Valutazione preliminare del caso di malasanità
La prima domanda da porsi, in caso di esito negativo di cure mediche, è se si tratti di una complicanza inevitabile o di un vero errore medico evitabile. Non tutti i peggioramenti di salute, infatti, sono dovuti a colpa medica: alcuni eventi avversi costituiscono complicanze che possono insorgere anche quando il medico ha fatto tutto il possibile secondo le leges artis. Occorre dunque un’attenta analisi tecnica del caso. In questa fase iniziale è fondamentale raccogliere tutta la documentazione sanitaria (cartella clinica, referti, consenso informato, etc.) e rivolgersi a professionisti esperti in malasanità. Primum non nocere (“innanzitutto non nuocere”) ricorda che il primo dovere del medico è non arrecare danno al paziente; quando però qualcosa va storto, serve capire se il danno era evitabile. Una consulenza medico-legale preliminare aiuterà a valutare il comportamento dei sanitari: il caso verrà esaminato da un medico legale e da specialisti della materia, per stabilire se vi siano indizi di negligenza, imprudenza o imperizia. La legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) ha rafforzato questa fase, prevedendo che l’eventuale perizia durante il giudizio sia svolta da un collegio di esperti (ad esempio, medico-legale + specialista della disciplina coinvolta) per garantire un accertamento accurato e multidisciplinare. Su questo punto la Cassazione ha posto un fermo principio: se la perizia non è collegiale e conforme ai requisiti di legge, la sentenza può essere nulla (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 15594/2025). Ciò evidenzia quanto sia cruciale, sin dall’inizio, una valutazione tecnico-scientifica approfondita del caso di malasanità.
Durante la valutazione iniziale occorre distinguere le complicanze inevitabili dagli errori. Una complicanza prevedibile ma non evitabile (ad esempio una rara reazione avversa a un farmaco, non prevenibile neppure con la massima cautela) non configura colpa medica. Al contrario, un evento avverso prevedibile ed evitabile indica che vi è stata negligenza: in questo caso si parla propriamente di errore medico. La Corte di Cassazione ha chiarito che sul piano giuridico il concetto di “complicanza” di per sé non esonera il sanitario da responsabilità: conta verificare se l’evento dannoso fosse o meno evitabile con l’adeguata diligenza professionale. In altre parole, se un esito negativo era astrattamente noto come possibile ma con le giuste misure si poteva evitare, il fatto rientra nella responsabilità del medico; viceversa, se anche applicando tutte le cure corrette quel danno si sarebbe ugualmente prodotto, ci troviamo di fronte a un caso fortuito (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 9198/2024). Questa analisi tecnico-medica iniziale permette di capire se vi sono le basi per procedere con una richiesta di risarcimento. Studi legali con esperienza in malasanità, come lo Studio Legale MP, collaborano strettamente con medici legali e altri specialisti proprio per offrire al paziente una valutazione preliminare gratuita e onesta sul caso: solo se dagli accertamenti emerge che il danno può essere frutto di un errore evitabile, si consiglia di avviare l’iter risarcitorio. “Se curi una malattia puoi vincere o perdere, ma se ti prendi cura di una persona vinci sempre” è una celebre citazione tratta dal film Patch Adams: il messaggio è che l’umanità e la cura verso il paziente dovrebbero essere al centro dell’arte medica. Purtroppo, quando tale dovere di cura viene meno e il paziente subisce un danno, è giusto attivarsi per ottenere giustizia.
Onere della prova e nesso causale
Uno dei punti cardine nelle cause di malasanità è capire chi deve provare cosa. In ambito civile, la responsabilità sanitaria viene generalmente inquadrata come responsabilità contrattuale: quando un paziente si affida a un medico o a una struttura sanitaria si instaura un vero e proprio contratto (anche senza formalità scritte), nell’ambito del quale il sanitario si obbliga a fornire cure diligenti secondo scienza e coscienza. Questo inquadramento comporta importanti conseguenze sull’onere della prova ai sensi dell’art. 1218 c.c.: il paziente che chiede il risarcimento deve provare di aver subito un danno e allegare un nesso causale plausibile con l’operato del medico, ma non è tenuto a dimostrare in dettaglio la colpa del medico. Saranno invece il medico e la struttura a dover provare di avere diligentemente adempiuto alla propria obbligazione oppure che l’esito negativo è dipeso da una causa a loro non imputabile (ad esempio una fatalità inevitabile). Questo principio di favore verso il paziente è stato ribadito di recente dalla Cassazione: il paziente deve provare il danno subito e la relazione causale con la condotta sanitaria, mentre spetta al professionista o all’ospedale dimostrare di aver agito correttamente (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 5922/2024). In altre parole, il malato non deve provare esattamente dove il medico ha sbagliato (cosa spesso difficilissima per un non addetto ai lavori), ma gli basta dimostrare che dopo quella prestazione si è verificato un danno anomalo; sarà il medico a doversi scagionare provando di non aver commesso errori. Questa distribuzione dell’onere probatorio tutela il paziente-vittima, evitandogli un probatio diabolica, e incentiva i sanitari e le strutture a tenere condotte virtuose e documentare scrupolosamente il proprio operato.
Proprio la documentazione sanitaria (in primis la cartella clinica) gioca un ruolo cruciale nel processo. Il paziente ha diritto di ottenere copie di tutta la sua documentazione medica: questi documenti saranno tra le prove principali in giudizio, insieme alle perizie tecnico-legali. Ma cosa accade se la cartella clinica è incompleta o lacunosa? È importante sapere che un’eventuale incompletezza della cartella clinica non può andare a detrimento del paziente. Anzi, secondo la Cassazione un dossier clinico mal tenuto può costituire un elemento a favore del danneggiato: se proprio a causa di quei vuoti documentali non è possibile accertare con certezza il nesso causale, il giudice può ritenere dimostrato il collegamento tra l’operato del medico e il danno proprio valorizzando la carenza di informazioni che era onere della struttura fornire (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 11224/2024). In pratica, l’ospedale che non abbia diligentemente annotato tutto in cartella rischia di vedere presumere a suo carico la responsabilità dell’evento avverso, qualora il comportamento del sanitario astrattamente fosse idoneo a provocare il tipo di lesione verificatasi. Questo orientamento di giudici e giurisprudenza spinge le strutture sanitarie a curare la tenuta dei propri documenti clinici, ma al tempo stesso protegge il paziente: non ci si può difendere invocando un’incertezza che deriva dalla mancanza di prove quando quella mancanza è dovuta a omissioni documentali del medico stesso.
Altro elemento fondamentale da provare è il nesso causale tra errore e danno. In sede civile, vale il criterio probatorio del “più probabile che non”: il paziente deve dimostrare che è probabile in senso prevalente (ossia >50%) che l’errore medico sia stata la causa del suo pregiudizio. Non si richiede la certezza assoluta (che spesso in medicina è irraggiungibile), ma una ragionevole probabilità basata sulle evidenze scientifiche e sulle conoscenze tecniche. Questo standard è anch’esso favorevole al danneggiato: significa che non occorre provare che l’errore sia stata l’unica causa del danno, basta mostrarne una elevata probabilità. Ad esempio, se un paziente subisce un danno neurologico dopo un intervento e le prove indicano che molto probabilmente quel danno non si sarebbe verificato senza una certa manovra errata dell’anestesista, il nesso di causa è considerato dimostrato – anche se non si può escludere del tutto una diversa causa. La Cassazione ha confermato che in materia di responsabilità sanitaria la prova del nesso di causa è raggiunta quando l’errore del medico emerge come spiegazione più verosimile del peggioramento delle condizioni del paziente (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 25825/2024). Il medico, dal canto suo, per andare esente da responsabilità deve provare o di aver fatto tutto correttamente (aderendo ai protocolli e alle buone pratiche) oppure che il danno si sarebbe comunque verificato per cause estranee alla sua condotta.
Un aspetto delicato riguardo al nesso causale è la gestione di eventuali patologie preesistenti del paziente. Spesso chi subisce un errore medico ha già problemi di salute pregressi (si pensi a un malato con una malattia cronica che subisce un aggravamento per cure inadeguate). In tali casi bisogna valutare quanto del danno finale è dipeso dalla patologia originaria e quanto dall’errore. Il principio generale è che il medico risponde solo per la quota di danno da lui causata. Tuttavia, se i postumi dell’errore si sommano a una condizione preesistente in modo tale da peggiorarla ulteriormente, il paziente dev’essere risarcito per tutto l’aggravamento subito. La Cassazione ha affrontato il tema stabilendo che il risarcimento “differenziale” (ovvero limitato alla differenza tra la situazione del paziente prima e dopo l’errore) si applica solo se si accerta, con giudizio tecnico detto controfattuale, che il deficit causato dall’errore medico si è aggiunto e aggravato a una menomazione già esistente. Se invece la menomazione preesistente risulta semplicemente coesistente ma non incidente sul nuovo danno, allora l’errore medico resta responsabile dell’intero esito e il paziente va risarcito integralmente, senza decurtazioni per il suo stato pregresso (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 29549/2024). In altre parole, il medico “trova il paziente come è” (principio del take the victim as you find them): una condizione di base del malato non esime dal rispondere del peggioramento ulteriore, a meno che il danno lamentato non derivi in parte proprio da quella condizione di base. Questo criterio garantisce che la presenza di patologie pregresse non diventi un facile escamotage per ridurre il risarcimento: ogni caso sarà valutato con perizia medico-legale per attribuire in modo equo le conseguenze dell’errore.
Iter giudiziario: dalla perizia al processo
Una volta appurato, attraverso la valutazione preliminare, che ci sono i presupposti per una causa di malasanità (ovvero che il danno subito è verosimilmente frutto di colpa medica), si passa alla fase di richiesta formale di risarcimento. Il percorso stabilito dalla legge prevede alcuni passi obbligati prima di arrivare in tribunale. In particolare, la Legge Gelli ha introdotto l’obbligo di tentare una conciliazione tra le parti tramite una procedura specifica prima di avviare la causa civile. Questo può avvenire in due modi alternativi: o con un tentativo di mediazione civile davanti a un organismo di mediazione, oppure – scelta più frequente in malasanità – con un accertamento tecnico preventivo (ATP) ai fini conciliativi ex art. 696-bis c.p.c. Quest’ultimo è in sostanza una perizia svolta da un consulente tecnico nominato dal giudice, in una fase pre-processuale, per accertare se vi sia stato errore e quantificare il danno. All’ATP partecipano anche i consulenti di parte (sia del paziente che dei medici coinvolti) e al termine l’esperto deposita una relazione. Se dall’accertamento preventivo emerge chiaramente l’errore, spesso le assicurazioni preferiscono trovare un accordo transattivo e risarcire il paziente senza andare oltre. In caso contrario (ad esempio se la perizia conclude negando responsabilità, oppure se le parti non si accordano sull’importo), il tentativo è dichiarato fallito e il paziente può procedere con la causa civile vera e propria.
Quando si instaura il giudizio civile per malasanità, esso segue il rito ordinario davanti al tribunale competente. Il paziente (attore) deve citare in giudizio la struttura sanitaria e/o il medico responsabile, formulando le proprie richieste risarcitorie. Nel corso della causa, quasi sempre il giudice dispone una consulenza tecnica d’ufficio (CTU), cioè una perizia approfondita affidata a uno o più specialisti (medico legale e altri medici della disciplina interessata). Come già evidenziato, oggi la legge richiede CTU collegiali in materia sanitaria: ciò garantisce un esame peritale più rigoroso e completo. Il consulente (o collegio di consulenti) nominato dal giudice analizzerà tutta la documentazione, visiterà se necessario il paziente e risponderà a quesiti specifici sul caso (ad esempio: “Il tale intervento è stato eseguito secondo buona pratica? Se no, l’errore ha causato o concausato il danno X al paziente? Qual è il grado di invalidità conseguente?”). Le conclusioni della CTU influenzeranno molto la decisione finale: se la perizia d’ufficio conferma la responsabilità medica, è probabile che si arrivi a sentenza di condanna al risarcimento, mentre se nega errori potrebbe orientare il rigetto della domanda (salvo contrasto con altri elementi di prova). Da notare che il paziente e la controparte possono nominare consulenti tecnici di parte (CTP), i quali partecipano alle operazioni peritali e possono sollevare osservazioni per tutelare le rispettive posizioni.
L’iter giudiziario di un caso di malasanità può essere piuttosto lungo e complesso. È bene sapere che, dalla domanda iniziale al possibile risarcimento effettivo, potrebbero volerci alcuni anni, soprattutto se si arriva fino alla sentenza definitiva. Tuttavia, molti casi si risolvono prima, grazie a transazioni o a decisioni anticipate (ad esempio, se la responsabilità è evidente l’assicurazione può decidere di pagare evitando ulteriori spese legali). Per affrontare questo percorso al meglio, è fondamentale essere affiancati da un avvocato competente in responsabilità medica, che conosca le insidie del procedimento e sappia interagire in modo efficace con i consulenti tecnici. Dal punto di vista temporale, la legge prevede dei termini di prescrizione entro cui il paziente deve attivarsi: generalmente il diritto al risarcimento si prescrive in 10 anni (trattandosi di inadempimento contrattuale), ma possono esserci casi in cui si applica il termine quinquennale della responsabilità extra-contrattuale (ad esempio azione diretta contro il medico libero professionista). È quindi prudente non attendere troppo: conviene consultare appena possibile un legale, così da interrompere eventualmente la prescrizione e avviare le pratiche in tempo utile. In sintesi, una volta maturata la consapevolezza di essere vittima di malasanità, è importante agire tempestivamente: raccogliere la documentazione, ottenere una perizia preliminare e avviare il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dalla legge. Superati questi step, se non si raggiunge un accordo, sarà il giudice a doversi pronunciare, ma con il conforto di solide prove tecniche il paziente avrà messo in campo tutto il necessario per vedere riconosciuti i propri diritti.
Responsabilità professionale, struttura sanitaria e assicurazione
Un aspetto spesso poco chiaro per i non addetti ai lavori è chi debba materialmente pagare il risarcimento in caso di condanna: il medico oppure l’ospedale? E che ruolo ha l’assicurazione sanitaria? Per rispondere, occorre distinguere le posizioni. La legge italiana, grazie anche alla riforma Gelli, ha delineato una sorta di “doppio binario” della responsabilità professionale sanitaria:
La struttura sanitaria (ospedale pubblico o clinica privata) risponde sempre delle condotte dei medici che operano al suo interno (dipendenti o convenzionati), ai sensi dell’art. 1228 c.c., oltre che delle proprie carenze organizzative. Si tratta di una responsabilità contrattuale diretta verso il paziente: in pratica l’ospedale è tenuto a risarcire il danno causato al malato per un errore avvenuto durante il ricovero o l’intervento, a prescindere dal fatto che l’errore sia attribuibile a uno specifico medico. Il paziente può citare in giudizio direttamente la struttura, che risponde in solido per i danni. Questo principio è costante in giurisprudenza (si veda ad es. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 7074/2024) ed è molto vantaggioso per il danneggiato, perché gli garantisce un debitore solvibile.
Il medico (o altro esercente la professione sanitaria) risponde personalmente in due ipotesi: se esercita come libero professionista direttamente ingaggiato dal paziente (in tal caso si forma un contratto di prestazione d’opera tra medico e paziente), oppure se, pur essendo un dipendente del SSN, viene chiamato in causa dal paziente per responsabilità extracontrattuale (come da Legge 24/2017, art. 7). Nella pratica, in caso di malasanità ospedaliera, il paziente di solito cita sia l’ospedale (responsabile contrattualmente) sia il singolo medico che ha commesso l’errore (responsabile in via aquiliana ex art. 2043 c.c.): così facendo, copre entrambe le basi giuridiche. Ciò non significa però un doppio risarcimento – medico e struttura sono corresponsabili e tenuti in solido – ma offre al paziente maggiori chance di ottenere il pagamento. Spesso, infatti, è l’assicurazione della struttura che si attiva per liquidare il danno.
È obbligatorio per legge che sia le strutture sanitarie sia i singoli professionisti abbiano una copertura assicurativa per la responsabilità civile verso i pazienti. Dal 2017 l’assicurazione professionale per i medici non è più facoltativa ma imposta normativamente (con alcune specifiche tecniche sui massimali e sulle condizioni, demandate a decreti attuativi). Lo scopo è duplice: garantire al paziente danneggiato che ci sia un soggetto solvibile (l’assicuratore) pronto a pagare il risarcimento dovuto, e proteggere il patrimonio personale dei sanitari da richieste risarcitorie potenzialmente rovinose. In caso di condanna, dunque, normalmente sarà la compagnia assicurativa a versare materialmente l’importo stabilito al paziente. La legge ha anche previsto la possibilità per il paziente di esercitare azione diretta nei confronti dell’assicurazione della struttura o del medico (similmente a quanto avviene nell’RC Auto): questo evita al malato ulteriori lungaggini, permettendogli di rivolgersi subito al soggetto tenuto a indennizzare il danno.
Un’altra tutela importante introdotta dalla Legge Gelli riguarda la cosiddetta azione di rivalsa: ovvero la facoltà per la struttura o per l’assicuratore, dopo aver pagato il risarcimento al paziente, di rivalersi sul medico che ha commesso l’errore per recuperare le somme versate. Tale azione però è strettamente limitata: può scattare solo nei casi di dolo o colpa grave del sanitario, e in ogni caso l’eventuale importo dovuto dal medico non può superare una certa soglia (per i dipendenti pubblici, ad esempio, la legge fissa un tetto massimo pari a tre volte la retribuzione annua lorda). Questo significa che il medico ospedaliero, in assenza di colpa grave, non rischia di dover ripagare di tasca propria l’intero risarcimento – scenario che in passato preoccupava molto la categoria – a patto naturalmente di essere assicurato come richiesto. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno inoltre chiarito che l’azione di rivalsa per danno erariale (quella esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti, nel caso di medici dipendenti pubblici) può coesistere con le azioni civilistiche ordinarie di responsabilità, senza escluderle: in altri termini, l’eventuale intervento della Corte dei Conti per rifarsi sul medico negligente non impedisce all’azienda sanitaria di agire civilmente nei suoi confronti, essendo diverse le finalità (sanzionatoria contabile vs risarcitoria privata). Questo principio, affermato nell’ordinanza della Cassazione a Sezioni Unite n. 17634/2024, garantisce che la Pubblica Amministrazione possa tutelare le proprie risorse economicamente, fermo restando che il paziente deve comunque essere risarcito integralmente nelle sedi competenti.
In concreto, per il paziente che ha subito un danno, tutti questi tecnicismi si traducono in un vantaggio: la presenza dell’assicurazione obbligatoria assicura che, se verrà riconosciuto il suo diritto, egli otterrà il risarcimento (nei limiti dei massimali di polizza, generalmente molto elevati). Non ci si deve preoccupare eccessivamente che il singolo medico “sia nullatenente” o che l’ospedale opponga problemi finanziari: le polizze coprono gli importi dovuti. È anche possibile che, durante la trattativa, sia direttamente la compagnia assicurativa a farsi avanti per proporre un indennizzo al danneggiato, una volta accertata la responsabilità. Va ricordato però che l’assicurazione tutela anche il medico, e cercherà di minimizzare l’esborso: per questo è importante farsi assistere dal proprio avvocato in tutte le interlocuzioni con i periti assicurativi, evitando accordi al ribasso. In ogni caso, sapere che esiste una copertura assicurativa e che la legge consente azione diretta contro l’assicuratore, offre al paziente una serenità in più: il focus potrà essere sul dimostrare la colpa e il nesso causale, senza l’incertezza di dover rincorrere personalmente il pagamento.
Affrontare un caso di malasanità richiede competenze mediche e legali combinate, pazienza e determinazione. Abbiamo visto come sia essenziale partire da una valutazione tecnica accurata, raccogliere prove solide e seguire l’iter previsto dalla legge, sfruttando a proprio favore i principi sull’onere della prova e le tutele normative introdotte in questi anni. Le recenti riforme – dall’obbligo di assicurazione alla tabella unica nazionale per il risarcimento del danno biologico (D.P.R. 13/01/2025 n. 12, in vigore dal 5 marzo 2025, che garantisce criteri uniformi di liquidazione) – mostrano una crescente attenzione dell’ordinamento verso la tutela del paziente vittima di errore sanitario. Chi subisce un danno ingiusto in ospedale non è più solo: può contare su periti qualificati, su regole probatorie che facilitano la sua posizione e su un sistema assicurativo che garantisce il ristoro economico. “La giustizia è cieca, ma la legge tutela chi ha ragione”, potremmo dire parafrasando un noto adagio: l’importante è far valere con decisione i propri diritti, senza arrendersi di fronte alle difficoltà iniziali.
Se pensi di essere vittima di un errore medico o di malasanità, non esitare a rivolgerti allo Studio Legale MP: Contattaci oggi stesso per una consulenza riservata e senza impegno: ti forniremo un parere professionale e ti indicheremo la strada migliore per tutelare i tuoi diritti e ottenere il risarcimento che ti spetta.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.