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Incidenti stradali: nuove regole e criteri sul danno biologico - Studio Legale MP - Verona

Le sentenze più recenti rivoluzionano il risarcimento delle lesioni da sinistro stradale, tra personalizzazione del danno, limiti al danno morale e tutela delle vittime più gravi

 

Personalizzazione del danno biologico: un risarcimento “su misura”

Una delle novità più rilevanti è il tema della personalizzazione del risarcimento del danno biologico. In termini semplici, personalizzare significa aumentare l’importo del risarcimento standard previsto dalle tabelle, per tenere conto di sofferenze o ripercussioni particolari che vanno oltre il caso comune. La Cassazione ha chiarito che questo è possibile solo in situazioni davvero eccezionali: occorre provare che le conseguenze patite dalla vittima siano diverse e più gravi rispetto a quelle che una persona “tipica” subirebbe in circostanze analoghe. Non basta dunque la gravità dell’invalidità in sé – già valutata dalle tabelle – ma servono elementi ulteriori, specifici del caso concreto.

Un esempio illuminante proviene dalla Cassazione civile, Sez. III, ord. 6/11/2024, n. 28526, che ha esaminato il caso di un ciclista professionista, investito da un autocarro e rimasto gravemente ferito. L’atleta aveva già ottenuto in appello un risarcimento secondo le tabelle standard (oltre 42.000 euro per una menomazione permanente significativa), ma chiedeva di più, ritenendo che le sue sofferenze fossero state particolari. La Suprema Corte ha confermato che si può andare oltre le tabelle – cioè personalizzare l’importo – soltanto se vi è prova concreta di pregiudizi aggiuntivi: ad esempio, se l’infortunio ha compromesso aspetti unici della vita della vittima (una promettente carriera sportiva, un progetto di vita specifico, un particolare equilibrio psicologico) in modo più marcato di quanto accadrebbe di norma. In assenza di questa prova rigorosa, il giudice deve attenersi ai valori tabellari, che già compensano le conseguenze comuni di quella lesione. In altri termini, tutte le lesioni di un certo tipo comportano sofferenze “standard” – dolore fisico, limitazioni funzionali, stress – e per queste c’è la tabella; solo se emergono effetti peculiari (ad esempio la perdita di un hobby identitario, un grave sconvolgimento delle abitudini quotidiane specifiche di quella persona) si giustifica un surplus di risarcimento. La ratio è evitare arbitri e disparità: il risarcimento deve restare ancorato a criteri oggettivi, salvo adeguarlo eccezionalmente al caso umano particolare quando la situazione lo richiede.

Questo orientamento mostra un bilanciamento sottile tra equità e certezza del diritto. Da un lato, si riconosce che la sofferenza umana non è fatta con lo stampino e non sempre può essere racchiusa in valori tabellari; dall’altro, si vuole evitare che ogni vittima reclami importi maggiori senza basi solide. “Troppi giudici sono come quei medici che preferiscono lasciar morire il paziente secondo le regole, piuttosto che salvarlo contro le regole”, avvertiva Piero Calamandrei: in questa frase paradossale c’è la critica al formalismo cieco. La Cassazione, con le sue recenti pronunce, sembra aver fatto tesoro di tale monito, invitando i giudici a non applicare le regole risarcitorie in modo meccanico quando ciò condurrebbe a un’ingiustizia nel caso concreto. Allo stesso tempo, vigilat ut quies – siate vigili affinché vi sia equilibrio: la personalizzazione non va banalizzata, ma riservata ai casi davvero meritevoli, per non tradire la parità di trattamento tra danneggiati.

 

Lesioni lievi: il danno morale è già compreso?

Un secondo filone importante riguarda le lesioni di lieve entità, le cosiddette micropermanenti (invalidità fino al 9%). In questi casi, disciplinati dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, la legge prevede che il danno biologico permanente sia quantificato in base a una tabella nazionale e consente al giudice di aumentare l’importo fino a un massimo del 20% per tenere conto delle circostanze specifiche (questa è una forma di “personalizzazione standard” prevista per i piccoli danni). Spesso in passato ci si chiedeva se, oltre a questo, la vittima potesse ottenere ulteriori somme a titolo di danno morale (cioè la sofferenza interiore, il turbamento d’animo). Molti speravano di sì, sostenendo che la componente morale fosse qualcosa di distinto e aggiuntivo rispetto al danno biologico. La giurisprudenza più recente, però, ha assunto un atteggiamento molto rigoroso: nelle lesioni lievi, di regola il danno morale è già assorbito nell’indennizzo base + 20%.

In particolare, la Cassazione civile, Sez. III, ord. 20/05/2025, n. 13383 ha affrontato un caso emblematico. Un paziente subiva un piccolo danno permanente (inferiore al 10%) a causa di un errore medico post-operatorio; il tribunale aveva liquidato il danno biologico con una maggiorazione del 25% e aggiunto un’ulteriore somma per il danno morale. In appello, la personalizzazione era stata ridotta al 20% (il massimo consentito per legge nelle micropermanenti) ed era stato eliminato il separato risarcimento del danno morale. Arrivati in Cassazione, i giudici hanno dato ragione alla Corte d’appello, cogliendo l’occasione per ribadire un principio generale: il risarcimento del danno non patrimoniale deve essere unitario e omnicomprensivo, per evitare duplicazioni. In particolare, quando si tratta di lesioni lievi, si presume che la sofferenza soggettiva (danno morale) sia già compensata dalla personalizzazione massima del 20% applicata al danno biologico. Riconoscere anche un’ulteriore somma per il dolore morale rischierebbe di pagare due volte la stessa voce, a meno che – attenzione – non vi sia una prova rigorosissima di qualcosa in più.

Cosa significa in concreto? Significa che se ad esempio una persona subisce un colpo di frusta con un lieve mal di collo guarito in poche settimane, il risarcimento comprenderà il danno biologico base (magari pochi punti percentuali di invalidità) e può arrivare fino al +20% se quella persona, poniamo, ha avuto qualche particolare fastidio in più (es. ha dovuto rinunciare a uno sport per qualche mese, ha avuto un forte spavento iniziale, ecc.). Ma, salvo casi eccezionali, non potrà cumulare anche una somma autonoma per “lo spavento” o per il “dolore” in sé: si considera che questi aspetti soggettivi siano già inclusi in quel +20%. Solo qualora la vittima dimostri in modo dettagliato e con elementi oggettivi di aver patito un pregiudizio ulteriore e distinto – ad esempio un serio disturbo emotivo prolungato, un trauma psicologico documentato – allora il giudice potrebbe aggiungere qualcosa per il danno morale. In assenza di tale prova puntuale, nec duplicanda indemnitas: il risarcimento non si doppia.

Questa linea di pensiero, già affermata da pronunce precedenti (Cass. n. 5547/2024 e altre), mira a contenere prassi ridondanti e a uniformare i criteri. Del resto, un eccesso di generosità indiscriminata rischierebbe di tradursi in costi sociali (polizze più care) e contenziosi infiniti. “Summum ius, summa iniuria” – il massimo del diritto (applicato senza buon senso) può diventare la massima ingiustizia: potremmo dire che, in un’ottica di sistema, attribuire sempre un ulteriore importo per il danno morale nelle micro-lesioni finirebbe per penalizzare tutti (anche le vittime più gravi) con costi maggiori e assicurazioni più reticenti a risarcire. Meglio riservare gli indennizzi extra ai soli casi ben giustificati.

 

Gravi invalidità: nessuno sconto sulla vita ridotta

All’estremo opposto, la Cassazione ha posto paletti a tutela delle vittime di danni catastrofici o invalidità gravissime. Una domanda che è emersa in alcuni casi è la seguente: se le lesioni subite da una persona sono così gravi da accorciarne l’aspettativa di vita, il risarcimento del danno biologico andrebbe ridotto proporzionalmente ai minori anni di vita che restano alla vittima? Detta così, suona cinica, ma era una tesi affacciatasi talvolta nei tribunali: poiché le tabelle liquidano un importo in teoria commisurato anche alla durata presumibile della vita post-lesione, se quella durata si riduce drasticamente per cause legate all’incidente, qualcuno ipotizzava di limitare il risarcimento (in fondo, si diceva, la vittima vivrà meno anni con la sua invalidità). Ebbene, la Cassazione civile, Sez. III, sent. 09/12/2024, n. 31684 ha chiarito che questo ragionamento è giuridicamente ed eticamente inaccettabile.

Nel caso esaminato, una persona aveva riportato lesioni talmente gravi da compromettere la funzionalità di organi vitali, riducendo la sua prospettiva di vita. I giudici di merito avevano liquidato il danno biologico permanente secondo i valori tabellari usuali per quel grado di invalidità, senza decurtarli in base alla vita attesa più breve. La compagnia assicurativa contestava questa scelta, sostenendo che “se Tizio vivrà solo la metà degli anni rispetto al normale, allora quei soldi valgono di più per lui e bisognerebbe dargliene meno”. La Cassazione ha respinto con forza questa tesi, sancendo il principio che nel liquidare il danno biologico per macrolesioni non si deve tener conto della ridotta aspettativa di vita causata dalle lesioni stesse. In altre parole, se un grave trauma compromette la salute al punto da anticipare la morte della vittima, ciò non può costituire un “vantaggio” per il responsabile ai fini di pagare meno. Anzi, suona quasi grottesco pensare di fare uno sconto a chi ha causato un danno così devastante!

La logica sottesa è duplice: da un lato, il risarcimento del danno biologico mira a compensare la perdita della salute e della qualità della vita fino a quel momento, che è già interamente subita dalla vittima nel momento in cui la menomazione si verifica – indipendentemente da quanti anni le restino. Dall’altro lato, riconoscere meno soldi a chi avrà un’esistenza più breve significherebbe introdurre una disparità crudele tra vittime: paradossalmente, chi è colpito più duramente (tanto da morire prima) verrebbe risarcito meno di chi, con un danno simile, sopravvive più a lungo. Un esito assurdo e contrario ai principi di equità. Giustamente, dunque, la giurisprudenza ha tracciato una linea rossa: il torto grave non può diventare un vantaggio per il tortfeasor (chi commette il fatto illecito). Su questa scia si pone anche la negazione di una tesi ancor più estrema, quella del cosiddetto “danno da perdita della vita” (danno tanatologico): la Cassazione da tempo esclude che si possa riconoscere un risarcimento autonomo per il valore della vita in sé al di fuori dei casi di breve sopravvivenza cosciente (il risarcimento, in caso di decesso, spetta ai familiari per la perdita subita, ma non si calcola un importo alla vittima per il fatto di essere morta, essendo venuto meno il soggetto stesso). Anche su questo fronte, il biennio considerato non ha registrato revirement: al centro resta la persona viva e la sua sofferenza qui e ora, da risarcire integralmente senza decurtazioni d’ufficio legate a statistiche sulla sopravvivenza. La giustizia civile risarcitoria, insomma, respinge qualsiasi approccio ragionieristico quando si tratta di danni alla persona: la dignità della vittima impone che ogni anno di vita menomata – fosse anche uno soltanto – sia compensato secondo il suo valore, fere libenter homines id quod volunt credunt (gli uomini credono vero ciò che desiderano, diceva Giulio Cesare; e certo un assicuratore vorrebbe credere che meno anni = meno danni, ma la legge non lo permette).

 

Prova e documentazione: il referto medico “fa piena prova”

Un aspetto spesso trascurato, ma di fondamentale importanza pratica, riguarda le prove necessarie per ottenere il risarcimento. Non basta infatti aver subito un danno: occorre dimostrarlo in giudizio con idonea documentazione. Ecco perché una recente pronuncia della Cassazione merita attenzione: ha stabilito che il referto del pronto soccorso di un ospedale pubblico ha valore di atto pubblico e fa piena prova, fino a querela di falso, di quanto in esso attestato (Cass. civ., Sez. III, ord. 19/12/2024, n. 33299). In parole semplici, se dopo un incidente stradale la vittima si reca al Pronto Soccorso e viene redatto un referto medico che descrive lesioni e traumi riportati, quel documento costituisce una prova forte e vincolante del fatto che la persona ha subito quelle lesioni in quell’occasione. L’assicurazione che volesse contestare la realtà o l’entità delle lesioni dovrebbe addirittura esperire una querela di falso (procedimento formale e complesso) per mettere in dubbio il referto.

Questa affermazione ha implicazioni pratiche importanti: spesso, infatti, le compagnie obiettano sull’origine o sull’entità del danno lamentato, specie quando trascorre del tempo dall’incidente alla diagnosi. Sapere che una certificazione medica rilasciata da un ente pubblico fa fede privilegiata tutela il danneggiato, ponendolo al riparo da contestazioni pretestuose. Ovviamente ciò vale per gli aspetti oggettivi attestati nel referto (es.: “frattura scomposta omero dx”, “trauma cervicale”, ecc.), mentre valutazioni soggettive o giudizi prognostici rimangono opinabili. Ma il messaggio della Cassazione è chiaro: presentarsi subito a un presidio medico dopo l’incidente e farsi rilasciare un dettagliato referto è una mossa fondamentale per cristallizzare le prove del danno. In un eventuale processo, quel pezzo di carta avrà un peso quasi incontestabile, rendendo molto più agevole ottenere giustizia. Del resto, verba volant, scripta manent: le parole dette possono volare via, ma ciò che è scritto rimane – e nel risarcimento delle lesioni, ciò che rimane scritto in una cartella clinica può fare la differenza tra il successo e l’insuccesso della domanda risarcitoria.

Il passeggero consenziente e il principio di auto-responsabilità

Un’ulteriore novità giurisprudenziale, che tocca il tema della responsabilità e quindi indirettamente l’entità del risarcimento dovuto, riguarda il caso del terzo trasportato consapevole del rischio. Immaginiamo la situazione: un passeggero sale volontariamente in auto con un conducente che sa essere ubriaco fradicio; purtroppo avviene un incidente e il passeggero subisce gravi lesioni. Ha diritto al risarcimento pieno oppure la sua imprudenza nel mettersi in quella situazione pericolosa gli si ritorcerà contro? Su questa domanda è intervenuta la Cassazione civile, Sez. III, sent. n. 21896/2025, affermando principi importanti di concorso di colpa del danneggiato.

In base all’art. 1227 c.c., se il danneggiato ha colpa anche lui nel causare il danno, il risarcimento deve essere ridotto in proporzione. La Corte ha richiamato anche una direttiva europea (Dir. 2009/103/CE) che vieta di escludere del tutto la copertura assicurativa al passeggero consenziente, ma consente comunque di valutare caso per caso la sua responsabilità. Nel caso concreto, la vittima era deceduta nel sinistro e i suoi familiari chiedevano i danni; i giudici di merito avevano ritenuto il passeggero responsabile al 30% per aver accettato incautamente il passaggio con un ubriaco, e quindi avevano ridotto i risarcimenti di conseguenza (senza però azzerarli, proprio in ossequio al divieto europeo di esclusione totale). La Cassazione ha confermato questo approccio: non esiste una regola assoluta per cui chi sale con un autista ubriaco perde automaticamente una quota fissa di risarcimento, men che meno l’intero. Occorre valutare in concreto se il passeggero era conscio dello stato di ebbrezza e in quale misura questa scelta abbia contribuito al verificarsi del danno. È compito del giudice stabilire la percentuale di concorso di colpa caso per caso – 30%, 50%, 10%, dipende dalle circostanze.

Tuttavia, il principio generale è delineato: chi volontariamente si espone a un rischio noto non può pretendere l’integralità del risarcimento come se nulla fosse. Nel nostro esempio, è come se la vittima avesse giocato col fuoco: pur restando una vittima (perché l’incidente l’ha causato materialmente il conducente ubriaco), ha accettato una situazione di pericolo grave, divenendone in parte artefice del proprio destino. Volenti non fit iniuria, recita un antico brocardo latino: a chi acconsente non viene fatta ingiustizia. La sua origine risale al diritto romano, ma il concetto continua a vivere nel diritto moderno: se ti sei messo consapevolmente in una condizione di pericolo, non puoi poi lamentarti del tutto delle conseguenze. Chiaramente questo non significa che il passeggero consenziente resti senza tutela: come detto, la legge (e la Cassazione con essa) escludono ogni automatismo punitivo. Va sempre verificato se davvero egli fosse pienamente consapevole del rischio – ad esempio, non basta che il tasso alcolemico del guidatore fosse alto, bisogna anche chiedersi se il passeggero potesse ragionevolmente accorgersene. E soprattutto, non si può mai negare in radice il risarcimento: il minimo che gli spetta è la quota imputabile all’altro conducente responsabile dell’incidente. Però un taglio proporzionale è giusto che avvenga, sia per ragioni di giustizia (ognuno si assuma le conseguenze della propria leggerezza) sia di prevenzione (un monito a non salire con conducenti irresponsabili). Anche questo orientamento, in definitiva, contribuisce a personalizzare il diritto dei sinistri: non più formule fisse per tutti, ma considerazione delle situazioni specifiche e dei comportamenti di ciascuno.

 

Conclusioni

Dal panorama tracciato emerge chiaramente un diritto dei risarcimenti in evoluzione, più fine nel calibrare le risposte ai casi concreti. Le tabelle risarcitorie restano un riferimento centrale – garantiscono omogeneità e prevedibilità – ma la Cassazione ci ricorda che non sono un feticcio intoccabile: vanno integrate, se necessario, con gli strumenti dell’equità e della personalizzazione, senza però stravolgerle. Allo stesso modo, concetti tradizionali come il danno morale, il concorso di colpa o la prova del danno vengono riletti alla luce di principi di ragionevolezza e di tutela effettiva della vittima, ma bilanciando il tutto con la tenuta del sistema. In questo equilibrio delicato, chi subisce un incidente può sentirsi meno solo: la giurisprudenza offre linee-guida più chiare per ottenere il giusto ristoro.

Naturalmente, muoversi in questo ambito tecnico non è semplice per i non addetti ai lavori. Ecco perché, di fronte a lesioni da sinistro stradale, affidarsi a un legale esperto in infortunistica diventa fondamentale. Uno studio legale competente saprà valutare sin dall’inizio quali aspetti del tuo caso possono giustificare una personalizzazione del danno, come dimostrare al meglio le tue sofferenze (anche morali) e come affrontare eventuali contestazioni dell’assicurazione. Lo Studio Legale MP di Verona, forte di un’esperienza consolidata nel settore degli incidenti stradali e del risarcimento danni alla persona, è a tua disposizione per tutelare i tuoi diritti. Contattaci senza impegno: valuteremo insieme la tua situazione e ti aiuteremo a ottenere il risarcimento più adeguato, perché ogni vittima merita giustizia e rispetto per la propria sofferenza.

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  • 03 ottobre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.