
“Ad impossibilia nemo tenetur” (nessuno è tenuto a fare l’impossibile). Questo antico brocardo latino sintetizza bene la nuova direzione intrapresa dalla giurisprudenza: il diritto del lavoro italiano sta diventando più inclusivo, riconoscendo che per le persone con disabilità l’uguaglianza sostanziale richiede accomodamenti concreti. In passato, la tutela dei lavoratori disabili si focalizzava soprattutto sulle quote di assunzione obbligatorie (collocamento mirato ex lege 68/1999) e su divieti generici di discriminazione. Oggi, grazie anche all’influenza del diritto europeo e internazionale, si va oltre la mera enunciazione di principi, imponendo obblighi attivi ai datori di lavoro.
L’art. 3, comma 3-bis del d.lgs. 216/2003 (che attua la direttiva europea 2000/78/CE) impone al datore di lavoro di adottare ragionevoli accomodamenti per garantire la parità di opportunità alle persone con disabilità. In altre parole, l’azienda deve mettere in atto adattamenti organizzativi o tecnici (compatibilmente con le esigenze dell’impresa) per permettere al lavoratore disabile di conservare il posto e svolgere le proprie mansioni. Se non lo fa, un eventuale licenziamento può risultare discriminatorio e quindi nullo. Questi concetti, già presenti nella normativa, hanno trovato concreta applicazione solo di recente nelle aule giudiziarie, delineando una svolta epocale nella tutela del lavoratore disabile.
La svolta giurisprudenziale è arrivata con alcune pronunce chiave della Corte di Cassazione nel 2024. Una delle decisioni più emblematiche (Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 14316/2024) ha riguardato il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un dipendente affetto da grave invalidità. Il “periodo di comporto” è il limite massimo di giorni di malattia oltre il quale il datore può legittimamente risolvere il rapporto di lavoro. In questo caso, il lavoratore aveva superato tale limite a causa di lunghe assenze dovute alla sua condizione di salute (esiti di un infortunio che lo avevano reso disabile). Egli ha impugnato il licenziamento sostenendo che fosse discriminatorio, seppure in modo indiretto: applicare rigidamente la regola del comporto senza tenere conto che le sue assenze erano legate alla disabilità significava, in sostanza, penalizzarlo per la sua condizione.
La Cassazione gli ha dato ragione, annullando il licenziamento. Nella sentenza, la Corte ha affermato un principio innovativo: il datore di lavoro, prima di licenziare un dipendente in situazione di handicap per prolungata malattia, ha l’obbligo di verificare se esistano soluzioni alternative. In collaborazione con il lavoratore e i medici competenti, deve accertare se le assenze siano effetto della disabilità e, in caso positivo, adottare accomodamenti ragionevoli per evitare il recesso. Tra questi accomodamenti la Corte cita, ad esempio, un’ulteriore proroga del periodo di comporto oppure l’esclusione dal computo dei giorni di malattia collegati alla disabilità. Solo se, nonostante ogni sforzo ragionevole, il lavoratore non può proprio svolgere le mansioni nemmeno in forma adattata, allora il licenziamento potrà considerarsi legittimo. In caso contrario, il licenziamento è nullo perché costituisce una discriminazione basata sulla disabilità. La conseguenza della nullità, lo ricordiamo, è particolarmente incisiva: diritto al reintegro del lavoratore e risarcimento integrale di tutte le retribuzioni perse. Questo forte deterrente mira a far sì che le aziende prendano sul serio l’obbligo di accomodamento.
Vale la pena sottolineare l’importanza di questo orientamento. Come scriveva ironicamente Anatole France, “La legge, in tutta la sua equità, proibisce tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per le strade e di rubare il pane”. Questo paradosso evidenzia che un trattamento formalmente uguale per tutti (la legge uguale per ricchi e poveri) può tradursi in profonde ingiustizie materiali. Allo stesso modo, trattare un lavoratore disabile esattamente come uno sano – ad esempio applicando pedissequamente le stesse regole di assenza per malattia – significa ignorare le differenze di fatto e potrebbe creare un’uguaglianza solo apparente. La Cassazione, con questa pronuncia, sposa invece una logica di equità sostanziale: dare a ciascuno il suo, tenendo conto delle situazioni personali. In pratica, il messaggio è che l’impresa deve fare un passo in più per mantenere in servizio il dipendente disabile, purché ciò non comporti un onere eccessivo. È un bilanciamento tra il principio di buona fede e correttezza nei rapporti di lavoro e il principio di non discriminazione.
Pochi mesi dopo, un’altra pronuncia fondamentale (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 30080/2024) ha esteso il medesimo principio ad un caso di trasferimento e inidoneità sopravvenuta. La vicenda riguardava un dipendente colpito da una grave patologia (invalido al 100%) che, per poter proseguire le terapie, aveva chiesto di essere trasferito presso una sede di lavoro più vicina a casa. L’azienda, tuttavia, aveva ignorato la richiesta. Allo scadere di un periodo di aspettativa non retribuita, il lavoratore non era più rientrato nella sede originaria lontana (dato il serio impedimento fisico) e il datore di lavoro lo aveva licenziato per assenza ingiustificata. In primo e secondo grado il licenziamento era stato ritenuto valido, considerando che formalmente il dipendente non si era presentato al lavoro. Ma ancora una volta la Cassazione ha rovesciato la prospettiva, riconoscendo al lavoratore disabile il diritto ad accomodamenti organizzativi.
La Suprema Corte ha stabilito che non è lecito licenziare un dipendente disabile che rifiuti di riprendere servizio in una sede inadeguata alla sua condizione fisica, senza prima aver esplorato soluzioni alternative. Il datore di lavoro avrebbe dovuto quantomeno valutare un cambio di sede, un diverso orario o altre mansioni compatibili con lo stato di salute dell’uomo, invece di limitarsi a considerarlo assente ingiustificato. Il rifiuto di adottare accomodamenti ragionevoli in questo contesto è stato giudicato dalla Corte un atto discriminatorio. Anche in questo caso, dunque, la sentenza di appello è stata cassata, con rinvio affinché i giudici rivalutino la vicenda alla luce del principio che alle persone con disabilità va garantita, ove possibile, la continuità del rapporto di lavoro tramite misure aggiuntive e flessibili.
Un ulteriore tassello si è aggiunto a inizio 2025, confermando il trend: con la sentenza Cass. civ., Sez. Lav., n. 605/2025, la Cassazione ha affrontato il tema del lavoro agile come forma di accomodamento. Un lavoratore ipovedente, già dichiarato invalido civile per gravi deficit visivi, chiedeva di poter lavorare da remoto o in smart working dalla sede più vicina a casa (Pomigliano d’Arco) invece che doversi recare ogni giorno nella sede aziendale distante (Napoli Centro Direzionale). Durante l’emergenza Covid lo stesso lavoratore aveva già svolto con successo le proprie mansioni da casa, ma in seguito l’azienda era tornata a escludere il suo ruolo dal regime di smart working in base a un accordo interno. La Corte d’Appello gli aveva dato ragione, ordinando all’azienda di riassegnarlo alla sede più vicina e consentirgli di operare da remoto. La società ha fatto ricorso, ma la Cassazione ha confermato il verdetto a favore del dipendente.
La sentenza n. 605/2025 ribadisce che concedere il lavoro agile a un dipendente disabile può costituire un necessario accomodamento organizzativo. I giudici supremi hanno evidenziato che, in base al dovere di adottare accomodamenti ragionevoli per evitare disparità di trattamento, l’azienda avrebbe dovuto verificare concretamente la possibilità di far svolgere la prestazione in modalità agile. Nel caso specifico, attivare lo smart working per quel lavoratore non avrebbe comportato oneri sproporzionati per il datore di lavoro: dotarlo della strumentazione adeguata e della formazione necessaria era un costo sostenibile, ancor più considerando che durante la pandemia già si era dimostrato fattibile. La precedente esperienza positiva di lavoro da remoto è stata un elemento chiave: se l’azienda ha visto che il dipendente può rendere in smart working, rifiutare tale modalità senza valide ragioni equivale a una discriminazione. In definitiva, la Corte ha rigettato il ricorso aziendale, sancendo che il diritto agli accomodamenti ragionevoli è cogente: i datori di lavoro devono rimuovere le barriere (fisiche, organizzative o tecniche) che ostacolano l’inclusione del lavoratore disabile, fin dove ciò sia ragionevolmente possibile.
Queste pronunce delineano un obbligo a carico dell’impresa che va oltre gli stretti confini contrattuali: non basta più chiedersi “il lavoratore è idoneo o no a svolgere le sue mansioni originarie?”. Bisogna piuttosto domandarsi: “come posso adattare il lavoro o l’ambiente di lavoro affinché quella persona, pur con le sue limitazioni, continui a contribuire all’azienda?”. Si tratta di un cambiamento di prospettiva significativo, che riflette il principio per cui “la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo” e la dignità del lavoro deve essere garantita a tutti, anche a costo di qualche accomodamento organizzativo.
Accanto alle tutele per i lavoratori disabili in senso stretto, la Cassazione ha fornito chiarimenti importanti anche per coloro che assistono familiari con disabilità, beneficiando dei permessi della legge 104/1992. Questi permessi retribuiti (di solito tre giorni al mese) sono garantiti ai lavoratori che hanno congiunti disabili gravi, proprio per consentire loro di prestare assistenza. Un abuso di tali permessi – ad esempio usarli per fini personali e non per assistere il parente disabile – può certamente giustificare sanzioni disciplinari fino al licenziamento, perché configura un comportamento scorretto verso il datore di lavoro. Ma dove passa il confine tra uso legittimo e abuso? E fin dove può spingersi il controllo del datore sul modo in cui il lavoratore impiega quel tempo di permesso?
Su questo aspetto è intervenuta di recente la Cassazione civile, Sez. Lavoro, sent. n. 26514/2024, stabilendo un equilibrio tra le esigenze di controllo aziendale e il diritto del lavoratore-caregiver. Il caso riguardava un dipendente licenziato perché, secondo l’azienda, non avrebbe utilizzato in modo corretto alcuni giorni di permesso 104 richiesti per accudire la madre disabile. L’azienda, tramite un’agenzia investigativa, aveva monitorato l’attività del lavoratore durante le fasce orarie in cui avrebbe dovuto prestare assistenza, contestandogli di non essere stato col genitore nelle ore esatte corrispondenti al suo turno di lavoro (8:00-14:30). La Corte d’Appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento per abuso dei permessi, interpretando rigidamente l’obbligo di assistenza “contestuale” al turno.
La Cassazione, invece, ha adottato un approccio più flessibile e rispettoso sia della finalità dei permessi 104 sia della dignità del lavoratore. In sintesi, la Suprema Corte ha affermato che l’assistenza al familiare disabile non deve necessariamente svolgersi nelle stesse ore del turno di lavoro: conta che nell’arco di quei giorni di permesso il lavoratore fornisca realmente cura e supporto al congiunto disabile, anche se con orari elastici. Non spetta al datore di lavoro dettare le modalità esatte di svolgimento di tale assistenza, né pretendere che coincidano con l’orario d’ufficio, purché il diritto venga esercitato senza abuso. L’azienda può ovviamente agire se vi è un abuso palese – ad esempio il lavoratore usa il permesso per andare in vacanza o per attività del tutto estranee all’assistenza – ma non può sindacare minuziosamente come il dipendente organizza la cura del familiare.
Nel caso specifico, la Cassazione ha ritenuto che il mero fatto di non trovarsi accanto alla madre malata in ogni minuto del permesso non costituisse di per sé un abuso, specialmente se l’assistenza era comunque garantita nella giornata. Ha quindi annullato il licenziamento, rinviando la causa a una nuova valutazione: i giudici dovranno accertare se, guardando all’intera giornata, il lavoratore abbia comunque prestato una sufficiente assistenza alla madre. Se sì, il licenziamento disciplinare risulterà illegittimo. Anche qui entra in gioco la buona fede: il lavoratore deve usare il permesso per lo scopo per cui è concesso (assistere il disabile), ma ha diritto a organizzarsi con un minimo di autodeterminazione; dal canto suo, il datore può sanzionare solo comportamenti chiaramente scorretti e non fare il “grande fratello” oltre i limiti.
Questa pronuncia fornisce una guida preziosa: utilizzare i permessi 104 richiede serietà e coerenza con la loro finalità, ma chi assiste un familiare non deve vivere nel terrore di essere pedinato o filmato in ogni istante. Se l’assistenza è reale e comprovata, piccole pause o la gestione flessibile della giornata non costituiscono abuso. Ancora una volta, emerge la volontà di tutelare situazioni di fragilità (favor vulnerabilis si potrebbe dire) bilanciando diritti e doveri di entrambe le parti del rapporto di lavoro.
Le novità giurisprudenziali analizzate sopra comportano, in pratica, una serie di raccomandazioni sia per i datori di lavoro che per i lavoratori:
Per le imprese: occorre adottare un approccio proattivo e sensibile quando si ha in organico un dipendente con disabilità o che diventa inabile in corso di rapporto. Invece di considerare subito il licenziamento in caso di calo di rendimento, assenze prolungate o inidoneità alle mansioni, l’azienda deve chiedersi quali accomodamenti siano possibili. Esempi di accomodamenti ragionevoli possono essere: spostare la sede di lavoro (se il tragitto o l’ambiente attuale crea ostacoli al dipendente), modificare l’orario (magari riducendo un tempo pieno a part-time o prevedendo fasce orarie flessibili), adattare le mansioni eliminando quelle incompatibili con lo stato di salute, fornire strumenti di supporto (attrezzature ergonomiche, software speciali per ipovedenti, ecc.), fino ad arrivare allo smart working totale o parziale. Importante è anche il dialogo con il lavoratore e con il medico competente aziendale: spesso soluzioni creative possono emergere confrontandosi apertamente sulle necessità e sulle possibilità tecniche. Un datore di lavoro accorto, di fronte a una sopravvenuta disabilità di un dipendente, documenterà di aver tentato ogni soluzione attuabile – così da poter dimostrare, eventualmente in giudizio, di aver agito correttamente e aver considerato il divieto di discriminazione. Al contrario, ignorare le richieste del lavoratore o rifiutare ogni aggiustamento potrebbe esporre l’azienda a cause legali lunghe e costose, con alta probabilità di soccombere (vista la linea dura della Cassazione su questi temi). Da non dimenticare che un licenziamento dichiarato nullo per discriminazione comporta non solo la reintegrazione del dipendente, ma anche il pagamento di tutti i stipendi arretrati maturati nel frattempo: un impatto economico rilevante, senza contare il danno reputazionale. Prevenire è meglio che curare: investire un po’ di risorse per trattenere un valido dipendente in condizioni protette conviene molto di più che affrontare le conseguenze di un recesso illegittimo.
Per i lavoratori con disabilità: queste pronunce rappresentano una forte tutela, ma è bene comprendere esattamente il loro perimetro per farne buon uso. Il dipendente che si trovi in difficoltà a svolgere il lavoro a causa di problemi di salute deve informare tempestivamente l’azienda delle proprie condizioni e, se possibile, suggerire quali misure potrebbero aiutarlo. Ad esempio, se gli spostamenti diventano gravosi, chiedere per iscritto l’assegnazione a una sede più vicina o il telelavoro; se alcune mansioni non sono più fattibili, segnalare la disponibilità a svolgerne altre compatibili. Questa comunicazione è fondamentale sia per attivare un dialogo costruttivo, sia in vista di un eventuale contenzioso: sarà più facile dimostrare la discriminazione se si prova di aver chiesto un accomodamento ragionevole che è stato negato senza valide motivazioni. Inoltre, i lavoratori devono essere consapevoli che le tutele anti-discriminatorie non significano “posto garantito a vita” indipendentemente da qualsiasi circostanza. La legge e i giudici richiedono sì sforzi straordinari al datore di lavoro, ma entro limiti di ragionevolezza. Ad esempio, se una mansione è divenuta totalmente incompatibile e non esiste nessuna alternativa praticabile in azienda, oppure se l’unica soluzione sarebbe un sacrificio economico o organizzativo sproporzionato, il licenziamento potrà comunque avvenire. La giurisprudenza tutela il diritto al lavoro del disabile “fintanto che” esistano modalità per valorizzare la sua capacità residua senza eccessivo aggravio per l’impresa. In sintesi, il lavoratore deve sì rivendicare i propri diritti (anche con l’ausilio di un legale, se necessario), ma mantenendo quella collaborazione e buona fede che restano elementi cardine del rapporto lavorativo.
Per i colleghi e l’ambiente di lavoro: va ricordato infine che l’inclusione del lavoratore con disabilità non è solo un fatto giuridico, ma anche umano ed aziendale. Un ambiente di lavoro sensibilizzato e formato sul tema della disabilità favorisce l’attuazione concreta degli accomodamenti. I colleghi dovrebbero essere coinvolti – per quanto possibile – nei piani di reinserimento, ad esempio attraverso una redistribuzione dei compiti o semplicemente offrendo collaborazione e supporto. La cultura aziendale gioca un ruolo enorme: un conto è un contesto dove il lavoratore fragile viene percepito come un “peso” e isolato (terreno fertile per mobbing o conflitti), altro è un team in cui prevale la solidarietà e la valorizzazione delle diversità. Investire in formazione e politiche inclusive non solo aiuta a prevenire problemi legali, ma accresce la coesione e la produttività del gruppo. Del resto, come affermano i saggi, “il valore di una società si misura da come tratta i suoi membri più deboli”. Un’azienda capace di fare questo salto di qualità dimostra lungimiranza e responsabilità sociale, qualità che oggi anche il mercato e i consumatori apprezzano.
In conclusione, le recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali delineano un rafforzamento delle tutele per le persone con disabilità nel mondo del lavoro. Dai divieti di licenziamento senza prima aver tentato accomodamenti, alla gestione più umana e flessibile dei permessi per assistere familiari, il sistema giuslavoristico italiano sta cercando di colmare il divario tra principio di uguaglianza formale e realtà sostanziale. Molto resta ancora affidato alla sensibilità dei singoli datori di lavoro e alla capacità dei lavoratori di far valere i propri diritti, ma il segnale lanciato dalla Cassazione è chiaro: non sono più ammesse scorciatoie che sacrificano i più deboli sull’altare delle rigide esigenze aziendali. L’orientamento è quello di un diritto del lavoro realmente inclusivo, in cui la diversità (fisica, sensoriale o psichica) non è causa di emarginazione ma viene gestita attraverso strumenti di accomodamento, con beneficio per l’intera collettività lavorativa.
Come sempre, ogni caso concreto farà storia a sé e andrà valutato nella sua specificità – in medio stat virtus. Ma il principio generale è ormai scolpito: la dignità della persona con disabilità, anche nell’ambito lavorativo, va preservata e promossa con ogni mezzo ragionevole. In un’epoca in cui si parla tanto di inclusione, la giustizia del lavoro sta fornendo gli strumenti per passare dalle parole ai fatti. Le aziende sono avvisate, i lavoratori anche: c’è un “nuovo normale” da costruire insieme, fatto di dialogo, adattamento e rispetto reciproco.
“Fiat iustitia ruat caelum” (sia fatta giustizia anche se crolla il cielo) recita un motto famoso: auspichiamo che non occorra far crollare nulla, ma sicuramente un po’ di barriere – fisiche e mentali – dovranno cadere perché questo cambio di paradigma diventi realtà quotidiana nei luoghi di lavoro.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.