«La vera misura di una società si trova nel modo in cui tratta i suoi membri più deboli.» – Mahatma Gandhi. Questa frase richiama una verità fondamentale: il livello di civiltà si riflette nella tutela garantita a chi vive una condizione di fragilità, come le persone con disabilità. In Italia le norme riconoscono importanti benefici ai cittadini invalidi civili (pensioni, assegni, indennità di accompagnamento, permessi lavorativi ecc.), ma tra la teoria e la pratica spesso c’è di mezzo un percorso a ostacoli fatto di burocrazia e dinieghi. Cosa fare se la commissione medica nega l’invalidità o riconosce una percentuale più bassa del dovuto? Quali sono le tutele per chi vuole impugnare un verbale ingiusto? Negli ultimi tempi il contesto è in evoluzione: il legislatore e i giudici stanno intervenendo per rendere più equo ed efficiente il sistema. Summum ius, summa iniuria – dicevano i latini: l’applicazione rigidamente formale della legge può creare ingiustizie sostanziali. Ed è proprio per evitare che la ricerca di rigidi requisiti formali calpesti i diritti dei disabili che sono state introdotte procedure semplificate e principi giurisprudenziali più attenti alla sostanza che alla forma. Vediamo dunque come funzionano i ricorsi in materia di invalidità civile e quali novità sono emerse nel 2024–2025 a tutela di chi convive con una disabilità.
Fino a ieri, per essere dichiarati invalidi civili bisognava affrontare lunghe trafile burocratiche: domanda all’ASL, visita davanti a commissioni mediche locali, eventuale verifica finale dell’INPS, e infine – in caso di diniego – il ricorso giudiziario. Nel 2024 è arrivata una piccola rivoluzione. Il decreto legislativo 3 maggio 2024 n. 62 ha riformato l’iter di accertamento della disabilità, affidando all’INPS la competenza esclusiva come ente accertatore. In pratica viene istituito un “certificatore unico” nazionale: la domanda di riconoscimento dell’invalidità civile (o handicap ai sensi della legge 104/1992) si presenta online all’INPS, che gestisce tutto il percorso valutativo. L’obiettivo è semplificare e accelerare le procedure, eliminando duplicazioni e differenze territoriali. La riforma prevede una sperimentazione graduale (in alcune province pilota dal settembre 2025) e introduce strumenti innovativi come una valutazione di base uniforme e il “progetto di vita” personalizzato per il disabile. Se queste promesse saranno mantenute, ottenere il verbale di invalidità dovrebbe diventare meno gravoso.
Ciononostante, non tutti i problemi spariscono con l’accertamento unico. Può sempre accadere che l’INPS (ora titolare dell’accertamento) nega il riconoscimento richiesto o attribuisce una percentuale inferiore alle attese, magari escludendo così il diritto a una certa prestazione economica. In tali casi resta fondamentale la tutela giurisdizionale: il ricorso al giudice. La legge già da anni prevede un percorso speciale per questi ricorsi: prima di arrivare al processo vero e proprio, il cittadino deve presentare un’istanza di accertamento tecnico preventivo obbligatorio davanti al Tribunale (sezione Lavoro), chiedendo che un perito medico nominato dal giudice valuti nuovamente le sue condizioni di salute. Questa fase peritale anticipata serve a verificare rapidamente il requisito sanitario (cioè se sussiste e in che misura la disabilità). È una procedura accelerata e semplificata, pensata per favorire magari una soluzione rapida: se il perito conferma il diritto, l’INPS potrebbe anche riconoscere la prestazione evitando il giudizio completo.
Su questo meccanismo la Cassazione è intervenuta di recente per chiarirne limiti e potenzialità. Con l’ordinanza n. 502/2025 (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 502/2025) depositata il 9 gennaio 2025, la Suprema Corte ha ribadito che in sede di accertamento tecnico preventivo il giudice può scrutare solo il requisito sanitario, senza spingersi a decidere altri aspetti della domanda. In altre parole, la perizia preventiva serve esclusivamente a stabilire se e in quale grado la persona è invalida civile, cieca, sorda, handicappata, ecc. Non vengono esaminati in questa fase altri requisiti amministrativi o economici (ad esempio, il reddito personale nei casi in cui è richiesto, oppure questioni di decorrenza del beneficio). Tali profili saranno valutati solo nell’eventuale causa di merito successiva, se il procedimento non si chiude prima. Questa precisazione (già presente nel quadro normativo, ma spesso fraintesa) è importante perché definisce il perimetro della tutela tecnica: il cittadino deve sapere che l’ATP serve a ottenere una valutazione imparziale sul suo stato di salute, mentre per discutere di soldi, arretrati e altri aspetti dovrà – se l’INPS non concede spontaneamente il dovuto – introdurre la causa di merito vera e propria.
Da un lato, dunque, oggi abbiamo un iter medico-legale unificato più snello (con l’INPS protagonista fin dall’accertamento iniziale); dall’altro, permane il ruolo cruciale del giudice del lavoro come garante ultimo dei diritti. La combinazione di riforma amministrativa e indirizzo giurisprudenziale mira a un sistema bilanciato: meno labirinti procedurali in ingresso, ma un giudizio più focalizzato e rapido sugli elementi controversi.
Ottenere il verbale di invalidità civile è solo il primo passo: per accedere alle provvidenze economiche (pensione di invalidità civile, assegno mensile, indennità di accompagnamento, pensione di inabilità, ecc.) occorre spesso rispettare rigorosi limiti di reddito personale. La normativa italiana, infatti, subordina il diritto alle prestazioni assistenziali per invalidi civili al fatto che l’interessato non superi una certa soglia annuale di reddito (variabile a seconda del beneficio e aggiornata ogni anno). Questo requisito reddituale ha creato nel tempo non poche discussioni e contenziosi, soprattutto su quali tipologie di reddito vadano conteggiate. Ad esempio: il possesso di una seconda casa, non affittata, incide sul reddito ai fini della pensione di invalidità? E l’assegno di mantenimento percepito dal coniuge separato? Le somme pagate per l’IMU possono essere sottratte dal calcolo?
Recentemente la Corte di Cassazione ha fornito un importante chiarimento unificando l’interpretazione. Con un’articolata pronuncia del 2025 (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 16006/2025 depositata il 15 giugno 2025), la Suprema Corte ha stabilito che per determinare il limite di reddito va considerato il reddito imponibile IRPEF del cittadino disabile, includendo anche il reddito figurativo delle proprietà immobiliari non affittate (ad eccezione della prima casa di abitazione) e senza poter dedurre dal calcolo le imposte patrimoniali come l’IMU. In pratica la Cassazione ha accolto la tesi stringente dell’INPS: ai fini del diritto alla pensione di invalidità civile si conta tutto il reddito tassabile, comprese le rendite catastali di eventuali seconde case non affittate, perché la legge non le esclude espressamente (salvo la casa principale) e perché l’IMU non è deducibile dalle imposte sui redditi.
Questa interpretazione, certamente rigorosa, nasce dall’esigenza di evitare abusi e concentrare le risorse pubbliche su chi è realmente privo di mezzi. Tuttavia può apparire ingiusta in alcuni casi concreti: basta un piccolo patrimonio immobiliare o un reddito di poco sopra la soglia, e il disabile perde completamente il diritto alla prestazione assistenziale, rimanendo magari in gravi difficoltà. Si pensi a chi possiede una modesta casetta ereditata, da cui non trae reddito effettivo: formalmente potrebbe oltrepassare il limite e dover restituire la pensione ricevuta. Come ha efficacemente notato Anatole France, “La legge, in tutta la sua equità, proibisce tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti…”: insomma, una regola uguale per tutti può colpire soprattutto i più deboli. Ecco allora che anche in questo ambito l’intervento del giudice può diventare l’ultima àncora di salvezza.
Nel caso deciso dalla Cassazione con l’ord. n. 16006/2025, ad esempio, una pensionata invalida si era vista chiedere indietro dall’INPS tutte le somme percepite, perché alcuni redditi catastali l’avevano portata appena sopra la soglia negli anni passati. La Corte d’Appello le aveva dato ragione, escludendo dal computo quei redditi “fittizi”, ma la Cassazione – applicando la legge in modo rigoroso – ha rovesciato il verdetto, affermando il principio di diritto sopra descritto. Ciò significa che, d’ora in poi, contesterà con successo le richieste di rimborso solo chi potrà far leva su un intervento legislativo o costituzionale correttivo, più che su un’interpretazione elastica della norma ordinaria. In effetti, la Corte Costituzionale è stata già investita più volte della questione dei limiti di reddito per gli invalidi, dovendo bilanciare il vincolo delle risorse pubbliche con il principio di uguaglianza e proporzionalità. Finora, però, il quadro è rimasto immutato.
Va comunque precisato che il ruolo del giudice nei ricorsi per invalidità non è affatto vano: se la Commissione/INPS aveva valutato male le condizioni di salute, riconoscendo ad esempio un’invalidità troppo bassa, il ricorrente che ottiene un aumento della percentuale (superando le soglie del 74% per l’assegno mensile o del 100% per l’accompagnamento) vedrà riconosciuti i relativi arretrati economici, sempre che rispetti i requisiti reddituali di legge. Il giudice può inoltre correggere la decorrenza della prestazione (spesso l’INPS la concede da data errata) e verificare l’applicazione delle tabelle valutative. Insomma, la tutela giurisdizionale consente di far emergere il diritto sostanziale al di là dei formalismi o degli errori dell’amministrazione.
Accanto alle questioni procedurali e ai requisiti economici, negli ultimi tempi sono emersi principi giurisprudenziali di ampio respiro che rafforzano la tutela delle persone con disabilità, anche oltre il perimetro strettamente assistenziale. Un caso emblematico proviene dalla Corte Costituzionale: la sentenza n. 94/2025 ha segnato una svolta in materia di assegno ordinario di invalidità (AOI). Quest’ultimo è una prestazione previdenziale riconosciuta ai lavoratori che, pur non essendo totalmente inabili, hanno una riduzione permanente della capacità lavorativa di almeno 2/3; fino al 2025, però, se l’assegno veniva calcolato interamente con il metodo contributivo (cioè per lavoratori con contributi successivi al 1995), l’importo – spesso molto basso – non poteva essere integrato al trattamento minimo previsto per le pensioni. In sostanza, agli invalidi parziali “contributivi” non era garantito alcun importo minimo vitale: anche se l’assegno risultava di poche decine di euro, restava quello. La Consulta ha dichiarato illegittima questa esclusione, ritenendola irragionevole e discriminatoria verso una categoria di soggetti deboli. Da luglio 2025, dunque, grazie alla sentenza n. 94/2025, anche gli assegni ordinari di invalidità calcolati con il sistema contributivo devono essere elevati almeno al minimo di pensione (purché il titolare rispetti i consueti limiti di reddito personali e coniugali per l’integrazione al minimo). Si tratta di un riconoscimento importante di solidarietà, che evita situazioni paradossali in cui un invalido parziale si trovava con assegni quasi simbolici. La Corte Costituzionale, richiamando gli artt. 3 e 38 della Costituzione, ha sottolineato che le prestazioni per invalidità hanno una forte funzione assistenziale e non possono abbandonare chi si trova in condizioni di bisogno effettivo. Va notato che la pronuncia ha efficacia pro futuro (non rende cioè automatico il rimborso del passato), ma d’ora in avanti corregge strutturalmente il sistema a beneficio di tutti i nuovi invalidi parziali.
Un altro segnale di attenzione ai diritti dei disabili proviene dalla stessa Corte di Cassazione, ma in un ambito diverso, quello del risarcimento del danno. Quando la disabilità deriva da un fatto illecito (ad esempio un grave incidente stradale o un caso di malasanità), la persona ha diritto a un risarcimento integrale dei danni subiti. Spesso però l’assicurazione o il responsabile civile cercano di dedurre dal risarcimento quanto il danneggiato percepisce dallo Stato come pensione o indennità di invalidità civile, sostenendo che si tratterebbe di un doppio beneficio per la medesima menomazione. Ebbene, la Cassazione ha chiarito che questo ragionamento è sbagliato: con la sentenza n. 6031/2025 (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 6031/2025) la Corte ha affermato che la pensione di invalidità civile e l’assegno ordinario di invalidità non vanno detratti dal risarcimento del danno biologico dovuto al disabile vittima di illecito. Tali prestazioni pubbliche, infatti, rispondono a una logica solidaristica e coprono in parte la perdita di capacità di lavoro e di guadagno, cioè un pregiudizio patrimoniale distinto rispetto al danno biologico integrale che il responsabile deve risarcire. In altri termini, se una persona diventa invalida a causa dell’errore altrui, può cumulare sia il risarcimento (che compensa tutti i profili del danno, fisico, morale, esistenziale e anche parte del patrimoniale) sia le provvidenze pubbliche previste per la sua invalidità, senza subire decurtazioni. È un principio importante perché garantisce al disabile risarcito di non dover “rimborsare” allo Stato, per via indiretta, ciò che lo Stato gli ha dato per assistenza. Ancora una volta, quindi, l’ordinamento esprime un messaggio chiaro: la tutela del disabile deve essere piena e su più fronti, sia nei confronti dello Stato (che deve assicurare misure adeguate e non discriminatorie), sia nei confronti di eventuali responsabili di danni (che non possono avvantaggiarsi delle tutele pubbliche per ridurre il proprio obbligo risarcitorio).
Per le persone con disabilità e i loro familiari, districarsi tra percentuali, verbali e ricorsi può risultare complesso e scoraggiante. Le recenti riforme e pronunce giudiziarie provano a rendere giustizia a un principio fondamentale: dietro ogni pratica di invalidità c’è una persona con diritti e bisogni da rispettare. Dal “certificatore unico” INPS che punta a valutazioni più rapide e uniformi, ai giudici che correggono errori e rigidità (come nel caso dei requisiti di reddito o delle indennità non pienamente adeguate), il sistema sta evolvendo verso una maggiore equità sostanziale. Certo, resta ancora del cammino da fare – e “non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali” ricordava Don Lorenzo Milani – ma la direzione è tracciata: riconoscere differenze e fragilità per assicurare a tutti pari dignità e opportunità.
Se hai ricevuto un diniego dall’INPS o ritieni che i tuoi diritti di invalido civile non siano stati rispettati, ricorda che esistono strumenti di legge per far valere le tue ragioni. Lo Studio Legale MP è a tua disposizione per consulenza e assistenza in materia di invalidità, disabilità e previdenza: non esitare a contattarci per valutare il tuo caso e ottenere il supporto necessario a tutelare i tuoi diritti.
Redazione - Staff Studio Legale MP