare cause civili). Lo Stato, riconoscendo che si tratta di un rimedio per una propria disfunzione, ha previsto che chi chiede l’equa riparazione non debba pagare tasse giudiziarie. Sono dovuti solo diritti forfettari di notifica (circa €27) per le comunicazioni dell’atto al Ministero convenuto, oltre naturalmente all’onorario dell’avvocato che predisporrà il ricorso. È obbligatorio infatti farsi assistere da un difensore (con procura speciale), trattandosi di un procedimento giurisdizionale: chi non può permetterselo, se in possesso dei requisiti di reddito, può chiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. In caso di accoglimento del ricorso, comunque, la Corte d’Appello liquiderà di regola anche le spese legali a carico dell’Amministrazione soccombente, seppur in misura contenuta e spesso forfettaria (es: 500€).

Passando all’entità dell’indennizzo Pinto, la legge prevede criteri abbastanza standardizzati. L’ammontare riconosciuto ha natura di danno non patrimoniale forfettario, quantificato in base agli anni di durata eccedenti la soglia di ragionevolezza. Dal 2016, i valori di riferimento fissati dal legislatore sono di €400 a €800 per ogni anno (o frazione di semestre) di ritardo oltre i termini ordinari. In precedenza i parametri erano più alti (€500-1500 annui), ma il legislatore li ha ridotti per contenere l’esborso pubblico. Entro questa forbice, il giudice determina la cifra tenendo conto di vari fattori: ad esempio l’entità del pregiudizio morale, l’importanza della causa per la parte, il comportamento delle parti (una parte totalmente disinteressata alla causa potrebbe meritare il minimo, mentre chi ha subito gravi ansie e ripercussioni dal ritardo può ottenere il massimo). Eventuali danni patrimoniali specificamente derivanti dal ritardo (es: spese extra, perdite economiche dovute all’attesa) possono essere richiesti, ma devono essere provati nel dettaglio – in pratica, l’equa riparazione Pinto verte soprattutto sul danno morale da irragionevole durata.

Va detto che l’indennizzo Pinto, pur significativo, resta in genere simbolico se paragonato alla posta in gioco sostanziale: non restituisce gli anni perduti né incide sull’esito della causa principale. Ad esempio, per un processo civile durato 10 anni anziché 3, l’indennizzo riconosciuto potrà aggirarsi sui €2.800–3.200 (7 anni di ritardo x €400–450 annui circa). Non si diventa ricchi con la Pinto, ma si ottiene il riconoscimento ufficiale del torto subito e un ristoro economico che, se non altro, copre le spese legali affrontate e dà soddisfazione morale. In alcune situazioni eccezionali il giudice può personalizzare l’importo: ad esempio aumentando la somma in presenza di ritardi straordinariamente gravi o di conseguenze particolarmente afflittive per la parte, oppure riducendola se la parte stessa ha tenuto una condotta processuale che ha aggravato la durata. L’obiettivo rimane comunque quello di mantenere l’indennizzo su livelli “ragionevoli” e uniformi, evitando disparità eccessive. A tal fine, giova ricordare che la Corte EDU considera accettabile il rimedio Pinto se offre circa la metà di quanto Strasburgo accorderebbe: proprio per questo la giurisprudenza europea ha di fatto avallato il dimezzamento delle somme (da 500 a 250 euro per semestre di ritardo) intervenuto col tempo. Insomma, l’equa riparazione italiana è modesta ma non irrisoria, calibrata per essere un sollievo e non un premio.

 

Strategie per ottenere il massimo dall’equa riparazione Pinto

Affrontare un ricorso per equa riparazione Pinto richiede non solo il rispetto di regole e scadenze, ma anche qualche accorgimento strategico per massimizzare le chance di successo e l’importo ottenibile. Ecco alcuni consigli pratici:

Agire tempestivamente: come visto, è fondamentale presentare il ricorso Pinto entro 6 mesi dalla fine del processo lumaca. Non aspettare l’ultimo momento: un deposito tardivo, anche di poco, comporta la decadenza dal diritto. Inoltre, prima si agisce e prima si otterrà il decreto di indennizzo – che generalmente viene emesso nel giro di alcuni mesi dal deposito (salvo intoppi).

Allegare tutta la documentazione necessaria: al ricorso vanno uniti copia degli atti principali del processo “lumaca” (atto introduttivo, verbali di udienza, provvedimenti e soprattutto la sentenza finale). Ciò serve a dimostrare la durata effettiva e l’esito del giudizio. È importante fornire un quadro chiaro e completo al giudice della Pinto, evitando che debba richiedere integrazioni. Un dossier ben organizzato accelera la decisione e rende più credibile la domanda.

Dimostrare di aver sollecitato il processo: come spiegato, la legge oggi pretende che tu non sia rimasto inerme durante l’attesa. Se il tuo avvocato ha presentato istanze di accelerazione (cambi rito, richieste di fissazione udienza, solleciti vari), assicurati di documentarlo nel ricorso. Ciò metterà al riparo da eccezioni di improcedibilità e dimostrerà la tua diligenza, portando magari il giudice a riconoscerti la fascia alta dell’indennizzo (vedendo che hai davvero sofferto il ritardo e hai cercato di porvi rimedio).

Evidenziare il danno subito: nella redazione del ricorso, il legale dovrebbe sottolineare in che modo la lunga attesa ti abbia danneggiato. Ad esempio, lo stress psicologico per anni di incertezza, eventuali ripercussioni sulla salute, ritardi nel conseguire un credito (con mancati guadagni o interessi persi), oppure – caso limite ma non raro – lesione della libertà personale se sei stato imputato tenuto “sotto processo” per troppo tempo. Pur non essendo necessario quantificare un danno specifico (il pregiudizio morale è presunto), enfatizzare le conseguenze negative della lentezza aiuta a persuadere il giudice a concedere un indennizzo congruo, magari tendente al massimo previsto.

Farsi assistere da professionisti esperti: il ricorso Pinto, pur snello, è un procedimento tecnico-giuridico a tutti gli effetti. Un avvocato esperto in diritto civile e diritti umani saprà impostare al meglio la strategia, evitando errori formali (es. notifiche tardive o carenti – il decreto va notificato al Ministero entro 30 giorni) e sostenendo adeguatamente le tue ragioni. Inoltre, un professionista potrà consigliarti se sia opportuno – nei rari casi di indennizzo irragionevolmente basso – valutare un ulteriore ricorso alla Corte EDU. Quest’ultima, infatti, può intervenire se l’equa riparazione nazionale è manifestamente insufficiente rispetto ai parametri europei, anche se si tratta di scenari eccezionali dopo le riforme dissuasive in materia.

In sintesi, preparazione e tempestività sono le armi vincenti. Prevenire è meglio che curare: se sei coinvolto in un processo che inizia a dilungarsi, chiedi al tuo legale di attivare i rimedi preventivi disponibili (laddove possibile) per non precluderti la via dell’indennizzo. E se il danno è ormai fatto, non esitare a far valere i tuoi diritti con un ricorso Pinto ben congegnato.

 

Dopo il ricorso: pagamento dell’indennizzo e novità recenti

Ottenere un decreto Pinto favorevole è un passo importante, ma a che serve una condanna se poi lo Stato paga in ritardo? In passato, infatti, si è verificato il paradosso della “Pinto su Pinto”: cittadini costretti a fare un secondo ricorso Pinto perché lo Stato stesso tardava a pagare le somme dovute per il primo ricorso!. Per evitare questa beffa, il legislatore è dovuto intervenire nuovamente. Dal 2016, il decreto che liquida l’indennizzo costituisce titolo esecutivo immediato contro lo Stato; inoltre il creditore, per mantenere vivo il diritto, deve inviare una dichiarazione ogni sei mesi confermando di non aver ricevuto il pagamento (così da maturare eventuali interessi di mora). La procedura di pagamento è stata informatizzata e razionalizzata. Novità recente: con la Legge di Bilancio 2025 è partito il progetto “PintoPaga”, un piano straordinario per azzerare in due anni l’arretrato nei pagamenti degli indennizzi Pinto. Sono state introdotte misure come la digitalizzazione obbligatoria delle istanze di pagamento e dei relativi moduli, l’accredito esclusivo su conto corrente (niente più vaglia cartacei), l’impiego di commissari ad acta e nuovo personale dedicato per velocizzare le pratiche. L’obiettivo dichiarato è di smaltire entro il 2026 tutte le pratiche di indennizzo pendenti fino al 2022, risparmiando milioni in interessi di mora e restituendo credibilità al rimedio Pinto. In altri termini, lo Stato italiano – dopo anni di figuracce nelle statistiche europee – sta cercando di voltare pagina, impegnandosi a risarcire chi ha avuto giustizia col contagocce senza ulteriori ritardi. Se queste promesse saranno mantenute, il ricorso Pinto diventerà uno strumento ancora più efficace e utile per i cittadini, non solo sulla carta ma anche nei fatti.

 

Conclusioni

In un sistema ideale, non ci sarebbe bisogno di indennizzi: i tribunali deciderebbero in tempi ragionevoli e nessuno subirebbe anni di angoscia in attesa di una sentenza. Purtroppo la realtà è diversa, e l’equa riparazione Pinto si rivela un istituto fondamentale per affermare che la giustizia lenta è comunque ingiustizia. Come un celebre romanzo di Franz Kafka insegna, rimanere invischiati in un procedimento interminabile può diventare un incubo kafkiano che mina la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario. Il ricorso Pinto offre un modo per spezzare questo incubo, ottenendo almeno un riconoscimento del torto subito. Certo, si tratta di un rimedio imperfetto – non accelera i processi, non restituisce il tempo perduto – ma ha un alto valore simbolico e costituzionale: lo Stato ammette le proprie colpe (pagando di tasca propria) quando non riesce a garantire una giustizia tempestiva. Fiat iustitia ruat caelum: sia fatta giustizia, costi quel che costi, anche quando arriva tardi

Attraverso il ricorso Pinto, questo principio prende forma concreta, offrendo al cittadino una riparazione e ribadendo che il diritto a un processo equo include il diritto a un processo in tempi ragionevoli. Come ricordato anche dalla giurisprudenza italiana, summum ius, summa iniuria: una giustizia troppo tardiva rischia di non essere più giustizia. Proprio per questo, strumenti come la legge Pinto sono essenziali per riaffermare la fiducia nella Giustizia (quella con la “G” maiuscola) e per dare un segnale: le istituzioni non ignorano la sofferenza di chi ha atteso troppo a lungo, ma anzi se ne fanno carico riconoscendo un indennizzo. In conclusione, se ti senti vittima della giustizia lumaca, ricorda che hai un’opzione in più: far valere i tuoi diritti con un ricorso Pinto ben strutturato. La strada verso il risarcimento potrebbe non essere breve, ma con l’assistenza giusta e le mosse adeguate potrai ottenere il giusto indennizzo e, soprattutto, vedere finalmente riconosciuto il principio che un ritardo dello Stato non può mai lasciare il cittadino completamente senza rimedio.

 

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  • 24 agosto 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.