La legge riconosce un’altissima tutela alla privacy domestica. L’abitazione è protetta dall’art. 14 della Costituzione (inviolabilità del domicilio) e spiare in casa altrui costituisce reato. Recentemente, la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un marito che aveva installato di nascosto telecamere nella casa coniugale per registrare la moglie e i figli in sua assenza. La Suprema Corte ha confermato che un simile comportamento integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), punendo anche il coniuge che, pur avendo libero accesso all’abitazione, riprenda di nascosto gli altri familiari senza consenso (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 4840/2024). In sostanza, la convivenza non autorizza a violare la riservatezza altrui: ogni persona ha diritto a non essere filmata nelle proprie attività private domestiche, nemmeno da chi vive sotto lo stesso tetto. La Cassazione ha chiarito che l’atto di vita privata appartiene solo a chi lo compie e che chi installi microcamere in casa per spiare gli altri commette reato, anche se è presente nell’abitazione come convivente. Voluntas aegroti suprema lex – nel contesto domestico potremmo parafrasare: la volontà della persona filmata è legge suprema. Senza il suo consenso, non si può violare la sua intimità. Neppure la finalità di raccolta di prove giustifica questa intrusione: l’unica eccezione è quando chi filma partecipa direttamente all’atto di vita privata (ad esempio una registrazione consensuale di una conversazione propria), altrimenti la riservatezza degli altri conviventi prevale. In definitiva, all’interno delle mura domestiche la privacy è pressoché inviolabile: domus sua cuique tutissimum refugium – la casa di ciascuno è il proprio rifugio sicuro, e la tecnologia non può trasformarla in una casa degli specchi.
Molti condomini installano telecamere di sorveglianza per proteggere proprietà e sicurezza. Ma fin dove è lecito spingersi? La Cassazione è intervenuta a fissare paletti precisi: una telecamera privata non può inquadrare spazi condominiali comuni o proprietà altrui. Ad esempio, puntare una telecamera sul portone condominiale o sul pianerottolo dove passano altri residenti viola la privacy e può essere vietato. Cass. civ., Sez. II, ord. n. 10925/2024 ha stabilito che l’angolo di ripresa deve essere limitato esclusivamente all’area di proprietà di chi installa il dispositivo, senza invadere spazi altrui. Nel caso esaminato, un condomino aveva collocato una videocamera sul proprio balcone, ma l’occhio elettronico abbracciava anche l’ingresso dell’edificio: i vicini si sono rivolti al giudice ottenendo la rimozione dell’impianto. La Corte ha confermato la decisione: la tutela della riservatezza impone di non riprendere aree condominiali di passaggio comune (androne, scale) oltre alla soglia strettamente privata.
Va precisato che l’assenza di reato in simili circostanze non implica liceità civile: filmare un’area condominiale non costituisce interferenza illecita nella vita privata ai sensi dell’art. 615-bis c.p. (perché pianerottoli e scale non sono considerati “luoghi di privata dimora” in senso stretto), ma può comunque violare la normativa sulla protezione dei dati personali e i diritti dei vicini. Infatti, il GDPR (Regolamento UE 2016/679) e il Codice Privacy impongono che chi effettua riprese in cui possono comparire altre persone adotti precise cautele: informativa tramite cartelli visibili (“Area videosorvegliata”), limitazione delle riprese allo scopo legittimo di sicurezza, conservazione delle immagini per tempi brevi e soprattutto niente diffusione indebita. Inoltre, il codice civile (art. 1122-ter c.c.) richiede l’autorizzazione dell’assemblea condominiale (con quorum specifici) se l’installazione della telecamera incide su parti comuni. Dunque, un singolo condomino può installare liberamente una telecamera solo se questa: 1) riprende esclusivamente la sua proprietà (es. la propria porta di ingresso o posto auto, senza angoli “invasivi”); 2) non altera o danneggia parti comuni; 3) non lede la privacy altrui.
In caso contrario, l’amministratore o i condomini interessati possono chiedere la rimozione della telecamera e, se necessario, agire legalmente. I giudici italiani, talvolta, valutano il bilanciamento tra sicurezza e privacy caso per caso: ad esempio, una sentenza del Tribunale di Prato ha ritenuto lecita una telecamera sul pianerottolo se orientata in modo da non violare la vita privata (nessuna ripresa diretta dell’interno delle abitazioni) e installata per far fronte a concrete minacce alla sicurezza, con opportune cautele (cartelli, segnalazione all’amministratore). In ogni caso, la regola generale rimane che la sfera privata e la tranquillità dei vicini prevalgono: se la telecamera “spia” anche dove non dovrebbe, va rimossa. Quis custodiet ipsos custodes? Chi sorveglia i sorveglianti? Nella realtà condominiale, sono le leggi e i giudici a fare da guardiani: garantiscono che la ricerca di sicurezza non si trasformi in uno strumento di controllo illecito della vita altrui.
Un altro campo delicato è quello dei controlli sui lavoratori attraverso telecamere o altri dispositivi. In Italia lo Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970) vieta, all’art. 4, l’uso di impianti audiovisivi per controllare a distanza l’attività dei dipendenti, salvo accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro per specifiche esigenze organizzative, produttive o di sicurezza. Tuttavia, la giurisprudenza da tempo ammette i cosiddetti “controlli difensivi”: verifiche mirate a proteggere il patrimonio aziendale o prevenire illeciti, posti in essere quando vi siano fondati sospetti su comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Su questo fronte, le ultime sentenze del 2025 confermano e precisano i limiti di tali controlli.
In particolare, la Cassazione penale ha affrontato il caso di ammanchi di cassa in una farmacia, dove il titolare – insospettito da ripetuti furti – aveva installato, all’insaputa dei dipendenti, alcune telecamere occulte puntate sul registratore. La Corte di Cassazione ha ritenuto legittima questa forma di sorveglianza nascosta, in quanto finalizzata a scoprire un reato e non a monitorare indiscriminatamente l’attività lavorativa quotidiana. Con la sentenza n. 28613 del 5 agosto 2025 (Cass. pen., Sez. V), gli Ermellini hanno stabilito che l’installazione di telecamere non segnalate sul luogo di lavoro può essere lecita se serve a verificare sospetti concreti di comportamenti illeciti (come furti) da parte di un dipendente specifico. Si tratta di un controllo “difensivo” straordinario, ammesso solo in presenza di ragioni eccezionali e proporzionato allo scopo di tutela dell’azienda. Nel caso concreto, il video ottenuto di nascosto che mostrava la dipendente mentre sottraeva denaro è stato considerato prova lecita: la dipendente è stata condannata per furto aggravato, e la Cassazione ha confermato che non vi era violazione della privacy né dello Statuto, perché il controllo era mirato e giustificato dalla necessità di proteggere il patrimonio aziendale di fronte a un fondato sospetto di reato.
Questa pronuncia segue il solco tracciato dalla giurisprudenza europea (si ricordi una nota sentenza della Corte EDU sul caso López Ribalda c. Spagna) e italiana, che già da qualche anno ammette i controlli occulti anti-furto o anti-sabotaggio se rispettano alcuni criteri: durata limitata, scopo difensivo specifico, ultima risorsa dopo altri metodi, e coinvolgimento solo delle persone sotto indagine. Attenzione: ciò non significa via libera a spiare i dipendenti in qualsiasi momento. “La giustizia ritardata è giustizia negata”, ammoniva Montesquieu, ma qui possiamo dire: la privacy violata senza motivo è giustizia negata. Se un datore di lavoro utilizzasse telecamere nascoste per un controllo generico o preventivo, oppure senza reali sospetti, violerebbe la legge. Anche in caso di investigazioni lecite, restano fermi gli obblighi di tutela dei dati: le immagini raccolte possono essere utilizzate solo per il procedimento disciplinare o penale necessario, vanno custodite con misure di sicurezza, e non possono essere divulgate. Inoltre, parallelamente alla via penale, l’utilizzo indebito di dati del dipendente può esporre l’azienda a sanzioni del Garante Privacy.
Da notare che la Cassazione tutela fortemente anche la corrispondenza personale dei lavoratori: con un’altra recente decisione (Cass. civ., Sez. lavoro, sent. n. 24204/2025), è stato dichiarato illegittimo il comportamento di un’azienda che aveva monitorato e conservato dopo il licenziamento le email private di un ex dipendente, nel tentativo di trovare elementi di infedeltà. I giudici hanno ribadito che i messaggi di posta elettronica – anche se transitano su server aziendali – rientrano nella sfera di corrispondenza riservata tutelata dall’art. 15 della Costituzione e dalle norme privacy: il datore non può aprire o conservare comunicazioni private dei propri dipendenti (o ex) senza violare la legge. Questo principio si allinea con quello affermato in ambito penale dalla Cassazione in tema di messaggistica: la sentenza n. 5334/2025 ha assimilato i messaggi WhatsApp a vere e proprie lettere chiuse, protette dal segreto.
Summum ius, summa iniuria? La legge – lo Statuto dei Lavoratori, il Codice Privacy, il codice penale – disegna un equilibrio sottile: applicare in modo rigido le regole senza eccezioni potrebbe sembrare eccessivo (il “sommo diritto” che diventa “somma ingiustizia”), ma le eccezioni sono tollerate solo se strettamente necessarie. Fuori da questi casi, la privacy del lavoratore resta un baluardo: non è consentita una sorveglianza massiva, costante o indiscriminata. Ogni controllo deve essere proporzionato, temporaneo e motivato.
Dalle mura di casa al pianerottolo, fino all’ufficio, la tutela della privacy resta un principio fondamentale su cui i giudici italiani stanno vigilando con attenzione. Le recenti pronunce del 2024–2025 mostrano che la tecnologia di sorveglianza può essere uno strumento utile e legittimo solo entro confini ben precisi: fuori da questi, diventa un abuso sanzionabile. “Chi è pronto a rinunciare alla libertà fondamentale per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né libertà né sicurezza.” Questa massima attribuita a Benjamin Franklin ben riassume la filosofia che anima le decisioni giudiziarie in materia: il diritto alla riservatezza non va sacrificato sull’altare della sicurezza se non nei casi di stretta necessità e in modo controllato. Ogni cittadino ha il diritto di sentirsi al sicuro senza essere osservato 24 ore su 24: la sfida del diritto contemporaneo è garantire protezione e ordine senza trasformare la società in un panopticon, dove tutti controllano tutti.
In conclusione, se stai pensando di installare una telecamera o ritieni di essere vittima di sorveglianza illecita, è consigliabile valutare attentamente la situazione con l’aiuto di un legale. Le normative e le sentenze in materia di privacy e videosorveglianza sono complesse e in continua evoluzione: un inquadramento corretto del caso concreto è fondamentale per agire nel giusto.
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Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.