Una recente pronuncia della Corte di Cassazione segna una svolta nel diritto di famiglia italiano: per la prima volta viene riconosciuta la legittimità di un accordo prematrimoniale sulle conseguenze economiche della separazione. Si tratta di un cambiamento epocale, seppur cauto, in un panorama finora ostile a tali patti. Di seguito analizziamo cosa è successo, cosa davvero cambia/può cambiare dopo questa decisione e quali limiti restano per i futuri sposi (anche a Verona e in tutta Italia) interessati a stipulare accordi prima del matrimonio in ottica di prevenire conflitti futuri.
Per lungo tempo l’ordinamento italiano ha considerato vietati i cosiddetti patti prematrimoniali, ossia gli accordi con cui i futuri coniugi cercano di predeterminare effetti economici di un’eventuale crisi coniugale. L’ostilità legislativa e giurisprudenziale verso tali intese si fondava sul principio codificato dall’art. 160 del Codice civile, secondo cui “gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”. In altre parole, si riteneva che gli effetti patrimoniali del matrimonio e di una sua possibile cessazione fossero inderogabili e non potessero essere oggetto di contratti prima che il matrimonio stesso entrasse in crisi.
Come risultato, qualsiasi accordo che prevedesse obblighi condizionati alla separazione o al divorzio veniva tradizionalmente giudicato nullo ab origine per causa illecita o contrarietà all’ordine pubblico familiare. Emblematico è un caso affrontato dalla Cassazione nel 2022, in cui due coniugi avevano sottoscritto prima delle nozze una scrittura privata con la quale si impegnavano al pagamento di 500.000 euro da un coniuge all’altro in caso di futura separazione: i giudici supremi ribadirono che un simile patto matrimoniale non era meritevole di tutela e andava dichiarato nullo, sia che lo si qualifichi come accordo sul matrimonio (contrario alla legge), sia come donazione sotto condizione sospensiva della separazione, sia perfino come semplice ricognizione di debito (in ogni caso privo di causa lecita). In sostanza, si affermava che la causa stessa di simili accordi – l’ipotetico fallimento del matrimonio – li rendeva giuridicamente inaccettabili.
Per decenni, dunque, la posizione della giurisprudenza italiana è stata paragonabile alla famosa ingiunzione manzoniana «questo matrimonio non s'ha da fare» – applicata però ai patti prematrimoniali. Ogni tentativo di stipulare accordi del genere veniva stroncato in radice, in nome dell’inderogabilità dei diritti coniugali e del timore che tali accordi potessero incentivare le separazioni o violare il ordine pubblico familiare. Il principio generale del diritto civile pacta sunt servanda (i patti devono essere rispettati) restava così, in ambito matrimoniale, subordinato ad esigenze superiori di tutela dei legami familiari e dei doveri sanciti dalla legge.
Negli ultimi anni, complice un cambio di sensibilità culturale e alcune riforme in tema di procedure familiari (si pensi alla negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio), si è iniziato a mettere in discussione l’assolutezza di quel divieto. Isolati precedenti giurisprudenziali avevano già lasciato intravedere qualche spiraglio. Ad esempio, con la sentenza n. 23713/2012 la Corte di Cassazione aveva per la prima volta giudicato valido un accordo prematrimoniale atipico, purché volto a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c.. In quel caso la futura moglie aveva promesso di trasferire un immobile di sua proprietà al futuro marito, nell’eventualità di un fallimento del matrimonio, come indennizzo per le spese sostenute da quest’ultimo nella ristrutturazione della casa coniugale; in corrispettivo, l’uomo si era impegnato a versarle 20 milioni di lire. La Cassazione ritenne lecito tale contratto atipico, ravvisando la presenza di una causa negoziale concreta (il riequilibrio delle rispettive contribuzioni economiche) e di interessi degni di tutela, anziché una mera “mercificazione” del vincolo matrimoniale. In quell’occasione la Corte argomentò che, durante il matrimonio, fra coniugi può instaurarsi una sorta di solidarietà patrimoniale implicita – uno “stato di quiescenza” dei rapporti di dare-avere – che può legittimamente essere disciplinata e risolta consensualmente nel momento in cui la comunione spirituale e materiale viene meno.
Nonostante ciò, quell’apertura del 2012 rimase a lungo isolata e contrastata da decisioni contrarie (come visto, ancora nel 2022 la Cassazione ribadiva la nullità dei patti prematrimoniali puri). Parallelamente, però, si andava consolidando un orientamento favorevole a riconoscere maggiore autonomia privata ai coniugi nella fase di separazione o divorzio. Un passaggio significativo è stata la sentenza n. 18843/2024 della Cassazione, che ha sancito la validità ed efficacia degli accordi negoziali tra coniugi presi in sede di separazione o divorzio, anche senza omologazione del giudice, purché non contrari a norme imperative o all’ordine pubblico. Tale pronuncia – riguardante un accordo sull’assegno di divorzio definito in via privata – ha segnato “un cambio di paradigma”, riconoscendo che un accordo sulle condizioni economiche della separazione può avere immediata efficacia vincolante fra le parti, senza attendere il vaglio formale del tribunale. Si tratta di una svolta importante perché enfatizza l’idea che i coniugi, meglio di un giudice, possano trovare soluzioni personalizzate e pacifiche alla crisi coniugale, nel rispetto dei limiti di legge (diritti inderogabili, tutela dei figli, ecc.). Questo clima di maggiore apertura verso l’autonomia negoziale ha probabilmente preparato il terreno alla novità del 2025 in materia di patti pre-matrimoniali.
Con l’ordinanza 21 luglio 2025, n. 20415 la Corte di Cassazione ha compiuto un passo ulteriore, estendendo il riconoscimento dell’autonomia contrattuale dei coniugi a monte, cioè prima che la crisi coniugale si verifichi. Il caso concreto esaminato riguardava un accordo firmato da marito e moglie qualche anno prima della separazione, in cui il marito si obbligava a corrispondere alla moglie una determinata somma (pari a 150.000 euro) nell’eventualità di una futura separazione. Tale patto era motivato dal fatto che la moglie aveva contribuito economicamente in maniera rilevante alla ristrutturazione della casa familiare e ad altre spese comuni durante il matrimonio; attraverso l’accordo, i coniugi intendevano assicurare che, in caso di rottura dell’unione, la moglie ottenesse un riequilibrio patrimoniale per quanto investito. In cambio, par di capire che la moglie avrebbe rinunciato ad alcuni beni o diritti (nell’accordo si menzionava la rinuncia ad alcuni beni mobili, come un’imbarcazione e parte dell’arredamento, a fronte della promessa di rimborso).
Finora, un patto siffatto sarebbe stato giudicato nullo – come visto – perché volto a regolare “anzitempo” gli effetti economici della separazione. Stavolta invece la Cassazione ha ritenuto valido l’accordo, inaugurando di fatto la stagione dei (timidi) patti prematrimoniali leciti anche in Italia. I giudici supremi hanno qualificato l’intesa come contratto atipico con condizione sospensiva lecita, ossia un accordo non previsto espressamente dal codice ma certamente lecito nella sua struttura: la condizione apposta (l’evento futuro e incerto della separazione/divorzio) non è stata considerata contraria alla legge. In altri termini, la separazione non è vista come la causa scatenante di un negozio illecito, bensì semplicemente come un evento che, al pari di altri fatti futuri, può essere legittimamente preso in considerazione dalle parti quale condizione per far scattare determinate obbligazioni. Ciò che conta è che la causa concreta dell’accordo sia lecita e meritevole di tutela: nel caso di specie, la finalità era riconoscere e restituire alla moglie il contributo economico dato alla famiglia (nello specifico alla casa comune) durante il matrimonio, finalità giudicata del tutto legittima.
La Cassazione sottolinea infatti un aspetto cruciale: il fallimento del matrimonio non deve costituire la “causa genetica” del patto, ma solo il fattore condizionale esterno. Tradotto: non siamo di fronte a un mercanteggiamento sul matrimonio (“se mi lascerai ti pago una penale / ti premio con un bonus”), bensì a un accordo serio in cui i coniugi regolano ex ante alcune pendenze patrimoniali, qualora il rapporto finisca. In questa prospettiva, l’intesa non contrasta con i doveri coniugali (che restano inalterati fino all’eventuale separazione) né con l’ordine pubblico, ma anzi realizza principi di equità e di rispetto della parola data fra le parti. Come ha chiarito la Suprema Corte, patti di questo tipo diventano legittimi e efficaci a condizione che gli obblighi previsti siano proporzionati e non ledano diritti indisponibili delle parti. Il principio generale è quindi ribaltato: non più un patto necessariamente nullo in radice, ma un esercizio dell’autonomia privata che l’ordinamento può riconoscere e tutelare, purché rimanga entro paletti ben definiti.
Nell’ordinanza del 2025 la Corte ha anche esplicitato che l’accordo in questione non equivaleva affatto a una rinuncia preventiva all’assegno di mantenimento o divorzile. Questo punto è importante: uno dei timori verso i patti prematrimoniali è che servano ad aggirare il futuro diritto dell’ex coniuge economicamente più debole a ottenere un assegno di mantenimento o divorzile. Nel caso concreto, però, la somma pattuita (150 mila euro) era collegata alle spese sostenute dalla moglie e doveva fungere da rimborso/riequilibrio di quelle uscite, non da surrogato di un assegno alimentare. Tant’è vero che, al momento della separazione, la moglie ha potuto richiedere (e ottenere) sia l’applicazione del patto sia il normale assegno di mantenimento, senza che l’uno escludesse l’altro – in quanto si tratta di titoli diversi. In altri termini, l’accordo prematrimoniale non sostituiva né eliminava gli obblighi di mantenimento eventualmente dovuti per legge, ma aggiungeva un ulteriore obbligo contrattuale liberamente assunto dal marito a tutela del contributo dato dalla moglie alla vita familiare. Proprio questa natura aggiuntiva e integrativa, e non elusiva, delle disposizioni di legge ha convinto la Cassazione a dare luce verde al patto.
Va evidenziato che l’ordinanza 20415/2025 si inserisce nel solco di una valorizzazione dell’autonomia privata nel diritto di famiglia, ma senza scardinarne i principi di fondo. La Corte stessa definisce “atipico” il contratto prematrimoniale in oggetto, quasi a rimarcare che siamo di fronte a un precedente rilevante ma isolato, che ancora non costituisce un corpus organico di regole. Non a caso la stessa Repubblica ha definito questo riconoscimento un “timido sì” e ha sottolineato come sia auspicabile un intervento normativo del legislatore per disciplinare compiutamente la materia. Vediamo dunque quali sono, ad oggi, i limiti e le condizioni di validità di tali accordi, e cosa ancora non è permesso stabilire “prima dell’altare”.
L’apertura della Cassazione, per quanto importante, è tutt’altro che un “liberi tutti”. Permangono precisi limiti legali circa il contenuto e la portata dei patti prematrimoniali ammessi. In sintesi:
Nessuna deroga ai doveri inderogabili: gli accordi non possono incidere sui diritti-doveri fondamentali dei coniugi stabiliti dalla legge (fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale durante il matrimonio, ecc.) né possono prevedere clausole che violino norme imperative. Ad esempio, non sarebbe valida una pattuizione che escluda a priori il dovere di assistenza reciproca finché dura il matrimonio, oppure che imponga condizioni lesive della dignità di uno dei coniugi: tali previsioni sarebbero contrarie all’ordine pubblico e dunque nulle.
Tutela dei figli minori o non autosufficienti: resta assolutamente vietato accordarsi preventivamente su questioni riguardanti gli eventuali figli della coppia. La responsabilità genitoriale, l’affidamento, il mantenimento e in generale i diritti dei figli non possono formare oggetto di contratti prematrimoniali. Qualsiasi clausola del genere sarebbe nulla, poiché l’interesse superiore del minore è sempre rimesso al controllo del giudice e non disponibile alle parti. Ad esempio, sarebbe nullo un accordo in cui i futuri coniugi stabiliscano sin d’ora l’affidamento esclusivo in caso di separazione, oppure la rinuncia di un genitore all’assegno di mantenimento per i figli: tali decisioni non si possono “blindare” in anticipo, ma vanno prese al momento opportuno valutando il bene dei figli sotto supervisione giudiziaria.
Proporzionalità ed equità degli obblighi: il contenuto economico dei patti deve essere equo e bilanciato. La Cassazione parla espressamente di obbligazioni “proporzionate” e non lesive di diritti indisponibili. Ciò significa che un accordo troppo sbilanciato a favore di un coniuge, o che imponga un sacrificio economico eccessivo all’altro, potrebbe non superare il vaglio di meritevolezza. Ad esempio, desterebbe perplessità un patto in cui un coniuge s’impegna a versare una somma sproporzionata senza alcuna giustificazione causale, magari solo come “penale” per aver chiesto il divorzio: una clausola del genere rischierebbe di essere letta come coercitiva o punitiva, e quindi nulla perché contraria all’ordine pubblico (oltre che potenzialmente alla libertà matrimoniale). Diverso è, invece, il caso di un accordo commutativo e ragionevole, come quello del 2025: lì la somma era correlata a specifiche contribuzioni economiche fatte durante il matrimonio, dunque con un preciso motivo e una logica di riequilibrio tra le parti.
Niente patti sulla misura degli assegni di mantenimento/divorzio: un aspetto non ancora autorizzato (e sul quale la pronuncia 20415/2025 è stata prudente) riguarda l’eventuale predeterminazione dell’assegno di mantenimento o divorzile. Nel caso deciso, come detto, l’accordo non fissava affatto in anticipo l’ammontare dell’assegno per il coniuge, né vi rinunciava: si limitava ad un diverso obbligo patrimoniale di rimborso. La Cassazione non si è espressa su cosa accadrebbe se i coniugi, in un patto prematrimoniale, stabilissero sin d’ora “quanto” dovrà percepire un coniuge dall’altro a titolo di mantenimento in caso di separazione, oppure dichiarassero la rinuncia totale a qualsiasi assegno. È probabile che, allo stato attuale, una clausola così specifica sarebbe vista con sfavore – se non altro perché l’effettiva situazione economica e il tenore di vita dei coniugi al momento della separazione non sono prevedibili con esattezza anni prima. La condizione economica delle parti e la valutazione equa dell’assegno restano per legge rimesse al giudice al momento della separazione/divorzio; quindi impegnarsi ora su un importo fisso potrebbe confliggere con norme imperative (ad esempio quelle sull’assegno divorzile, rivisitate anche dalle Sezioni Unite nel 2018). Finché il legislatore non chiarirà questo punto, è prudente ritenere che non si possa “congelare” contrattualmente l’assegno di mantenimento futuro. Ogni patto prematrimoniale dovrà quindi affiancarsi – e non sostituirsi – alle determinazioni che il giudice (o gli accordi omologati) prenderanno sul mantenimento, tenendo conto della situazione effettiva a fine matrimonio.
In definitiva, oggi si possono concordare anticipatamente tra futuri sposi solo gli aspetti patrimoniali strettamente relativi a loro due, che non tocchino diritti di terzi (figli) né obblighi inderogabili. Rientrano in questo ambito, ad esempio: la divisione di beni acquistati insieme (stabilendo chi cosa terrà in caso di rottura), la restituzione di somme investite da uno a vantaggio dell’altro o della famiglia, la rinuncia a rivendicare proprietà su certi beni in cambio di un corrispettivo, la scelta del regime patrimoniale (comunione o separazione dei beni) e altre simili pattuizioni patrimoniali. Rimangono invece off-limits patti “personali” (es. impegni sulla futura vita privata o sull’educazione dei figli) e patti puramente economici ma privi di una causa concreta lecita. Ogni accordo prematrimoniale, insomma, deve essere concepito come uno strumento di pianificazione patrimoniale e di prevenzione dei conflitti, non come un modo per comprare o vendere la libertà matrimoniale.
La pronuncia della Cassazione del 2025, per quanto di portata storica, non basta da sola a colmare il vuoto normativo. Ad oggi, infatti, manca una disciplina legislativa organica dei patti prematrimoniali in Italia. Ci si chiede dunque se il Parlamento interverrà per dare regole chiare a questi accordi, come avvenuto in molti altri Paesi. In passato vi sono stati tentativi di riforma: ad esempio, una proposta di legge presentata nel 2018 (PdL Camera n. 244/2018) mirava ad introdurre nel codice civile un nuovo art. 162-bis dedicato alle convenzioni matrimoniali, legittimando esplicitamente i patti prematrimoniali sulle conseguenze economiche della separazione. Analoghi disegni di legge erano stati discussi già nel 2014 e 2015, e ancora nel 2019 (tanto che un commentatore giuridico parlò ironicamente di “Aspettando Godot” per sottolineare l’attesa infinita di questa riforma). Tuttavia, nessuno di questi progetti è mai giunto in porto.
La recente apertura giurisprudenziale potrebbe però fare da stimolo al legislatore. Vi è, infatti, una sempre maggiore consapevolezza che i patti prematrimoniali – se ben regolati – non sono necessariamente un vulnus all’istituto della famiglia, ma possono anzi rappresentare un strumento di tutela reciproca e di trasparenza tra coniugi. Molte coppie, soprattutto quando ci sono patrimoni significativi o situazioni complesse (si pensi a seconde nozze, aziende di famiglia, figli avuti da precedenti unioni, ecc.), sentono l’esigenza di organizzare per iscritto alcuni scenari futuri, per evitare guerre legali in caso di rottura del matrimonio. In assenza di una legge, finora queste esigenze venivano soddisfatte ricorrendo a strumenti alternativi (trust, polizze vita, donazioni, intese informali difficilmente inquadrabili). Una riforma sui patti prematrimoniali consentirebbe di portare alla luce queste pratiche, dando loro un alveo di legalità e certezza, pur con le dovute cautele (ad esempio prevedendo forma notarile obbligatoria, controlli di equità, possibilità di modifica nel tempo, etc.).
D’altro canto, c’è chi teme che legalizzare troppo i patti prematrimoniali possa sbilanciare i rapporti di forza tra coniugi e “contrattualizzare” eccessivamente il matrimonio. Per questo è verosimile che il legislatore – se e quando interverrà – lo farà in modo prudente, dettando limiti stringenti e magari prevedendo che tali accordi diventino efficaci solo al momento dell’omologa della separazione (ipotesi già ventilata in alcune proposte di legge). Per ora, comunque, l’invito della Cassazione è chiaro: servirebbe un intervento normativo, perché la pronuncia del 2025 è solo un “piccolo passo” in avanti. Fino a quando non arriverà una legge, resterà sempre un margine di incertezza: ogni patto prematrimoniale potrà essere oggetto di contestazione in giudizio, rimesso alla sensibilità del singolo tribunale.
In conclusione, il “sì” della Cassazione ai patti prematrimoniali nel 2025 rappresenta un importante segnale di evoluzione del diritto di famiglia in Italia. Si riconosce, sia pure in maniera circoscritta, che due coniugi consapevoli e informati possono autoregolamentare alcuni aspetti economici del proprio matrimonio, esercitando la loro autonomia negoziale per prevenire ingiustizie e contenziosi futuri. Per le coppie – a Verona come altrove – ciò significa che oggi è possibile, ad esempio, stipulare un accordo per farsi restituire investimenti fatti sulla casa comune, o per spartirsi beni e risorse, con la serenità che tale intesa potrebbe essere dichiarata valida in sede giudiziale. In passato un simile accordo sarebbe stato automaticamente nullo; oggi invece pacta sunt servanda, purché i patti rispettino la legge e certi limiti invalicabili.
Tuttavia, va ribadito che siamo solo agli inizi: la giurisprudenza favorevole è ancora esigua e ogni caso fa storia a sé. Un accordo prematrimoniale, per quanto animato da buone intenzioni, se mal redatto o eccessivo rischia di non reggere al vaglio di legalità. Inoltre, l’assenza di una cornice legislativa univoca comporta che la validità di questi patti resti contestabile e affidata al prudente apprezzamento dei giudici, finché non interverrà una legge chiarificatrice. Per questo motivo, chi intende esplorare lo strumento del patto prematrimoniale deve farlo con estrema cautela e con l’ausilio di professionisti qualificati. Meglio un cattivo accordo che una buona causa, recita un vecchio adagio forense: ma il “buon accordo” va costruito con perizia.
In altre parole, è fondamentale rivolgersi a un avvocato esperto in diritto di famiglia prima di predisporre qualsiasi accordo prematrimoniale. Lo specialista saprà consigliare se e come inserire determinate clausole, verificando che siano chiare, equilibrate e conformi a legge, e potrà redigere l’atto nella forma più adatta perché un domani possa essere considerato valido. Solo con un’adeguata assistenza si può sperare che un patto prematrimoniale svolga la sua funzione positiva – tutelare entrambi i coniugi e prevenire liti – senza trasformarsi in un boomerang giuridico. Del resto, come scriveva Alessandro Manzoni: “Del senno di poi ne son piene le fosse”. Fare prevenzione legale prima, con i giusti accorgimenti, è preferibile che pentirsi dopo di non averlo fatto.
Fonti e riferimenti:
Corte di Cassazione, Sez. I Civile, ord. 21 luglio 2025 n. 20415
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.