Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator
Studio Legale MP - Verona logo
Diritto scolastico: novità e strumenti di tutela per famiglie e studenti - Studio Legale MP - Verona

Il diritto scolastico rappresenta quell’insieme di norme civili e amministrative che regolano la vita della scuola e i rapporti tra istituti, studenti e famiglie. La scuola è il luogo deputato alla formazione dei cittadini e alla crescita dei più giovani, garantita dalla Costituzione come diritto fondamentale (art. 34 Cost.). Non a caso, sin dai tempi antichi si è compresa l’importanza dell’istruzione: “Non scholae sed vitae discimus” – non impariamo per la scuola ma per la vita – ammoniva Seneca, sottolineando come l’educazione debba servire al pieno sviluppo della persona. In ambito legale, però, possono sorgere controversie: infortuni durante le attività scolastiche, episodi di bullismo, provvedimenti disciplinari, bocciature ritenute ingiuste, fino ai conflitti tra genitori su scelte educative. In queste situazioni è fondamentale conoscere quali tutele offre l’ordinamento e quali recenti orientamenti giurisprudenziali si sono affermati negli ultimi anni (indicativamente 2023-2025) in Italia. L’obiettivo è garantire la piena attuazione del diritto allo studio e la sicurezza dei minori, evitando che disfunzioni o illeciti rimangano privi di risposta. Di seguito esamineremo, per temi, le principali novità e strumenti di tutela in materia di diritto scolastico, in un’ottica tecnico-giuridica ma rivolta a famiglie e genitori.

 

Diritto allo studio, obbligo scolastico e istruzione parentale

Il diritto all’istruzione è garantito a tutti e corrisponde a un preciso dovere per i genitori: “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli” recita l’art. 30 Cost. La legge italiana prevede l’obbligo scolastico (oggi almeno 10 anni di istruzione obbligatoria), ma ciò non implica necessariamente la frequenza di una scuola statale o paritaria. Infatti, il nostro ordinamento consente ai genitori di assolvere l’obbligo di istruzione anche direttamente, attraverso l’istruzione parentale (detta anche “home schooling” o scuola familiare). Proprio di recente la Corte di Cassazione ha ribadito la piena legittimità di questa scelta educativa: i genitori possono provvedere in prima persona all’istruzione dei figli, purché nel rispetto di determinate regole e controlli pubblici. In particolare, devono dichiarare ogni anno al dirigente scolastico di possedere le capacità tecniche o economiche per istruire i figli in casa; inoltre i figli devono sostenere un esame annuale di idoneità presso una scuola statale o paritaria, così da verificare il livello di apprendimento. In tal modo l’ordinamento bilancia la libertà di educazione della famiglia con la tutela del diritto allo studio del minore: l’istruzione parentale, come affermato dagli “ermellini” (la Suprema Corte), «costituisce un modo con il quale il diritto-dovere all’istruzione dei figli […] si esplica, sia pure nel rispetto di determinate regole e sotto il controllo delle autorità a ciò deputate».

Va sottolineato che la scelta di istruire i figli a casa non può di per sé essere considerata pregiudizievole o sospetta. Recenti vicende giudiziarie hanno chiarito che non è lecito imporre indebite ingerenze alle famiglie homeschooler in assenza di concreti segnali di trascuratezza. In un caso del 2023, ad esempio, i servizi sociali erano stati incaricati di “monitorare” una famiglia che aveva ritirato la figlia dalla scuola tradizionale, nonostante la Corte d’Appello avesse già riconosciuto la liceità dell’istruzione parentale. La Cassazione ha ritenuto illegittimo continuare a gravare la famiglia di tale vigilanza ulteriore, proprio perché – una volta accertato che i genitori stavano adempiendo correttamente al dovere di istruzione – non vi era alcuna situazione di pregiudizio da scongiurare. In altre parole, l’intervento dell’autorità minorile (Tribunale per i Minorenni) è giustificato solo se l’istruzione in casa maschera inadempimenti gravi o negligenze genitoriali: se invece i genitori seguono le regole (esami annuali, programmi adeguati ecc.), la loro scelta va rispettata senza indebiti allarmismi. Questo principio è importante per tutte le famiglie che valutano strade educative alternative: lo Stato riconosce e tutela la libertà educativa parentale, fermo restando il dovere di assicurare ai minori una formazione adeguata e di intervenire solo in caso di reale abbandono educativo.

 

Sicurezza a scuola e responsabilità civile: infortuni e vigilanza dei docenti

Quando affidiamo i nostri figli alla scuola, ci aspettiamo che essi si trovino in un ambiente sicuro e sotto attenta sorveglianza. Incidenti e infortuni a scuola purtroppo possono capitare (cadute durante l’educazione fisica, contusioni in gita, ecc.), ma dal punto di vista giuridico occorre stabilire in quali casi la scuola – o meglio l’amministrazione scolastica – sia tenuta a risarcire i danni subiti dall’alunno. In termini legali, si parla della responsabilità civile della scuola e dei docenti per omessa vigilanza (la cosiddetta “culpa in vigilando”). Su questo fronte la giurisprudenza recente ha consolidato un orientamento preciso: la responsabilità dell’istituto scolastico verso gli allievi ha natura contrattuale. Ciò significa che, iscrivendo il figlio a scuola, si instaura un vincolo giuridico assimilabile a un contratto di protezione, da cui deriva l’obbligo per la scuola di prevenire eventi lesivi garantendo sorveglianza e sicurezza. In caso di incidente, dunque, opera il principio contrattuale per cui il debitore (scuola) è tenuto a provare di aver adempiuto diligentemente ai propri obblighi, oppure che l’evento dannoso è dipeso da causa imprevedibile e inevitabile non imputabile alla sua sfera. La Cassazione, con sentenza n. 2114/2024, ha chiarito espressamente questo punto: «la natura contrattuale della responsabilità dell’istituto scolastico per i danni cagionati dall’alunno a se stesso comporta che sul [medesimo] istituto gravi l’onere di dimostrare il corretto adempimento della propria obbligazione di sorveglianza […] ferma restando la necessità, per l’attore, di fornire la prova del nesso causale tra l’inadempimento e l’evento di danno». In pratica, se un bambino si ferisce durante l’orario scolastico, i genitori dovranno provare che il danno è occorso a scuola e in connessione con una carenza di vigilanza (nesso causale tra condotta omissiva dei docenti e lesione); una volta dimostrato ciò, spetterà alla scuola l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il fatto oppure che esso si sarebbe verificato comunque per una causa di forza maggiore imprevedibile.

Questo regime di responsabilità – più favorevole al danneggiato rispetto alla normale responsabilità aquiliana extra-contrattuale – trova fondamento negli artt. 1218 e 2048 c.c., e tiene conto della “tipicità sociale” delle situazioni scolastiche. Gli insegnanti operano infatti in loco parentis, ovvero esercitano una funzione vicaria di custodia e tutela dei minori durante l’orario scolastico. Ne consegue un dovere di vigilanza attiva: non basta supervisionare passivamente, ma occorre prevenire con diligenza pericoli e comportamenti imprudenti compatibili con l’età e il grado di maturazione degli allievi. Ad esempio, se durante una lezione di ginnastica un alunno si fa male seriamente, oppure se in classe scoppia una colluttazione tra ragazzi e qualcuno si procura lesioni, la scuola potrebbe risponderne qualora sia emersa una negligenza (assenza o insufficienza di sorveglianza, mancata predisposizione di misure di sicurezza, ecc.). La Cassazione ha più volte affrontato casi concreti: con una pronuncia del 2023, ad esempio, ha escluso il risarcimento in favore di una studentessa caduta durante una gita sulla neve, poiché la causa esatta dell’incidente era rimasta ignota e la semplice circostanza che il fatto sia avvenuto in orario scolastico non bastava – da sola – a provare la colpa dei docenti. In quell’occasione la Suprema Corte (sent. n. 5118/2023) ha ribadito che lo studente infortunato non può limitarsi a invocare l’evento in sé, ma deve dimostrare anche come l’inerzia o imprudenza dei sorveglianti abbia causato la lesione. Solo dopo che questa prova (anche presuntiva) sia stata fornita, scatta – per la scuola – l’onere di provare l’assenza di colpa, ad esempio dimostrando che l’evento è dipeso da un fattore imprevedibile e inevitabile, tale da configurare caso fortuito.

In sintesi, quando un alunno si fa male a scuola, l’istituto può andare esente da responsabilità solo se prova di aver adottato tutte le cautele esigibili in relazione al caso concreto (ad esempio adeguata sorveglianza numerica e qualitativa, strutture a norma, prevenzione di situazioni pericolose) oppure se l’evento è dovuto a una causa esterna non imputabile. Viceversa, se emergono omissioni o imprudenze del personale scolastico, la famiglia potrà ottenere il risarcimento dei danni subiti dal minore (danno biologico per le lesioni fisiche, ed eventualmente danno morale o esistenziale per le sofferenze patite). In queste cause trova applicazione il termine di prescrizione ordinario decennale (data la natura contrattuale). È bene ricordare che la responsabilità per culpa in vigilando abbraccia anche i danni cagionati dall’alunno ad altri: l’art. 2048 c.c. prevede espressamente che i precettori e insegnanti sono responsabili dei danni arrecati a terzi dai loro allievi nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza, salvo prova di non aver potuto evitare il fatto. Si pensi al caso di un bambino che, durante la ricreazione, provochi lesioni a un compagno spingendolo per gioco: in tali situazioni, oltre alla responsabilità diretta del minore (comunque limitata dalla sua capacità di intendere e volere), risponde in solido l’istituto scolastico per omesso controllo. Anche qui vige la presunzione di colpa in capo alla scuola, superabile solo con la prova diligente liberatoria richiesta. La soglia di attenzione richiesta ai docenti è quindi molto alta, proporzionata alla naturale vivacità e imprevedibilità del comportamento dei ragazzi. Come ha osservato di recente un giudice, “la scuola non è tenuta a garantire l’assenza di ogni rischio, ma certamente è tenuta a predisporre tutte le misure ragionevoli affinché l’ambiente di apprendimento sia sicuro e protetto, come i genitori possono legittimamente aspettarsi”. Del resto, il concetto di vigilanza scolastica non va inteso in senso meramente fisico: esso include anche la predisposizione di un clima educativo sereno, la prevenzione di condotte violente o pericolose e l’educazione degli studenti al rispetto delle regole di sicurezza.

 

Bullismo e tutela delle vittime: responsabilità della scuola e sanzioni ai colpevoli

Un capitolo sempre più delicato del diritto scolastico riguarda i fenomeni di bullismo e cyberbullismo tra i banchi. Gli episodi di prevaricazione tra pari – purtroppo frequenti nelle cronache – possono avere conseguenze gravissime sulla salute psico-fisica dei minori vittime, generando ansia, depressione, isolamento e persino abbandono scolastico. La scuola ha il dovere giuridico (oltre che morale) di attivarsi per prevenire e contrastare il bullismo: esistono linee guida ministeriali e la legge n. 71/2017 sul cyberbullismo che incoraggiano programmi di educazione alla legalità, la figura del docente referente, codici di condotta e così via. Ma cosa accade se, nonostante tutto, un alunno subisce atti di bullismo reiterati all’interno di un istituto? Quali sono le responsabilità e i rimedi legali per proteggere la vittima e sanzionare i colpevoli?

Da un lato, vi sono responsabilità individuali in sede penale e civile a carico dei bulli (e dei loro genitori, se minorenni); dall’altro, si profila anche la possibile responsabilità dell’istituto scolastico per non aver impedito fatti lesivi noti. Cominciando dai singoli autori: le prepotenze gravi (percosse, lesioni, minacce, ingiurie, stalking) costituiscono veri e propri reati. In un caso recente e agghiacciante, un bullo quindicenne era arrivato a spegnere una sigaretta sul dorso della mano di un compagno affetto da autismo, dopo averlo ripetutamente umiliato e derubato dei soldi di merenda. Ebbene, la Cassazione penale ha definitivamente condannato questo studente, riconoscendolo colpevole di lesioni volontarie aggravate e imponendogli anche il risarcimento dei danni in favore della giovane vittima disabile. Nella sentenza n. 12501/2023 (Sez. V Penale), la Suprema Corte ha confermato la linea dura contro simili condotte: il persecutore, spalleggiato da un complice, aveva approfittato della particolare vulnerabilità del compagno autistico, causando in lui un «perdurante stato d’ansia e di paura» e perfino ferite fisiche documentate (ustioni sulla mano). I giudici hanno respinto sdegnati il tentativo della difesa di sminuire la credibilità del ragazzo autistico – quasi che la sua patologia lo rendesse inattendibile – rilevando anzi che, dati i disturbi dello spettro autistico, il minore non aveva la capacità di inventare accuse così circostanziate. Questa pronuncia esemplare ha sancito non solo la punizione penale del bullo, ma anche il diritto al risarcimento per la vittima: un segnale importante, volto a ribadire che la violenza e la vessazione verso i più deboli «non possono e non devono trovare cittadinanza nelle scuole».

Oltre alle azioni penali contro i responsabili, le famiglie delle vittime possono intraprendere azioni civili di risarcimento danni, eventualmente anche nei confronti della scuola. Infatti, se il personale scolastico era a conoscenza degli atti di bullismo e non ha adottato misure adeguate per prevenirli o interromperli, l’istituto potrebbe essere chiamato a rispondere per omessa vigilanza, ai sensi dell’art. 2048 c.c. (in concorso con la responsabilità diretta del bullo e dei suoi genitori). Una vicenda emblematica giunta di recente all’onore delle cronache riguarda una ex studentessa di Pescara, tormentata a 12 anni dai continui insulti di un compagno di classe. All’epoca, l’unico intervento della scuola era stato sospendere il bullo per una settimana, provvedimento rivelatosi del tutto insufficiente: la ragazzina, traumatizzata, arrivò a perdere 20 chili, cambiò scuola e dovette ripetere l’anno scolastico. Anni dopo, la famiglia ha citato in giudizio l’istituto per non aver protetto la figlia, ottenendo giustizia: la Corte d’Appello dell’Aquila (sentenza 2024) ha condannato la scuola a pagare 60.000 euro di risarcimento, giudicando che la scuola “non aveva agito con la necessaria serietà per neutralizzare il bullo sin dai primi episodi”. In particolare, i giudici hanno rilevato che limitarsi a una breve sospensione disciplinare non era una risposta adeguata a fermare il clima vessatorio in classe. Questa decisione lancia un messaggio chiaro agli istituti: di bullismo a scuola si può rispondere in tribunale, e la scuola può essere ritenuta corresponsabile se non interviene con la dovuta prontezza e fermezza a tutela dell’alunno vittima.

Dal punto di vista disciplinare interno, le scuole dispongono di strumenti per sanzionare i comportamenti violenti o gravemente scorretti degli studenti, in un’ottica educativa. Il Regolamento d’istituto e lo Statuto delle studentesse e degli studenti (D.P.R. 249/1998) prevedono misure come l’ammonimento, i lavori utili, la sospensione temporanea dalle lezioni e, nei casi più seri, l’esclusione dallo scrutinio finale o dagli esami. Una questione dibattuta era se fosse lecito, ad esempio, escludere un alunno da una gita scolastica come sanzione per atti di bullismo. La risposta è arrivata da una pronuncia del TAR Veneto piuttosto recente: sì, l’esclusione dalla gita è legittima e non viola alcun “diritto allo svago” dello studente, purché tale provvedimento sia previsto dal regolamento scolastico e persegua finalità educative proporzionate. Nel caso di specie (T.A.R. Veneto – Venezia, Sez. IV, sentenza n. 353/2025), uno studente di scuola media, dopo un grave episodio di violenza verso un compagno disabile, era stato sanzionato dal consiglio di classe con 15 giorni di sospensione dalle lezioni, la non ammissione al viaggio di istruzione di fine anno e la revoca temporanea del permesso di uscita autonoma da scuola. I genitori avevano impugnato tali sanzioni davanti al giudice amministrativo, sostenendo violazioni procedurali e l’eccesso delle misure. Ebbene, il TAR ha dato loro torto quasi su tutta la linea: ha infatti confermato la legittimità sia della sospensione che dell’esclusione dalla gita, ritenendole coerenti con il regolamento interno e con la gravità del fatto, annullando invece solo la revoca dell’uscita autonoma perché non prevista dalle norme disciplinari. Nelle motivazioni, il Tribunale ha spiegato che impedire al ragazzo di partecipare alla gita era una decisione educativa e proporzionata, volta a fargli comprendere la gravità delle proprie azioni e a tutelare il clima sereno del gruppo classe. Ha inoltre evidenziato che l’iter disciplinare era stato corretto: la scuola aveva rispettato le procedure, convocando un consiglio straordinario, ascoltando le parti e motivando adeguatamente le sanzioni, quindi è stata garantita anche la partecipazione dei genitori alla difesa del figlio. Questa sentenza è importante perché fissa alcuni principi: la gita scolastica non è un diritto fondamentale intoccabile, ma un’attività didattica facoltativa da cui si può essere esclusi se il comportamento tenuto mina la convivenza civile; ogni provvedimento disciplinare deve comunque essere previsto dalle regole interne e mirato alla funzione rieducativa; infine, in caso di contestazione, il giudice valuta la regolarità formale (rispetto del regolamento, diritto di difesa) e la proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti. I genitori, quindi, devono essere consapevoli che opporsi ai provvedimenti disciplinari della scuola è possibile (tramite ricorso al TAR entro 60 giorni o, in casi urgenti, ricorso straordinario), ma le chance di successo dipendono dal dimostrare concreti vizi di procedura o abusi. Nel caso del TAR Veneto, ad esempio, solo la misura non contemplata (il divieto di uscita autonoma) è stata annullata, mentre il resto è rimasto in piedi. Ciò conferma che la giustizia amministrativa tende a non ingerirsi nelle scelte educative e disciplinari della scuola, salvo evidente illegittimità, riconoscendo la discrezionalità di docenti e dirigenti nel mantenere la disciplina.

Un aspetto correlato è la responsabilità genitoriale per i figli bulli: se un minore compie atti di violenza o sopruso a scuola, i suoi genitori possono essere chiamati a risponderne sul piano civile (ex art. 2048 c.c.), a meno che provino di non aver potuto impedire il fatto. Ciò implica che mamme e papà devono attivarsi prontamente in caso di segnalazioni di comportamenti aggressivi del figlio, collaborando con la scuola per correggerli. Diversamente, oltre al danno educativo, rischiano conseguenze legali. Per i casi più gravi, inoltre, la Procura presso il Tribunale per i Minorenni può aprire un procedimento civile volto a valutare eventuali carenze nell’esercizio della responsabilità genitoriale: ad esempio, se emergono negligenze tali da non garantire una crescita equilibrata (si pensi a genitori che minimizzano o incoraggiano le prepotenze del figlio), il giudice minorile può disporre provvedimenti di sostegno o limitativi (come prevede l’art. 333 c.c.). Fortunatamente, la gran parte delle famiglie comprende l’importanza di correggere e rieducare il minore autore di bullismo, sfruttando l’episodio come occasione di crescita. “Nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali”, scriveva Don Lorenzo Milani: un monito applicabile anche qui, dove tutelare il più debole può significare adottare misure straordinarie verso chi sbaglia, per restituire a tutti un ambiente di apprendimento sano ed equo.

 

Valutazioni scolastiche e bocciature: quando fare ricorso?

Oltre alla sicurezza e alla disciplina, un ambito di frequente attrito tra famiglie e istituzioni scolastiche riguarda le valutazioni degli studenti, in particolare le non ammissioni alla classe successiva (le cosiddette bocciature). Venire respinti alla fine dell’anno è un evento sempre delicato, che può segnare profondamente lo studente e incidere sul suo percorso formativo. Proprio per questo la normativa scolastica considera la bocciatura un evento eccezionale, da motivare adeguatamente e da adottare solo dopo aver tentato ogni strategia di recupero. L’art. 6 del D.Lgs. 62/2017 (riforma della valutazione) stabilisce che nella scuola del primo ciclo la non ammissione all’anno successivo debba essere opportunamente motivata e che occorre prima verificare di aver attuato interventi di recupero dei debiti formativi. La giurisprudenza amministrativa ha abbracciato questo principio, sottolineando che una semplice serie di voti insufficienti non basta a legittimare la bocciatura, specie se vi sono margini per un miglioramento dello studente. In altre parole, il consiglio di classe deve valutare il quadro complessivo, tenendo conto anche delle potenzialità di recupero, della maturazione personale e di eventuali circostanze particolari. Una sentenza emblematica in tal senso è quella del T.A.R. Lombardia n. 1659/2024, relativa al caso di un ragazzo in terza media bocciato per la terza volta consecutiva. Il Tribunale Amministrativo ha annullato la bocciatura ritenendo insufficienti le motivazioni addotte dalla scuola. In quel caso, il consiglio di classe si era limitato a indicare generiche carenze di attenzione e qualche problema di comportamento, senza però considerare una relazione psicologica che descriveva il ragazzo come dotato di notevole intelligenza emotiva ma profondamente demotivato da un ambiente scolastico percepito come ostile. Il T.A.R. ha censurato la scuola perché non aveva seriamente preso in esame misure alternative alla bocciatura, né valutato appieno le difficoltà individuali dello studente (legate forse anche a problemi di metodo di studio o disagio ambientale). Richiamando il citato art. 6 D.Lgs. 62/2017, i giudici hanno ricordato che la non ammissione deve essere l’ultima risorsa, quando ogni altro tentativo di recupero è fallito. Questo orientamento, peraltro, era già stato affermato in precedenti decisioni: ad esempio il T.A.R. Lazio in passato ha più volte ribadito che “la bocciatura non può mai essere automatica” e che, dietro a voti negativi, va sempre verificato se la scuola abbia garantito allo studente opportunità concrete di colmare le lacune (corsi di recupero, studi assistiti, colloqui con la famiglia, sostegno psicopedagogico, ecc.). Fare ricorso al T.A.R. contro una bocciatura è quindi possibile, ma solo in presenza di vizi sostanziali (mancata motivazione, palese irragionevolezza, violazione di norme sui DSA/disabilità, errori procedurali) e deve essere fatto in tempi brevi: il ricorso va presentato entro 30 giorni dalla comunicazione ufficiale della non ammissione.

Nell’esempio lombardo citato, la decisione del giudice amministrativo si fondava proprio sul vizio di motivazione. È interessante notare che la ragazza proveniva da un percorso travagliato e che la bocciatura ripetuta appariva più il sintomo di un fallimento del sistema nel motivarla, che una sua irreversibile incapacità. Il T.A.R., annullando l’atto, di fatto ha permesso allo studente di essere ammesso alla classe successiva (terza media) nonostante i giudizi negativi, imponendo alla scuola di predisporre un percorso di sostegno più adeguato. Naturalmente non tutte le situazioni sono analoghe: ci sono casi in cui la bocciatura è oggettivamente giustificata da gravi e diffuse insufficienze o da un numero di assenze superiore al consentito. Ad esempio, una recente pronuncia del T.A.R. Valle d’Aosta (2023) ha convalidato la bocciatura di un’alunna con ben sette materie insufficienti, evidenziando che il consiglio di classe aveva invece agito correttamente e motivato in modo puntuale l’impossibilità di promuoverla. In generale, i tribunali tendono a non sostituirsi alle valutazioni tecniche dei docenti: non sindacano i voti in sé (che sono insindacabili nel merito), ma verificano che il procedimento di valutazione si sia svolto regolarmente e che l’esito negativo sia supportato da una motivazione adeguata e conforme ai criteri normativi. Quali sono dunque i casi tipici in cui un ricorso può avere successo? Oltre alla già citata carenza di motivazione, si possono elencare:

Violazione di norme su DSA o disabilità: se lo studente ha Disturbi Specifici dell’Apprendimento o altre disabilità certificate e la scuola non ha approntato il Piano Didattico Personalizzato o le misure compensative previste dalla legge 170/2010 (per i DSA) o dal PEI (Piano Educativo Individualizzato) per i disabili, la sua valutazione finale può risultare inficiata. È nota, ad esempio, una sentenza del 2023 che ha annullato la bocciatura di un alunno con disabilità grave proprio perché l’istituto gli aveva garantito un numero di ore di sostegno significativamente inferiore al dovuto, pregiudicando il suo diritto allo studio. In tal caso, bocciarlo senza avergli fornito gli strumenti di supporto era illegittimo (iniquum est ultimum supplicium ferre discipulo, ubi deficit magister, potremmo dire parafrasando: sarebbe ingiusto condannare l’allievo quando è il maestro ad aver mancato).

Errori procedurali o violazione del diritto di difesa: ad esempio, se la scuola non ha comunicato per tempo ai genitori l’eventualità di non ammissione, oppure se non ha rispettato le delibere collegiali sulle modalità di recupero. Ogni istituto adotta criteri di valutazione inseriti nel PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa): la loro violazione (ad es. decidere la bocciatura in modo difforme dai criteri) può costituire motivo di illegittimità.

Disparità di trattamento: se emergesse che uno studente è stato bocciato in una situazione in cui altri, con analoghe carenze, sono stati invece promossi magari grazie a esami integrativi o sanatorie, si potrebbe profilare un eccesso di potere per ingiustificata disparità. È però molto difficile da dimostrare e raro.

In definitiva, il messaggio per le famiglie è duplice: da un lato la bocciatura non deve essere accettata passivamente se si nutrono dubbi sulla correttezza della stessa – il sistema prevede strumenti di tutela, e in alcuni casi i tribunali hanno dato ragione agli studenti; dall’altro lato, è bene essere consapevoli che il giudice non è un “secondo consiglio di classe” e non entra nel merito scolastico se non emergono evidenti violazioni di legge o irregolarità. Conviene dunque, prima di ricorrere, consultare un legale esperto di diritto scolastico che possa valutare la documentazione (pagelle, verbali del consiglio di classe, eventuali piani personalizzati) e capire se esistono reali profili di illegittimità.

 

Genitori e scuola: comunicazione, reclami e conflitti in sede legale

La partecipazione dei genitori alla vita scolastica dei figli è fondamentale e tutelata: esistono organi collegiali (consigli di classe, consigli d’istituto) dove i rappresentanti dei genitori hanno voce in capitolo, nonché il Patto di corresponsabilità educativa che ogni scuola fa sottoscrivere alle famiglie per condividere principi e regole comuni. Tuttavia, a volte il rapporto scuola-famiglia diventa conflittuale: si pensi al genitore che ritiene un docente “troppo severo” o addirittura vessatorio verso il figlio, oppure al caso opposto di insegnanti bersaglio di insulti o denigrazioni da parte di mamme e papà indignati. Quali sono i confini tra legittima critica e offesa illegittima? La giurisprudenza recente offre spunti interessanti su entrambi i fronti.

In un caso approdato in Cassazione, i genitori di un alunno con DSA avevano scritto una lettera (inviata via PEC al Dirigente Scolastico e per conoscenza al Ministero) in cui denunciavano il comportamento a loro dire “fortemente vessatorio” di una professoressa d’inglese nei confronti del figlio, accusandola di commettere errori volontariamente per danneggiare l’alunno e di non applicare le misure di tutela previste per i DSA. La lettera, dai toni molto duri, era però rimasta in ambito riservato (non diffusa pubblicamente, ma indirizzata solo alle autorità scolastiche competenti). Ebbene, inizialmente i due genitori erano stati condannati per diffamazione sia in primo grado che in appello, poiché i giudici avevano ritenuto la missiva idonea a “offendere la reputazione” dell’insegnante e potenzialmente conoscibile da terzi (ad esempio altri funzionari) oltre ai destinatari. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18056 del 2 maggio 2023, ha però ribaltato la situazione a favore dei genitori: ha infatti stabilito che non costituisce reato di diffamazione la lettera con cui i genitori segnalano in modo anche aspro comportamenti scorretti di un docente, se tale lettera è inviata attraverso i canali istituzionali e in forma riservata. In tal caso, ha chiarito la Cassazione, i genitori esercitano un proprio diritto di critica nell’interesse del figlio e della corretta applicazione delle norme scolastiche, senza travalicare nella pubblica gogna. Ciò che distingue la lecita manifestazione di dissenso dall’illecito diffamatorio è il contesto e la diffusione: nel momento in cui la critica resta confinata in una segnalazione interna alle autorità scolastiche (Preside, Ufficio Scolastico, Ministero), manca l’comunicazione con più persone tipica della diffamazione. Inoltre, il contenuto della lettera atteneva a questioni oggettive (metodi didattici, presunte violazioni normative) e non a meri insulti gratuiti. Questa pronuncia risulta molto significativa: non è reato criticare un docente, anche in maniera energica, se lo si fa attraverso i canali appropriati e per tutelare i diritti del proprio figlio. In altre parole, i genitori hanno facoltà di lamentarsi formalmente con i superiori dell’insegnante (Dirigente e Ministero) di eventuali condotte ingiuste subite dal figlio, e ciò rientra nella dialettica democratica scuola-famiglia.

Ben diversa è la situazione di chi passa alle vie di fatto verbali, aggredendo o insultando il docente pubblicamente: questo non è tollerato dall’ordinamento. La Cassazione civile, con l’ordinanza n. 24848 del 18/08/2023, ha affrontato il caso di un padre che, all’uscita da scuola, aveva pesantemente offeso un’insegnante colpevole – a suo dire – di aver rimproverato il figlio facendolo piangere. In sede di merito, l’uomo aveva cercato di giustificarsi invocando l’esimente della legittima difesa, quasi che il suo intervento fosse volto a “difendere” il bambino da un’ingiustizia. In appello, sorprendentemente, i giudici gli avevano dato ragione, escludendo la sua responsabilità per ingiuria proprio per legittima difesa. La docente, che aveva chiesto un risarcimento per le offese subite, ha però fatto ricorso in Cassazione e ha vinto: la Suprema Corte ha sancito chiaramente che non si può invocare la legittima difesa per giustificare la condotta di un genitore che aggredisce verbalmente un insegnante. La legittima difesa, spiega la Corte, richiede tassativamente due presupposti: 1) la necessità di difendere sé o altri da un pericolo attuale di un’offesa ingiusta; 2) la proporzione tra difesa e offesa. Nel caso di specie, nessuno dei due requisiti era presente: il rimprovero di un docente, anche se magari severo, non costituiva un’offesa ingiusta né un pericolo imminente, e la reazione smodata del padre risultava del tutto sproporzionata (oltre che estranea ai mezzi legali previsti, configurando una sorta di giustizia privata). In definitiva, il genitore è stato ritenuto civilmente responsabile per il suo comportamento e dovrà risarcire l’insegnante. Questa vicenda lancia un monito ai genitori: “stop alla giustizia fai da te” contro i professori. Se si ritiene che un docente abbia sbagliato (magari usando metodi scorretti con il figlio), esistono modi appropriati per reagire – dal dialogo con il Dirigente, ai reclami formali, fino alle vie legali nel caso di abusi conclamati – ma in nessun caso è lecito passare all’insulto o alla minaccia diretta. Tali condotte, oltre a dare un pessimo esempio educativo, possono integrare gli estremi di reati (oltraggio o violenza a pubblico ufficiale, diffamazione, ingiuria in sede civile) e comportare condanne e risarcimenti.

Un ultimo ambito di potenziale conflitto in materia di diritto scolastico è quello che coinvolge i genitori separati o divorziati in disaccordo sulle scelte educative per i figli. La scelta della scuola (ad esempio iscrivere il figlio a una scuola pubblica o paritaria, laica o religiosa, o decidere se farlo proseguire negli studi) rientra tra le decisioni di maggiore interesse per i figli, e come tale richiede l’accordo di entrambi i genitori esercenti la responsabilità genitoriale. Cosa accade se mamma e papà non trovano un accordo? In tali casi, su richiesta di uno dei due, deve intervenire il giudice (normalmente il Tribunale ordinario in sede di volontaria giurisdizione, o il giudice della separazione/divorzio se il conflitto avviene in quel contesto) per decidere al posto loro, avendo come stella polare il preminente interesse del minore. Una recentissima pronuncia della Cassazione (ordinanza n. 13570 del 16/05/2024) ha fornito indicazioni preziose: nel conflitto insorto tra due genitori – uno voleva iscrivere la figlia a una scuola privata di ispirazione religiosa, l’altro preferiva la scuola pubblica – la soluzione individuata è stata quella che meglio tutelava la serenità e lo sviluppo equilibrato della minore. La Corte ha ritenuto che, in una fase già delicata per la ragazza (già provata dalle difficoltà legate alla separazione dei genitori), fosse prioritario evitare ulteriori traumi e discontinuità, come il cambiamento di ambiente scolastico, garantendole invece la continuità nel contesto educativo cui era abituata. Di conseguenza, ha prevalso l’opzione di non cambiare scuola (in quel caso, la scuola laica frequentata dalla minore da anni), scongiurando una rottura col suo ambiente sociale. Si tratta di una decisione di merito (non sindacabile in Cassazione, se ben motivata) basata sul principio che l’interesse del figlio minore viene prima delle preferenze ideologiche dei genitori. In generale, la regola emersa è che, fra due opzioni educative entrambe valide, va scelta quella che arreca meno sconvolgimenti nella vita del minore e che maggiormente coincide – ove manifestata – con la volontà del minore stesso (naturalmente tenendo conto dell’età e maturità: nell’adolescente la voce in capitolo è significativa). Inoltre, va rispettato il principio di laicità dello Stato: l’eventuale scelta di una scuola confessionale non può essere imposta contro la volontà dell’altro genitore se ciò contrasta con i valori educativi di uno di essi, a meno che non vi siano elementi concreti per ritenere che quella scelta sia nettamente migliore per il figlio. In altre parole, si procede a un bilanciamento: libertà religiosa e di educazione, da un lato, e interesse concreto del minore, dall’altro. Nel caso specifico esaminato in Cassazione, la soluzione di continuità (scuola laica) è parsa la più idonea a garantire stabilità emotiva alla ragazza, evitando di aggiungere alle difficoltà familiari anche l’impatto di un ambiente nuovo magari non desiderato.

Va detto che questi conflitti sulla scuola nei procedimenti di separazione non sono infrequenti: oggi, ad esempio, si discute anche di istruzione parentale in caso di genitori separati (se uno vuole far homeschooling e l’altro no, chi decide?) oppure della scelta di particolari percorsi (liceo vs istituto tecnico, ecc.). In caso di disaccordo insanabile, il giudice può decidere d’ufficio ascoltando anche il minore se ha almeno 12 anni (o anche più piccolo, ma capace di discernimento). La decisione del tribunale può essere impugnata, ma solo per motivi di legittimità in Cassazione, trattandosi di valutazioni di merito. In ogni caso, è utile cercare di evitare di giungere al braccio di ferro giudiziario: spesso è possibile trovare un compromesso, magari affidandosi alla mediazione familiare o al parere di esperti (psicologi dell’età evolutiva) che possano suggerire quale ambiente scolastico sia più adatto al ragazzo. L’importante è mantenere come faro l’interesse del figlio, senza farsi guidare da rivalse personali. Come recita un noto adagio latino, “Salus alunni suprema lex” – il bene del figlio sia la legge suprema – principio non codificato ma che ben riassume l’atteggiamento auspicabile.

 

Conclusioni

Il panorama del diritto scolastico mostra dunque una crescente attenzione alla tutela dei diritti degli studenti e delle famiglie, con numerose novità giurisprudenziali negli ultimi anni. Dalla sicurezza nelle scuole alla lotta al bullismo, dalla correttezza delle valutazioni al rispetto delle scelte educative, il filo conduttore è l’idea di una scuola inclusiva, equa e rispettosa della legalità. Per i genitori è rassicurante sapere che esistono strumenti per far valere le proprie ragioni: il ricorso ai giudici amministrativi in caso di provvedimenti ingiusti, l’azione civile per i risarcimenti, la possibilità di segnalare abusi senza incorrere in sanzioni ingiuste, e più in generale un sistema normativo e giudiziario che riconosce la centralità dell’alunno come persona, con i suoi bisogni e diritti. Ovviamente ogni vicenda va valutata caso per caso: non sempre impugnare una decisione scolastica conviene, come non tutti gli incidenti a scuola comportano colpa dell’istituto. Per questo, di fronte a problemi seri in ambito scolastico (infortuni, bullismo, provvedimenti disciplinari, bocciature controverse, ecc.), è importante consultarsi con un avvocato esperto in diritto scolastico, che possa analizzare i fatti e consigliare la strategia migliore (spesso anche solo interloquire in modo formale con la scuola può risolvere la situazione senza arrivare in tribunale). Come suggerisce la celebre frase attribuita a Mark Twain, “Non ho mai permesso alla mia scuola di interferire con la mia educazione”: l’educazione dei figli è un percorso troppo importante per essere ostacolato da ingiustizie o incomprensioni. Fortunatamente, la legge offre mezzi di intervento per rimuovere questi ostacoli. Con una conoscenza informata dei propri diritti – e, all’occorrenza, il giusto supporto legale – le famiglie possono assicurare ai loro ragazzi un’esperienza scolastica il più possibile serena, sicura e in linea con i loro bisogni. In omnia paratus, verrebbe da dire: la comunità educante (scuola e genitori insieme) dev’essere “pronta a tutto” per il bene dei giovani, anche a confrontarsi nelle sedi legali se necessario, affinché la scuola realizzi davvero la sua missione formativa senza lasciare indietro nessuno.

 

 

  • 11 agosto 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.