Errori del dentista e mancato consenso informato alla luce delle ultime sentenze italiane
"Non c'è mai stato filosofo che potesse sopportare con pazienza il mal di denti", scriveva Shakespeare. Il dolore e i danni ai denti possono infatti essere insopportabili anche per i più forti, figuriamoci quando derivano da errori dentistici evitabili. In ambito di malasanità odontoiatrica (responsabilità del dentista) il paziente che subisce un danno ha diritto a chiedere un risarcimento. Negli ultimi anni la giurisprudenza italiana ha affrontato sempre più casi di danno odontoiatrico, chiarendo i requisiti per ottenere giustizia. In particolare, due temi risultano fondamentali: da un lato gli errori professionali del dentista (negligenza, imperizia, trattamenti eseguiti non a regola d’arte) e il relativo onere di prova del nesso causale; dall’altro lato la questione del consenso informato, ossia il diritto del paziente ad essere informato sui rischi delle cure. Esaminiamo questi due aspetti chiave – errore medico e mancata informazione – alla luce delle ultime sentenze disponibili, per capire come comportarsi e quali tutele aspettarsi.
Quando un dentista prende in cura un paziente, tra i due si instaura un vero e proprio contratto, definito dalla giurisprudenza “contratto di cura”, che vincola il professionista a usare la massima diligenza e le corrette tecniche per ottenere il risultato sperato, senza però garantirlo come certo. In termini legali, si parla di obbligazione di mezzi, non di risultato: il dentista deve cioè impegnarsi al meglio delle conoscenze scientifiche (lex artis), ma non promettere guarigioni miracolose. Ciò vale salvo casi particolari – ad esempio interventi di mera estetica dentale o risultati espressamente garantiti – in cui l’obbligazione potrebbe avvicinarsi a un risultato promesso. Nella pratica, comunque, ogni trattamento odontoiatrico va svolto con scrupolo e competenza: un errore del dentista può tradursi in un danno grave per la salute, dall’estetica del sorriso alla funzionalità masticatoria.
Per ottenere il risarcimento di un danno da intervento dentistico malriuscito, devono sussistere alcune condizioni essenziali secondo la giurisprudenza:
Errore inescusabile nel trattamento odontoiatrico (ad esempio diagnosi errata, intervento eseguito con imperizia o negligenza).
Danno alla salute del paziente, ossia un peggioramento rispetto alle condizioni iniziali (lesioni, perdita di denti, infezioni, menomazioni funzionali o estetiche).
Nesso di causalità tra l’errore del dentista e il danno subito (il peggioramento deve essere conseguenza diretta e “probabile” dell’operato errato).
Questi tre elementi – errore, danno, nesso causale – sono il cardine della responsabilità civile. Va ricordato che la responsabilità del dentista verso il paziente ha natura contrattuale: ciò comporta alcuni vantaggi probatori per il paziente. In base ai principi tradizionali, infatti, il paziente danneggiato deve soltanto allegare l’inadempimento (cioè descrivere cosa è andato storto), mentre spetterebbe al medico-dentista provare di aver agito con la dovuta diligenza. Tuttavia, in anni recenti la Corte di Cassazione ha puntualizzato che rimane comunque a carico del paziente l’onere di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del sanitario e le conseguenze subìte. In altre parole, il paziente deve provare, almeno in base al criterio civilistico del “più probabile che non”, che l’errore del dentista ha provocato il danno lamentato. Se, dopo le perizie e le evidenze raccolte, il nesso causale resta incerto o indimostrato, la domanda di risarcimento sarà rigettata dal giudice.
Volendo fare un esempio: una paziente si sottopone a un impianto dentale e successivamente sviluppa un’infezione o un danno al nervo mandibolare. Se ella cita in giudizio il dentista sostenendo che l’impianto è stato eseguito male, dovrà provare (anche tramite una consulenza tecnica d’ufficio, CTU) che effettivamente vi è stato un errore tecnico e che tale errore è la causa più probabile delle complicanze sofferte. In un caso reale esaminato prima dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Bologna e poi dalla Cassazione, la paziente non è riuscita a provare il nesso tra l’operato del dentista e le infezioni riportate, poiché le perizie hanno concluso che l’intervento era stato eseguito correttamente. La Cassazione – con ordinanza n. 42104/2022 (Sez. III Civile) – ha confermato il rigetto della richiesta risarcitoria, ribadendo il principio che spetta al paziente provare il nesso causale tra la condotta del medico e il danno subito; se tale prova manca, non vi può essere condanna.
Dal punto di vista del paziente, quindi, è fondamentale documentare accuratamente il danno (esami clinici, radiografie, referti specialistici) e far emergere l’eventuale errore tramite perizie medico-legali. Il dentista potrà difendersi dimostrando di aver seguito le linee guida e la buona pratica (ad esempio mostrando di avere informato il paziente di possibili complicanze inevitabili, o che il problema è derivato da condizioni preesistenti del paziente e non da imperizia). In ogni caso, la recente giurisprudenza in materia di malasanità dentale conferma che il giudice decide basandosi sul parere dei consulenti tecnici e sul principio della causalità probabilistica: se il nesso fra errore e danno è sufficientemente provato (>50% di probabilità), scatta il risarcimento; viceversa, in assenza di prova chiara, favor rei (il dubbio va a favore del medico).
Un altro pilastro della responsabilità medica – valido anche per il dentista – è il dovere di informazione verso il paziente. Ogni trattamento odontoiatrico, anche eseguito perfettamente, richiede di ottenere il consenso informato del paziente: quest’ultimo deve essere messo a conoscenza, in modo comprensibile, delle caratteristiche dell’intervento, dei rischi prevedibili, dei possibili effetti collaterali, nonché delle alternative disponibili (per esempio, alternative terapeutiche o la possibilità di non intervenire subito). Solo una persona consapevole può decidere liberamente di sottoporsi a una cura medica. Non a caso la Costituzione italiana tutela la libertà personale e il diritto alla salute (artt. 13 e 32 Cost.), dai quali discende il principio che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari senza consenso.
Un antico brocardo latino recita: volenti non fit iniuria – non si fa torto a chi consente. Questo principio si riflette nella pratica clinica: se il paziente viene avvisato di un certo rischio e, volontariamente, accetta di correrlo pur di ottenere il beneficio sperato, non potrà poi lamentarsi di quel particolare evento avverso (a meno che sia dipeso da errore evitabile). Di contro, se manca un consenso valido, il paziente subisce un torto grave: viene leso il suo diritto di autodeterminazione, ossia di scegliere in piena libertà e conoscenza cosa fare della propria salute. La violazione dell’obbligo di informare il paziente è fonte di responsabilità a sé stante. La Cassazione ha più volte ribadito che l’omesso o viziato consenso informato configura un danno autonomo, risarcibile in modo aggiuntivo e distinto rispetto al danno causato dall’errore nel trattamento medico. Ciò perché informare adeguatamente il paziente è una prestazione diversa e ulteriore rispetto alla cura sanitaria in sé: doppia prestazione significa che, se vengono lesi due diritti fondamentali (la salute da un lato e la libertà di scelta dall’altro), allora potranno esservi due voci di danno risarcibili.
Non tutte le mancanze informative, però, danno luogo allo stesso tipo di conseguenze. La giurisprudenza recente (Cass. Civ. n. 28985/2019) ha chiarito che la violazione del consenso informato può causare due categorie di danno differenti:
Danno alla salute: si verifica se il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a quel trattamento e dunque avrebbe evitato le conseguenze dannose poi concretizzatesi. In tal caso la lesione alla salute (es. un’invalidità, la perdita di un dente, una neuropatia da intervento) è risarcibile anche perché il paziente non era stato messo in grado di scegliere diversamente. In pratica, il dentista può essere chiamato a risarcire il danno biologico occorso, pur se magari l’intervento era stato eseguito tecnicamente a regola d’arte – proprio perché il paziente, informato dei rischi, non avrebbe dato il consenso e non avrebbe subìto quel pregiudizio. Va precisato che spetta al paziente dimostrare ex post che, conoscendo in anticipo i rischi poi verificatisi, non avrebbe acconsentito all’operazione (dimostrazione spesso affidata a elementi presuntivi, contesto personale, ecc.).
Danno da lesione del diritto all’autodeterminazione: si configura quando il deficit informativo ha provocato al paziente un pregiudizio diverso dalla salute fisica. Parliamo di danno non patrimoniale (morale, esistenziale, psicologico) dovuto al fatto stesso di aver subìto un trattamento senza aver potuto esercitare pienamente la propria volontà. Questo tipo di danno include, ad esempio, la sofferenza soggettiva di chi realizza che è stato “usato” come oggetto di cure senza spiegazioni, perdendo la fiducia o vivendo un’angoscia evitabile. Oppure può comprendere la violazione della dignità personale, lo shock emotivo per non essere stato informato di effetti collaterali temporanei che però hanno causato ansia, e così via. È importante però sottolineare che non ogni omissione formale di informazioni genera automaticamente un risarcimento: se il trattamento non ha causato alcun danno alla salute e il paziente, anche se informato, avrebbe comunque scelto di procedere, non vi è perdita effettiva – e quindi potrebbe non spettare alcun risarcimento. Invece, nelle situazioni in cui manca il danno fisico ma il paziente prova di aver subìto comunque conseguenze serie sul piano psichico o della libertà di disporre di sé (ad esempio stress intenso, violazione della propria sfera personale), allora la lesione del diritto all’autodeterminazione potrà essere risarcita in misura proporzionata alla gravità di tali conseguenze.
In sintesi, il mancato consenso informato è oggi riconosciuto come un illecito autonomo. Il paziente può ottenere un risarcimento specifico per questa ragione, anche cumulativamente a quello per malasanità tecnica, qualora ricorrano i presupposti visti sopra. La Corte di Cassazione ha sottolineato che il consenso informato attiene ai diritti inviolabili della persona, diversi ma complementari rispetto al diritto alla salute. Per il dentista (come per qualsiasi medico) acquisire il consenso non è una mera formalità burocratica, ma parte integrante della prestazione sanitaria: ometterlo significa violare la fiducia del paziente e lede la relazione terapeutica.
Le dispute legali in materia di odontoiatria confermano che tanto la qualità tecnica della prestazione quanto la comunicazione col paziente sono essenziali. Un errore odontoiatrico può causare danni seri e permanenti, mentre una carente informazione può privare il paziente del controllo sulle proprie scelte di cura. I tribunali, con l’ausilio di periti, valutano caso per caso se vi sia stata colpa professionale del dentista e/o violazione del dovere di informare, applicando i principi affermati dalle recenti sentenze. Chi ritiene di aver subìto un danno da malasanità odontoiatrica – sia esso un danno fisico da trattamento sbagliato o una lesione dei diritti di informazione – ha la possibilità di far valere i propri diritti in sede giudiziaria. È consigliabile rivolgersi a un avvocato esperto in responsabilità medica, che possa valutare la documentazione clinica, individuare gli estremi per una causa di risarcimento e avvalersi di consulenti tecnici odontoiatri per provare il nesso tra la condotta del dentista e il pregiudizio subìto. Come insegna il detto latino, ubi ius, ibi remedium – dove c’è un diritto violato, lì deve esserci un rimedio: in questo contesto, il rimedio è il risarcimento integrale dei danni patiti dal paziente.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.