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Revenge porn: quando diffondere immagini intime è reato - Studio Legale MP - Verona

La legge tutela la riservatezza delle immagini private e punisce duramente chi le diffonde senza consenso. Le ultime sentenze della Cassazione hanno definito meglio i confini del reato di revenge porn e rafforzato gli strumenti di tutela per le vittime, con pene esemplari per i colpevoli e possibilità di risarcimento per i danni subìti

 

Revenge porn: foto intime e reato penale

Pubblicare o condividere immagini private a sfondo sessuale senza il consenso della persona ritratta è un grave reato. Introdotto nel 2019 con la riforma del “Codice Rosso”, l’articolo 612-ter del Codice Penale punisce la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti destinati a rimanere privati. Lo scopo della norma è proteggere la privacy, l’onore e la dignità personale da quello che i media definiscono revenge porn, la “vendetta pornografica” attuata spesso da ex partner o conoscenti per ritorsione. È un fenomeno purtroppo in crescita nell’era digitale: basta un click perché un contenuto privato diventi virale, con conseguenze devastanti sulla vita della vittima. La leggenda narra che la dea Fama avesse ali ai piedi e corresse velocissima: «Fama, malum qua non aliud velocius ullum», scriveva Virgilio. Oggi, nell’era dei social network, una singola foto personale può fare il giro del mondo in pochi attimi, se diffusa senza controllo.

 

Cosa prevede la legge: pene severe e aggravanti

La normativa sul revenge porn prevede sanzioni penali molto severe. Chiunque diffonda, pubblichi o inoltri foto o video intimi altrui senza permesso è punito con la reclusione da 1 a 6 anni e con una multa da 5.000 a 15.000 euro. La legge distingue due ipotesi:

Se l’autore del fatto ha realizzato egli stesso il materiale (ad esempio è la persona ritratta o chi ha scattato le foto) oppure lo ha sottratto alla vittima (ad esempio accedendo al suo telefono o account), scatta il reato se poi invia o diffonde tali immagini senza consenso.

Anche chi riceve o comunque acquisisce le immagini da terzi e a sua volta le diffonde può essere punito, purché agisca con l’intento di causare un danno alla persona coinvolta. Questo elemento intenzionale è importante: la seconda parte dell’art. 612-ter c.p. richiede il dolo specifico di voler nuocere alla vittima. Ciò significa che, ad esempio, la semplice condivisione imprudente ma senza volontà di offendere potrebbe non integrare questo reato, rimanendo però una condotta moralmente censurabile e potenzialmente fonte di responsabilità civile.

Sono previste inoltre circostanze aggravanti che aumentano la pena (fino alla metà in più). Le pene sono aggravate se il colpevole è il partner o ex partner della vittima – quindi coniuge, anche separato o divorziato, o persona legata da relazione affettiva presente o passata – poiché in questi casi la lesione della fiducia e dell’intimità è particolarmente odiosa. Un’altra aggravante specifica è l’uso di strumenti informatici o telematici: diffondere materiale privato tramite internet o social network rende il danno potenzialmente ancor più ampio e irreparabile, giustificando un aumento di pena. Infine, se la vittima è una persona in condizioni di infermità fisica o mentale o una donna in gravidanza, il reato diventa più grave ed è perseguibile d’ufficio – cioè le autorità possono procedere anche senza una querela, per tutelare maggiormente i soggetti più vulnerabili.

 

Le ultime sentenze: chi è responsabile e in quali casi

Dal 2019 ad oggi, i tribunali hanno già applicato la nuova norma in diversi casi, e nel biennio 2024–2025 sono arrivate anche pronunce importanti della Corte di Cassazione che aiutano a definire meglio i contorni del reato di revenge porn. Vediamo alcuni punti chiave emersi dalla giurisprudenza più recente:

• Terze persone che diffondono immagini: una sentenza della Cassazione penale ha stabilito che risponde di revenge porn solo chi ha avuto un ruolo attivo nella creazione o nell’appropriazione delle immagini private poi diffuse. In un caso del 2024 (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 24379/2024), la Suprema Corte ha escluso il reato per un soggetto che aveva condiviso fotografie intime altrui senza averle né scattate né rubate alla vittima. Pur riconoscendo l’assenza di consenso alla diffusione, i giudici hanno ritenuto che l’autore della condotta, essendo completamente estraneo alla relazione personale della vittima e non avendo egli stesso acquisito indebitamente il materiale, non rientrasse tra i destinatari diretti della norma penale. Questa interpretazione restringe l’ambito del 612-ter c.p. ai casi in cui chi diffonde le immagini sia l’ex partner vendicativo o chi si è procurato il materiale violando la sfera privata della vittima. In pratica, se le foto passano di mano in mano e qualcuno le pubblica senza avere avuto rapporti con la persona ritratta, potrebbe non scattare il reato specifico di revenge porn – ferma restando la possibile rilevanza penale di altre fattispecie (come la diffamazione o il trattamento illecito di dati personali) e l’obbligo di rimuovere il contenuto illecito.

• Contenuti condivisi in comunità chiuse e consenso limitato: un altro interrogativo era se pubblicare fuori contesto immagini già condivise volontariamente su piattaforme private configuri il reato. La risposta è arrivata di recente: anche la diffusione non autorizzata di materiale tratto da piattaforme a accesso limitato integra il reato di revenge porn. La Quinta Sezione Penale della Cassazione, con sentenza n. 30169/2025, ha affrontato un caso riguardante video espliciti pubblicati originariamente su OnlyFans (una piattaforma dove i creator condividono contenuti dietro pagamento, accessibili solo agli abbonati). Un utente aveva prelevato un video dalla pagina riservata di una creator e l’aveva inoltrato pubblicamente fuori dalla piattaforma. La Cassazione ha chiarito che il consenso espresso dall’interessato su OnlyFans è circoscritto agli utenti autorizzati (gli abbonati paganti) e non si estende alla diffusione verso terzi estranei. Di conseguenza, chi condivide quel contenuto al di fuori della piattaforma commette revenge porn ex art. 612-ter c.p., perché divulga un’immagine sessualmente esplicita senza autorizzazione e con evidente finalità lesiva. Questo principio vale per qualsiasi contesto simile: anche se una persona acconsente a scattare foto intime o a mostrarle in un gruppo chiuso, ciò non legittima affatto una divulgazione ulteriore non concordata. La tutela penale scatta tutte le volte che le immagini erano “destinate a rimanere private” nei limiti stabiliti dalla persona ritratta, limite che non può essere unilateralmente violato da chi diffonde il contenuto altrove.

• Revenge porn e atti persecutori: spesso la diffusione di immagini intime avviene in contesti di persecuzione o ricatto nei confronti della vittima, ad esempio nell’ambito di relazioni finite male segnate da gelosia o vendetta. Viene naturale chiedersi come si coordina il reato di revenge porn con altri eventuali reati come lo stalking (atti persecutori) o le minacce. Ebbene, la giurisprudenza ha chiarito che la diffusione illecita di immagini intime non assorbe né esclude altri reati, potendo concorrere con essi. In una pronuncia del 2024 (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 33230/2024), la Corte di Cassazione ha affermato che revenge porn e stalking possono coesistere: chi perseguita un ex partner con molestie, minacce o violenze psicologiche e, tra le varie condotte, diffonde anche foto o video intimi di quest’ultimo, risponde sia del reato di atti persecutori che di quello di diffusione illecita di immagini. Si tratta di fattispecie distinte, ciascuna con il proprio bene giuridico protetto (la libertà morale e la tranquillità della persona, nel caso dello stalking; la privacy e la reputazione nel caso del revenge porn). Non c’è assorbimento perché le condotte incriminate sono diverse e cagionano lesioni giuridiche differenti. Dunque, un comportamento di “ricatto sessuale” o vendetta trasversale che includa la pubblicazione di foto intime senza consenso avrà un trattamento sanzionatorio più grave, sommando le pene previste per ogni reato commesso. In generale, poi, anche minacciare di diffondere immagini private può configurare un illecito penale, ad esempio come estorsione o violenza privata, se accompagnato dalla richiesta di denaro o da pressioni per ottenere qualcosa in cambio del silenzio.

• Diritto all’oblio e rimozione dal web: un aspetto cruciale per le vittime è la possibilità di far sparire le immagini o i video dalla circolazione. Purtroppo, quando un contenuto finisce online diventa molto difficile cancellarlo del tutto, ma ci sono strumenti legali per limitarne la diffusione. Nell’ambito di un procedimento penale per revenge porn, il giudice può ordinare il sequestro e l’oscuramento dei contenuti illeciti, intimando ai gestori dei siti o social network di rimuoverli. Inoltre, la vittima può esercitare i propri diritti in sede civile e amministrativa (ad esempio rivolgendosi al Garante Privacy o invocando il diritto all’oblio sui motori di ricerca) per ottenere la deindicizzazione o cancellazione delle pagine web che riportano il materiale lesivo. Queste azioni complementari sono importanti per contenere il danno alla reputazione: come diceva Shakespeare, chi perde la reputazione perde un tesoro insostituibile«L’uomo che mi ruba la borsa ruba un bene da poco... ma chi mi sottrae la mia buona reputazione mi priva di qualcosa che non lo arricchisce e rende me povero davvero.» – e la legge riconosce il diritto della persona offesa di vedere ripristinata, per quanto possibile, la propria immagine pulita.

 

Cosa può fare la vittima: denuncia e tutela legale

Se qualcuno diffonde senza permesso vostre foto o video intimi, agire subito è fondamentale. La vittima di revenge porn deve in primo luogo presentare querela (denuncia) entro 6 mesi dal fatto (termine più lungo rispetto ai 3 mesi previsti per altri reati a querela, proprio per dare più tempo in questi casi delicati). Sporgere querela comporta l’avvio delle indagini penali: la Polizia Postale o i Carabinieri possono rintracciare il responsabile seguendo le tracce digitali, oscurare nel frattempo i contenuti e raccogliere le prove (screenshot, messaggi, dati dei profili da cui sono stati diffusi i materiali). Sul piano penale, il processo può portare alla condanna del colpevole alle pene detentive e pecuniarie già viste. Inoltre, il giudice penale può applicare misure accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici e, nei casi più gravi, restrizioni alla libertà vigilata.

Parallelamente, la persona offesa ha diritto di costituirsi parte civile nel processo penale oppure di avviare una causa civile separata per ottenere il risarcimento dei danni subìti. La diffusione di immagini intime, infatti, provoca quasi sempre un danno non patrimoniale notevole: sofferenza psicologica, vergogna sociale, ansia, depressione, lesione dell’immagine e della vita di relazione. I giudici riconoscono questi pregiudizi e possono liquidare una somma a titolo di danno morale ed esistenziale. Ad esempio, tribunali come quello di Ravenna (sent. n. 1085/2019) hanno già affrontato casi del genere, condannando l’autore della divulgazione illecita a pagare alla vittima una somma a compensazione della perdita di serenità e di reputazione causata dall’evento. Oltre a ciò, se dalla vicenda derivano anche conseguenze concrete (come perdita del lavoro, spese mediche per terapie psicologiche, trasferimenti forzati, ecc.), è possibile chiedere il danno patrimoniale, provando il nesso tra la diffusione delle immagini e le perdite economiche subite.

Va ricordato che, grazie all’aggravante introdotta dal legislatore, quando la vittima è una persona disabile o in gravidanza non è necessaria la querela: le forze dell’ordine possono procedere d’ufficio appena vengono a conoscenza del fatto, per evitare che la paura o le condizioni personali impediscano di denunciare. Anche al di fuori di questi casi, comunque, il consiglio è di vincere l’imbarazzo e denunciare sempre: la legge è dalla parte della vittima e offre strumenti concreti per punire il colpevole e provare a rimediare al torto.

 

Tutela della privacy e prevenzione

Una volta vissuta un’esperienza del genere, le vittime imparano a proprie spese quanto sia importante proteggere la propria privacy digitale. Senza colpevolizzare chi subisce (la legge e la morale chiariscono che la colpa è solo di chi diffonde senza consenso), è utile ricordare qualche precauzione generale: evitare di inviare immagini intime a persone di cui non ci si fida ciecamente, custodire con cura i propri dispositivi e account online (usando password robuste e doppia autenticazione, per scongiurare accessi non autorizzati), e segnalare subito alle piattaforme qualsiasi uso illecito di proprie foto. Oggi esistono anche strumenti tecnologici come il progetto StopNCII (acronimo per Stop Non-Consensual Intimate Images), che permette di prevenire la diffusione di immagini intime non autorizzate creando impronte digitali (hash) dei propri contenuti da far bloccare a siti e social in caso qualcuno provi a caricarli. Si tratta di un aiuto in più, ma non sostituisce la tutela giuridica: l’ordinamento italiano offre un ventaglio di rimedi legali sia repressivi (condanna penale del responsabile, oscuramento dei contenuti) sia compensativi (risarcimento economico del danno).

In definitiva, il messaggio è chiaro: diffondere foto o video sessuali privati altrui senza permesso è un reato grave. Lo è sempre stato nei fatti, ma oggi è riconosciuto espressamente dalla legge. Chi pensa di “punire” un ex partner umiliandolo sul web deve sapere di rischiare un processo penale e pene detentive pesanti, oltre all’obbligo di risarcire la vittima. Dal lato opposto, chi subisce questa forma subdola di violenza ha a disposizione strumenti efficaci per far valere i propri diritti e ottenere giustizia. La dignità e la privacy di una persona non possono essere calpestate impunemente: il legislatore, i tribunali e la società civile stanno finalmente lanciando un segnale forte per dire che il revenge porn non sarà tollerato.

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  • 02 ottobre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.