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Assegno divorzile: la Cassazione riscrive i criteri ? - Studio Legale MP - Verona

Le più recenti sentenze della Cassazione “rivoluzionano” i presupposti dell’assegno divorzile. L’ex coniuge economicamente più debole viene tutelato in chiave compensativa per i sacrifici compiuti durante la vita matrimoniale. Criteri analoghi vengono estesi per la prima volta anche alle unioni civili, avvicinando i partner dell’unione ai diritti dei coniugi divorziati.

Gli scopi dell’assegno divorzile: assistenza e compensazione
Fin dalla riforma del 1987, l’assegno divorzile è previsto dall’art. 5 della legge sul divorzio (L. 898/1970) come un sostegno economico in favore dell’ex coniuge che si trovi in condizioni di bisogno. La giurisprudenza più recente, però, ha chiarito che questo istituto non ha una mera funzione assistenziale, ma anche compensativa e perequativa. In altre parole, l’assegno serve non solo a garantire un aiuto materiale a chi non ha mezzi sufficienti, ma anche a riconoscere e compensare gli eventuali sacrifici fatti durante il matrimonio a beneficio della famiglia. La Corte di Cassazione, con una serie di pronunce innovative, ha delineato i due pilastri dell’assegno divorzile: da un lato la tutela del coniuge economicamente più debole (funzione assistenziale), dall’altro la valorizzazione del contributo dato alla vita familiare comune (funzione compensativo-perequativa). Già le Sezioni Unite nel 2018 avevano abbandonato il riferimento automatico al pregresso tenore di vita matrimoniale, privilegiando una valutazione caso per caso dell’apporto di ciascun coniuge. Oggi questo indirizzo si consolida: come affermato in Cass. civ., Sez. I, ord. n. 9887/2025 del 15 aprile 2025, l’assegno divorzile non è una rendita per mantenere il lusso del passato, ma uno strumento di equità sostanziale fondato sulla storia coniugale e sulle disparità economiche causate dalle scelte di coppia. In questa ordinanza la Suprema Corte ha ribadito che l’assegno ha natura assistenziale (se tutela chi non ha risorse né possibilità concrete di procurarsele) ma anche compensativa (se riequilibra gli squilibri economici derivati da decisioni comuni come rinunce lavorative, trasferimenti, crescita dei figli). Il tutto, sottolinea la Corte, va valutato con una visione di insieme, guardando sia al passato (durata del matrimonio, ruolo di ciascun coniuge, contributi e rinunce) sia al futuro (la capacità potenziale del richiedente di procurarsi un reddito). Questo approccio moderno mette in primo piano il principio di solidarietà post-coniugale: chi ha beneficiato dei sacrifici dell’altro durante il matrimonio deve in parte compensarlo dopo la fine dell’unione. Come recita il brocardo latino, “Summum ius, summa iniuria”: un’applicazione troppo rigida della legge (ad esempio negare ogni sostegno perché l’ex coniuge “sopravvive” autonomamente) rischierebbe di tradursi in un’ingiustizia, se non si considerano i retroscena di quella situazione economica. Le nuove sentenze, invece, cercano il giusto equilibrio, adeguando la regola alle concrete vicende familiari di ciascun caso.

Il contributo alla vita familiare conta più del tenore di vita
Una delle svolte più significative emerse dalle decisioni del 2025 è la centralità del contributo del coniuge alla vita familiare, rispetto al parametro ormai secondario del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. In passato l’assegno veniva spesso quantificato confrontando il tenore di vita matrimoniale con la situazione post-divorzio, quasi a garantire una continuità. Oggi, invece, la Cassazione invita a guardare oltre: ciò che legittima l’assegno è soprattutto lo squilibrio economico creatosi a seguito di scelte comuni e ruoli familiari, non semplicemente il fatto che uno degli ex coniugi abbia un reddito inferiore all’altro. Ad esempio, se la moglie (o il marito) ha rinunciato a progressioni di carriera o a opportunità di lavoro per occuparsi della casa e dei figli, è giusto che quel sacrificio venga riconosciuto economicamente dopo il divorzio. Non conta solo dimostrare di essere più poveri dell’ex coniuge: conta dimostrare che questa disparità deriva anche dal ruolo assunto in famiglia. La Cassazione, con l’ordinanza n. 24759/2025 dell’8 settembre 2025 (Cass. civ., Sez. I), ha affermato chiaramente che l’apporto alla vita familiare legittima l’assegno anche senza sacrifici reddituali “certificati”. In quel caso specifico, è stato confermato un assegno divorzile a favore di una ex moglie che, pur non potendo provare di aver abbandonato un lavoro redditizio per la famiglia, aveva comunque dedicato molti anni alla cura dei figli e della casa, contribuendo in modo non quantificabile ai successi professionali del marito. La Corte ha ritenuto irrilevante che la donna non avesse un’alta qualifica o uno stipendio mancato da rivendicare: ciò che conta è che durante il matrimonio abbia contribuito alla formazione del patrimonio comune e alla gestione familiare, ritrovandosi poi in condizioni economiche peggiori rispetto all’ex consorte. Questa linea giurisprudenziale “valorizza il lavoro invisibile” del coniuge, riconoscendo che impegno domestico, supporto morale e scelte di vita condivise possano incidere sulle fortune economiche di entrambi. In sintesi, la “storia di vita” della coppia diventa fondamentale: l’assegno viene parametrato al contributo dato e ai sacrifici sopportati, più che al confronto astratto dei redditi. Come ha osservato efficacemente un noto romanziere, “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice neglio momenti di miseria”. Per evitare che il divorzio trasformi i sacrifici passati in miseria futura per uno solo dei due, la giurisprudenza interviene a riequilibrare le sorti, premiando l’aver investito nella famiglia anche a costo di rinunce personali. Questo non significa ripristinare il tenore di vita matrimoniale ad ogni costo, ma garantire un livello di autosufficienza economica dignitoso e proporzionato all’apporto fornito durante gli anni di matrimonio.

Dovere di autosufficienza e “autoresponsabilità” dell’ex coniuge
Accanto al dovere di solidarietà, le sentenze recenti sottolineano anche il principio di autoresponsabilità: l’assegno divorzile non deve diventare un incentivo all’inerzia o un vitalizio ingiustificato. La Cassazione ricorda che l’ex coniuge beneficiario è tenuto a attivarsi per rendersi autonomo, laddove possibile. Già da alcuni anni, in tema di assegno divorzile, i giudici valutano se il richiedente abbia la capacità effettiva di procurarsi un reddito e se abbia compiuto ogni ragionevole sforzo in tal senso. In caso contrario, l’assegno può essere negato o ridotto. Le pronunce del 2025 rafforzano questo concetto: il mantenimento post-divorzio non è dovuto a chi rifiuta volontariamente occasioni di lavoro o adotta un atteggiamento passivo nel migliorare la propria condizione. In altre parole, l’ex coniuge economicamente svantaggiato va aiutato solo se tale condizione dipende dal matrimonio e non da sua inerzia o scelta. Ad esempio, se la ex moglie (o ex marito) è giovane, abile al lavoro e con qualifiche spendibili, dovrà cercare attivamente un’occupazione; un eventuale assegno avrà carattere temporaneo o decrescente, giusto il tempo di recuperare l’indipendenza economica. Invece, se l’ex coniuge ha perso opportunità professionali difficilmente recuperabili (per età avanzata, salute o perché ha sacrificato la propria formazione per la famiglia), l’assegno avrà una funzione più marcatamente compensativa e potrà essere riconosciuto a tempo indeterminato, salvo mutamenti significativi. La recente giurisprudenza ha anche chiarito che l’assegno non è una rendita eterna e immodificabile: qualora, dopo il divorzio, il beneficiario migliori la sua condizione (trovi un buon impiego, erediti dei beni, inizi una nuova convivenza stabile o un’unione che ne accresce il reddito), l’assegno può essere ridotto o revocato. In particolare, l’instaurazione di una nuova convivenza “more uxorio” da parte del beneficiario fa venire meno – secondo l’indirizzo ormai prevalente – il diritto all’assegno divorzile, perché si presume che egli abbia trovato un nuovo equilibrio di vita e di supporto economico. Tuttavia, la Cassazione invita i giudici di merito a valutare con attenzione caso per caso: ad esempio, una convivenza priva di reale supporto economico potrebbe non giustificare automaticamente la revoca. Nell’ambito dell’autoresponsabilità rientra anche l’obbligo di documentare la propria condizione: chi richiede l’assegno deve provare il peggioramento economico legato al divorzio e l’assenza di mezzi adeguati, fermo restando che – come detto – non occorre trovarsi in povertà assoluta. Il fine ultimo è evitare abusi: l’assegno deve essere uno strumento di giustizia, non un ingiusto vantaggio. In quest’ottica, le ultime sentenze cercano di bilanciare solidarietà e responsabilizzazione: aiutare chi davvero ha dato tanto alla famiglia ed è rimasto indietro, ma spronare costui/costei a rendersi indipendente per quanto possibile. Anche le corti di merito nel 2025 hanno recepito il messaggio: diverse pronunce di Tribunali e Corti d’Appello hanno negato l’assegno a ex coniugi relativamente giovani che avevano deciso di non lavorare senza valide ragioni, oppure lo hanno limitato nel tempo tramite la formula dell’assegno “a termine”, destinato a cessare dopo alcuni anni. In conclusione, chi chiede l’assegno deve dimostrare non solo di averne diritto in base al passato, ma anche di meritarlo nel presente, mantenendo un atteggiamento attivo e collaborativo verso la propria autosufficienza.

Estensione alle unioni civili: la decisione colma un vuoto
Una novità assoluta del 2025 riguarda l’estensione dell’assegno anche in caso di scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La legge Cirinnà del 2016, che ha introdotto in Italia le unioni civili, non prevedeva espressamente un assegno analogo a quello divorzile in favore del partner economicamente più debole dopo la cessazione dell’unione. Si trattava di una lacuna normativa, colmata fino ad oggi in modo disomogeneo dalla giurisprudenza di merito: alcuni tribunali concedevano ugualmente un assegno “divorzile” per analogia, altri lo negavano per mancanza di base legale. La Cassazione è intervenuta a fare chiarezza con l’ordinanza n. 25495/2025 del 17 settembre 2025 (Cass. civ., Sez. I), stabilendo un principio fondamentale: anche nelle unioni civili sciolte spetta un assegno periodico al partner che versi in condizione di bisogno e abbia contribuito alla comune vita familiare, secondo criteri analoghi a quelli dell’assegno divorzile. La Suprema Corte ha quindi riconosciuto una sostanziale equiparazione di trattamento tra ex coniugi ed ex partner dell’unione civile, richiamando espressamente la disciplina dell’assegno divorzile (art. 5, co. 6 L. 898/1970) come normativa di riferimento “compatibile” anche per le unioni civili, in virtù del rinvio generale contenuto nella legge Cirinnà. In questo storico pronunciamento, la Corte ha evidenziato che sarebbe irragionevole e incostituzionale privare il partner più debole di tutela economica solo perché l’unione non era un matrimonio: la funzione solidaristica e compensativa dell’assegno post-separazione deve valere in ogni forma di famiglia legalmente riconosciuta. Vengono quindi applicati gli stessi parametri: l’assegno nell’unione civile avrà carattere assistenziale se uno dei due ex partner non ha mezzi adeguati, e compensativo-perequativo se uno dei due ha sacrificato occasioni di guadagno o contribuito in modo decisivo al ménage comune. La Cassazione ha sottolineato che occorre una “ponderazione complessiva dell’intera storia della coppia” anche per le unioni civili, valutando durata dell’unione, contributi reciproci, sacrifici compiuti e potenzialità future, proprio come per i matrimoni. Questa decisione rappresenta una svolta di portata notevole: uniformando la tutela, la Corte ha di fatto colmato un vuoto e assicurato parità di diritti. In altre parole, l’ordinamento italiano si allinea al principio che “dove c’è una famiglia, c’è dovere di solidarietà” indipendentemente dal sesso dei partner o dalla forma giuridica del legame. Sul piano pratico, d’ora in avanti il partner di un’unione civile sciolta potrà chiedere al giudice l’attribuzione di un assegno periodico, alle stesse condizioni di un coniuge divorziato. Ciò fornisce certezza sia a chi intende tutelarsi con un accordo patrimoniale in sede di costituzione dell’unione (ad esempio tramite contratti di convivenza che prevedano clausole di mantenimento, ora più facilmente riconosciute), sia a chi si trova in difficoltà economica dopo la separazione. Si tratta di un ulteriore passo verso l’uguaglianza dei diritti familiari, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà: nessuno deve rimanere privo di tutela solo per una differenza di nomen iuris del proprio legame affettivo.

Criteri di quantificazione: valutazione globale e flessibile
Alla luce di queste novità, come viene concretamente stabilito se spetta l’assegno e in quale misura? Le sentenze del 2025 indicano un percorso di valutazione più globale e flessibile rispetto al passato. Il giudice deve innanzitutto verificare il presupposto dell’anomalia reddituale: esiste un significativo divario economico tra gli ex coniugi (o ex partner) tale da giustificare la richiesta? In secondo luogo, occorre accertare il nesso causale tra questo divario e il vissuto matrimoniale: la disparità è conseguenza delle scelte di coppia, dei ruoli assunti in famiglia, di eventuali rinunce di uno a vantaggio dell’altro? Se entrambe le risposte sono positive, l’assegno di norma spetta. La quantificazione dell’importo deve poi tenere conto di molteplici fattori enumerati dall’art. 5 della legge divorzile e ribaditi dalle pronunce recenti: durata del matrimonio/unione, età e stato di salute del richiedente, capacità e possibilità concrete di lavoro (valutate al momento del divorzio e in prospettiva futura), contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale, reddito e patrimonio di entrambi. Va considerato anche se durante il matrimonio uno dei coniugi ha agevolato la carriera dell’altro, ad esempio occupandosi prevalentemente della famiglia: ciò giustifica un assegno più consistente a titolo compensativo. Al contrario, se il richiedente dispone già di un patrimonio (immobili, investimenti) o di un reddito proprio di tutto rispetto, l’assegno può essere escluso o simbolico, perché in tal caso manca sia lo stato di bisogno sia la perdita di chance economiche dovute al matrimonio. Importante è inoltre la distinzione tra assegno periodico e una tantum: la legge consente, in alternativa alle somme mensili, di accordare un capitale unico “una tantum” che chiude ogni obbligo. Le ultime giurisprudenza suggeriscono questa soluzione in situazioni particolari, ad esempio quando i coniugi preferiscono definire in via transattiva i rapporti economici di divorzio (magari in un divorzio congiunto), oppure quando l’avente diritto all’assegno dispone già di un minimo di sicurezza economica e un versamento unico può bastare a compensarlo. La Cassazione ha chiarito che l’assegno una tantum va calcolato in modo da garantire comunque la sussistenza e la compensazione dovuta, proiettandola però in un unico riconoscimento economico. Nelle cause contenziose, la scelta tra assegno periodico e una tantum spetta al giudice in base alle circostanze (anche se normalmente la preferenza va per il periodico, più adattabile a futuri mutamenti, salvo accordo fra le parti). Un altro punto sottolineato dalle pronunce del 2025 è la possibilità di revisione: l’assegno divorzile non è scolpito nella pietra per sempre, ma può essere modificato se sopravvengono fatti nuovi significativi. La revocabilità e modificabilità dell’assegno rimangono disciplinate dall’art. 9 della legge divorzile: ad esempio, come detto, una nuova convivenza o un miglioramento della condizione dell’ex coniuge beneficiario può portare alla cessazione dell’obbligo; specularmente, un peggioramento improvviso delle sue condizioni (perdita del lavoro, malattia grave) o un arricchimento improvviso dell’obbligato (vincita, promozione, eredità) possono giustificare un aumento dell’assegno. La flessibilità è dunque la cifra di questa materia: la Cassazione invita ad adottare soluzioni eque e adattabili, senza rigidi automatismi. Ciò nell’ottica che l’assegno divorzile deve perseguire giustizia sostanziale tra ex coniugi, riflettendo il più possibile il contributo di entrambi e le reali condizioni di vita successive alla fine del matrimonio.

Conclusioni
Le innovazioni giurisprudenziali sull’assegno divorzile emerse negli ultimi tempi tracciano un panorama più attento ai valori costituzionali di uguaglianza e solidarietà. La Cassazione, tramite importanti ordinanze nel 2025, ha rafforzato la tutela del coniuge debole, riconoscendo apertamente che dietro un divario economico tra ex spesso vi sono anni di impegno familiare non retribuito. Frasi come “assegno divorzile” non significano più automaticamente “vitalizio all’ex moglie”, ma si riempiono di contenuti più nobili: l’assegno è dovuto in quanto riconosce il ruolo svolto durante la vita matrimoniale e aiuta chi davvero ne ha bisogno a ritrovare un equilibrio. Al contempo, si è tracciata una linea di rigore contro abusi e rendite parassitarie: se l’ex coniuge può lavorare e mantenersi da sé, o se ha già un nuovo compagno che lo supporta, l’assegno perde la sua ragion d’essere. Questa stagione di rinnovamento ha anche sanato l’ingiustificata disparità di trattamento verso le unioni civili, confermando che diritti e doveri di solidarietà non dipendono dal genere o dallo status, ma dalle concrete realtà di vita in comune. Per le coppie che si separano, ciò significa maggiore chiarezza sulle regole del gioco: possono orientarsi meglio sapendo che i tribunali guarderanno non solo ai conti in tasca, ma anche al “dietro le quinte” della loro storia. Se un coniuge ha messo la famiglia al centro e ne subisce ora le conseguenze economiche, non verrà lasciato indietro. Viceversa, se uno cerca di approfittare del divorzio per ottenere indebitamente un beneficio, difficilmente avrà fortuna. In definitiva, l’assegno divorzile evolve da freddo calcolo economico a strumento di giustizia equitativa, calibrato sulle singole vicende umane. Chi affronta un divorzio farebbe bene a documentare compiutamente la propria situazione – sacrifici fatti, eventuali rinunce a carriere, stato attuale di bisogno – perché queste sono le variabili chiave che incideranno sulle decisioni del giudice. Allo stesso tempo, la parte economicamente forte deve essere consapevole che dovrà contribuire se dall’altra parte ci sono “debiti di riconoscenza” per il passato. In questa nuova visione, come ha scritto un celebre autore, “Il divorzio non è una tragedia. Tragedia è vivere infelici insieme insegnando ai figli l’infelicità”. Il sistema giuridico sembra voler evitare tragedie post-coniugali, offrendo a ciascuno una chance di ripartenza equilibrata, senza vincitori né vinti netti, ma con un aggiustamento reciproco dei destini.

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  • 02 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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