
La massima latina primum non nocere (innanzitutto non nuocere) ci ricorda che il primo dovere del medico è non arrecare danno. Quando questo dovere viene violato – ad esempio a causa di negligenza, imprudenza o imperizia del sanitario – scatta la responsabilità medica (civile e talvolta penale) e sorge il diritto del paziente ad essere risarcito per i danni subìti. In ambito civile la responsabilità per malasanità di solito ha natura contrattuale: il rapporto che si instaura tra paziente e struttura (o medico) è inquadrato come un contratto di cura e prestazione d’opera professionale. Ciò comporta che, una volta provato dal paziente il danno e un ragionevole nesso causale con l’operato dei sanitari, spetta al medico o all’ospedale dimostrare di avere agito con la dovuta diligenza e che l’evento negativo non è dipeso da loro (art. 1218 c.c.). In ogni caso, per accertare il nesso causale in sede civile vige il criterio del “più probabile che non”: il paziente deve provare che, con un grado di probabilità prevalente, l’errore medico ha causato il danno. Non si richiede la certezza assoluta, ma una ragionevole probabilità basata sulle evidenze scientifiche disponibili. Questa regola è stata ribadita anche di recente dalla Cassazione (ad es. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 25805/2024), confermando che in materia di responsabilità sanitaria la prova del nesso di causa è raggiunta quando l’errore del medico appare la spiegazione più verosimile del peggioramento delle condizioni del paziente. Il medico e la struttura, dal canto loro, per andare esenti da responsabilità devono dimostrare o di aver rispettato tutti i protocolli e le buone pratiche (adempiendo esattamente la prestazione dovuta) o che il danno si sarebbe comunque verificato per cause indipendenti dal proprio operato.
Va ricordato che la Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) ha introdotto importanti principi in materia di sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, mantenendo l’impianto generale appena descritto. Inoltre, la legge ha previsto l’elaborazione di tabelle nazionali per il risarcimento del danno biologico, al fine di uniformare gli importi dovuti alle vittime su tutto il territorio nazionale. Proprio su questo punto, dopo anni di attesa, si è giunti di recente a una svolta normativa significativa.
Una delle principali novità in materia di risarcimento dei danni da malasanità è di natura normativa. Dal 5 marzo 2025 è infatti in vigore in Italia la Tabella Unica Nazionale per la liquidazione del danno biologico per lesioni di non lieve entità (cioè con postumi permanenti superiori al 9% di invalidità). Tale Tabella Unica, introdotta dal D.P.R. 13 gennaio 2025 n. 12, rappresenta un passo decisivo verso l’uniformità e la certezza del diritto nella valutazione dei danni alla persona. In passato, in assenza di una tabella nazionale per le macrolesioni, i diversi tribunali utilizzavano criteri risarcitori propri (spesso ci si riferiva alle Tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, ritenute tra le più autorevoli, oppure a quelle di Roma). Ciò comportava disparità di trattamento: a parità di danno alla salute, l’importo riconosciuto poteva variare a seconda del foro competente. Ora questa disomogeneità dovrebbe essere eliminata.
La nuova Tabella Unica Nazionale – prevista in attuazione della riforma Gelli – fornisce valori standard per quantificare il danno biologico permanente sopra il 9%, applicabili su tutto il territorio nazionale e anche ai casi di responsabilità medica. Questo significa che, ad esempio, un grave danno derivante da un errore chirurgico verrà valutato economicamente secondo gli stessi parametri sia che la causa si svolga a Milano, sia che si svolga a Palermo. L’obiettivo è garantire ai pazienti danneggiati criteri di risarcimento più prevedibili ed equi, e allo stesso tempo permettere alle strutture sanitarie e alle compagnie assicurative di gestire meglio il rischio, sapendo in anticipo quali sarebbero grossomodo i risarcimenti dovuti in caso di soccombenza. In altre parole, si aumenta la certezza del diritto: casi simili dovrebbero ricevere risposte economiche simili. La riforma è stata accolta positivamente, perché tende a ridurre il fenomeno del “forum shopping” (cioè la corsa a incardinare le cause nei tribunali ritenuti più generosi) e a velocizzare le definizioni delle controversie, essendoci meno margine per le contestazioni sull’entità del risarcimento. Va notato che la Tabella Unica riguarda il danno biologico in senso stretto (lesione all’integrità psicofisica), mentre restano risarcibili a parte il danno morale e gli altri eventuali danni non patrimoniali conseguenti, secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza. In ogni caso, l’introduzione di valori unificati rappresenta una tutela importante per il paziente, che potrà contare su risarcimenti calcolati in modo più uniforme e trasparente rispetto al passato.
Un tema molto dibattuto nelle cause di malasanità è quello delle cosiddette complicanze. Spesso la difesa del medico sostiene che il risultato negativo rientra tra le complicanze possibili di un certo intervento o trattamento, insinuando quindi che non vi sia stata vera negligenza. Ma fino a che punto la tesi della “complicanza inevitabile” può esimere il sanitario da responsabilità? Su questo punto è intervenuta in modo illuminante la Corte di Cassazione, affermando un principio netto a tutela dei pazienti.
Con l’ordinanza n. 9198/2024 (Cass. civ., Sez. III), la Suprema Corte ha stabilito che in sede civile il semplice fatto che un evento avverso fosse catalogabile come “complicanza” nota non basta, di per sé, a liberare il medico da colpa. Ciò che conta giuridicamente è verificare se il danno era evitabile oppure no con l’adeguata diligenza professionale. Se il peggioramento delle condizioni del paziente era un evento prevedibile ed evitabile, allora la circostanza che rientrasse tra le possibili complicanze non lo rende scusabile: in tal caso il medico risponde dell’errore, perché avrebbe dovuto evitare quella complicanza adottando le cautele o i rimedi del caso. Viceversa, se l’evento era realmente imprevedibile o non evitabile neanche con la massima prudenza (ossia una conseguenza avversa eccezionale che si sarebbe verificata comunque), allora può parlarsi di causa non imputabile al sanitario. In altre parole, la Cassazione smantella l’uso generico del termine “complicanza” come scudo difensivo: dal punto di vista legale, un evento rientrante nelle statistiche mediche ma potenzialmente evitabile va trattato come errore e non come fatalità. Questa precisazione è molto importante per i pazienti, perché impedisce che vengano negati risarcimenti invocando la mera esistenza di un rischio noto: occorre sempre valutare in concreto se quella specifica complicanza poteva essere prevenuta o gestita diversamente. Se sì, il medico ne risponde a titolo di colpa. Tale orientamento, oltre a tutelare il paziente, sprona i professionisti sanitari a un’attenta personalizzazione delle cure: non basta seguire linee guida o prassi standard, ma bisogna anche verificare che esse siano adeguate al caso concreto. Del resto, attenersi a protocolli validi non esonera dall’obbligo di valutare situazioni particolari: una condotta può risultare colposa anche se formalmente conforme a linee guida, qualora queste ultime – per come applicate – non fossero appropriate per quel paziente. La giurisprudenza più recente conferma dunque un principio di buon senso clinico e giuridico: la sicurezza del paziente viene prima delle statistiche, e ogni esito negativo evitabile rappresenta una violazione della lex artis meritevole di sanzione.
Un altro aspetto cruciale nelle cause per errore medico riguarda la cartella clinica e la documentazione sanitaria. Capita non di rado che le cartelle cliniche risultino lacunose, inesatte o parziali: dati mancanti, omissioni nelle annotazioni, esami non registrati. Queste mancanze possono creare difficoltà nel ricostruire a posteriori l’accaduto e nell’accertare il nesso di causa tra la condotta del medico e il danno. A chi devono essere addebitate le incertezze probatorie derivanti da una cartella clinica incompleta? Alla struttura sanitaria oppure al paziente che agisce per il risarcimento? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11224/2024, ha fornito un importante chiarimento a favore dei pazienti.
Secondo la Cassazione, l’incompletezza della cartella clinica è una circostanza di fatto che può essere valorizzata dal giudice a favore del paziente nell’ambito della verifica del nesso causale. In particolare, se proprio a causa delle omissioni o carenze nei dati clinici risulta impossibile accertare con certezza scientifica il collegamento tra l’operato del medico e il danno, il giudice può presumere tale nesso causale come esistente quando: (a) la condotta del sanitario omessa o non documentata era in astratto idonea a provocare il tipo di lesione verificatasi; e (b) l’assenza di informazioni è imputabile al medico/ospedale. In pratica, non ci si può aspettare che il paziente fornisca una prova rigorosa di come e perché è avvenuto l’errore se la prova di quei fatti è sfumata o perduta a causa di una cattiva gestione della documentazione clinica da parte dei sanitari. La responsabilità di tenere una cartella clinica completa e accurata ricade sulla struttura e sul personale medico: si tratta di un obbligo accessorio ma fondamentale nella prestazione sanitaria. Dunque, qualora il deficit di informazioni impedisca di chiarire il nesso di causa, tale incertezza non può danneggiare il paziente (che è parte “debole” e estranea alla gestione dei referti), bensì può ritorcersi contro la struttura stessa. La Cassazione, con un approccio di giustizia sostanziale, sottolinea che il medico non può trarre vantaggio dalla mancanza di prove che lui stesso avrebbe dovuto fornire o custodire. Questo orientamento pone un forte incentivo alla corretta tenuta delle cartelle cliniche: ne va non solo della salute del paziente, ma anche della tutela legale del medico. In caso di contenzioso, infatti, una documentazione sanitaria lacunosa sarà valutata contra legem a sfavore del sanitario, che vedrà presumere a suo carico quei fatti che non è possibile ricostruire per colpa sua. Per i pazienti danneggiati, invece, questa giurisprudenza è estremamente favorevole: significa avere una chance in più di ottenere giustizia anche quando “mancano le prove”, purché tale mancanza sia dovuta alle omissioni del medico nel documentare il caso.
Un paziente che si rivolge a un medico potrebbe già soffrire di patologie o problemi di salute pregressi. Cosa accade se un errore sanitario si innesta su una situazione clinica già compromessa? Il medico deve risarcire solo l’ulteriore aggravamento causato dal suo errore, oppure l’intero stato di salute peggiorato del paziente? Questo tema attiene al cosiddetto danno iatrogeno differenziale e ha generato discussioni in dottrina e giurisprudenza. Di recente la Cassazione civile (Sez. III) è intervenuta con la sentenza n. 29549/2024 delineando con precisione i criteri da seguire.
In linea generale, il principio affermato è che il paziente ha diritto al risarcimento integrale di tutto il danno subito per effetto dell’errore medico, fatta salva l’ipotesi in cui una parte di quel danno sarebbe comunque derivata dalle sue condizioni pregresse anche senza l’errore. Più in dettaglio, la Corte ha stabilito che occorre distinguere tra concause e coincidenze: se la menomazione o malattia preesistente concorre effettivamente ad aggravare le conseguenze dell’errore medico, allora si deve operare un criterio differenziale, attribuendo al sanitario solo la quota di danno da lui effettivamente causata in più rispetto alla situazione preesistente. Ciò implica svolgere un giudizio ipotetico (“controfattuale”) su come sarebbe stata la situazione del paziente senza l’errore: la differenza tra lo stato attuale e lo stato ipotetico senza errore rappresenta il danno risarcibile imputabile al medico. Se invece la patologia preesistente risulta semplicemente coesistente ma non incide sul peggioramento causato dall’errore, allora non si effettua alcuna riduzione: il medico risarcirà tutto il danno constatato, perché quel danno è interamente riconducibile alla sua condotta. Un esempio può aiutare: si pensi a un paziente con una lieve discopatia pregressa che, a causa di un errore in un intervento, riporti una grave lesione neurologica. Se la discopatia non ha contribuito in alcun modo a determinare la lesione (era un problema diverso e indipendente), il medico dovrà risarcire per intero la grave lesione provocata. Diversamente, se il paziente aveva già una compromissione funzionale all’arto al 50% e l’errore del medico aggiunge un ulteriore 20% di danno, il sanitario risponderà per quel 20% aggiuntivo (perché il restante 50% di menomazione esisteva a prescindere dall’errore). Questo principio tutela il paziente da decurtazioni ingiuste del risarcimento: nessuno sconto al medico se la sua condotta ha provocato un danno nuovo e distinto. Allo stesso tempo, impedisce un ingiusto arricchimento del paziente oltre il danno effettivamente subito per mano del sanitario, nei casi in cui una parte delle sue condizioni sfavorevoli dipendeva esclusivamente da cause pregresse. In sintesi, per la Cassazione il rischio pregresso grava sul medico solo per la parte in cui il suo errore lo ha fatto concretizzare o aggravare. Ove non vi sia interazione tra la condizione preesistente e l’errore, il paziente va risarcito integralmente dell’esito negativo causato da quest’ultimo. Questo orientamento – applicato nelle cause di malasanità – si inserisce nel solco del principio più generale secondo cui il responsabile è tenuto a risarcire tutte le conseguenze del proprio fatto illecito (integral reparation), salvo il caso in cui vi siano cause concorrenti estranee di efficacia misurabile. È un equilibrio tecnico-giuridico, ma con una ricaduta pratica importante: il paziente non deve temere di vedersi ridotto il risarcimento solo perché “era già malato”, a meno che il medico non provi che quella pregressa malattia ha di per sé causato parte del nuovo danno.
Conclusione: Le recenti evoluzioni – normative e giurisprudenziali – delineano un quadro di tutele sempre più solide per chi subisce un errore sanitario. La salute non è tutto, ma senza la salute tutto è niente, ammoniva Arthur Schopenhauer. Proprio perché la salute è un bene così prezioso, il diritto interviene per porre rimedio, per quanto possibile, alle perdite causate dalla malasanità. Oggi il paziente può contare su criteri risarcitori più uniformi e su orientamenti dei giudici che facilitano l’ottenimento di giustizia: dalla Tabella Unica Nazionale che garantisce risarcimenti equi su tutto il territorio, ai principi giurisprudenziali che impediscono ai professionisti negligenti di trincerarsi dietro scuse come la “complicanza” o dietro la mancanza di prove da loro stessi causata. Naturalmente ogni caso di responsabilità medica fa storia a sé, ma la direzione intrapresa è chiara: mettere al centro il paziente e la sua tutela, affinché chi ha sofferto un danno ingiusto trovi adeguato ristoro e chi ha sbagliato ne risponda secondo giustizia (suum cuique tribuere).
Se tu o una persona a te cara siete rimasti vittime di un errore medico o di malasanità, non esitare a rivolgerti allo Studio Legale MP di Verona. Il nostro team di professionisti è a tua disposizione per valutare il caso specifico e assisterti nel percorso verso il giusto risarcimento. Contattaci senza impegno per una consulenza personalizzata: ti aiuteremo a far valere i tuoi diritti e ad ottenere giustizia, perché nella tutela della salute del paziente “salus aegroti suprema lex” – il bene del malato è la legge suprema.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.