Il diritto all’oblio è il diritto di non restare esposti indefinitamente a informazioni che ci riguardano ma che non sono più attuali o rilevanti. In altre parole, una persona ha il diritto di vedere dimenticate (o meglio, rese non immediatamente accessibili) quelle notizie che, pur essendo magari veritiere, risultano sorpassate dal tempo o dai successivi eventi. Questo principio tutela la reputazione e la riservatezza, specialmente in un’epoca in cui qualsiasi vicenda personale può rimanere archiviata online a tempo indeterminato. Il diritto all’oblio ha ottenuto riconoscimento formale nell’ordinamento europeo con l’art. 17 del GDPR (Regolamento UE 2016/679), denominato proprio “diritto alla cancellazione”. Tale norma consente all’interessato di chiedere la rimozione dei propri dati personali quando, ad esempio, i dati non sono più necessari rispetto alle finalità per cui erano stati pubblicati, oppure quando sono trattati in modo illecito o l’interessato si oppone al loro trattamento.
In ambito di motori di ricerca, questo diritto si traduce nella possibilità di ottenere la rimozione dei link verso contenuti contenenti i propri dati personali, qualora tali contenuti risultino inadeguati, irrilevanti o non più pertinenti. La pietra miliare è stata posta dalla Corte di Giustizia dell’UE nel caso Google Spain del 13 maggio 2014 (causa C-131/12), che per la prima volta ha sancito la responsabilità dei gestori dei motori di ricerca nel trattare i dati personali contenuti nelle pagine web indicizzate. Da allora è chiaro che Google e simili non sono meri “spettatori neutrali”, ma titolari del trattamento dei dati che mostrano nelle ricerche: su istanza dell’interessato, possono essere obbligati a eliminare dai risultati quei link a pagine web che contengono informazioni superflue o non più rilevanti rispetto allo scopo originario.
In sintesi, il diritto all’oblio rappresenta un bilanciamento tra la protezione della persona e la memoria storica collettiva: da un lato si tutela l’individuo dal pregiudizio di un passato che non dovrebbe più definirlo; dall’altro, si riconosce che la storia e l’informazione non possono essere cancellate totalmente.
Quando si parla di “cancellare notizie da Google” occorre chiarire cosa avviene realmente. Nella maggior parte dei casi, esercitare il diritto all’oblio non significa eliminare completamente un articolo o un contenuto dal web, bensì ottenere la deindicizzazione di quel contenuto dai motori di ricerca. La deindicizzazione è un intervento tecnico per cui un certo risultato (URL) non compare più tra quelli offerti da un motore di ricerca in risposta a determinate query, in particolare quando si cerca il nome dell’interessato.
Il contenuto originario (ad esempio l’articolo sul sito del giornale) rimane al suo posto nell’archivio online, ma diventa molto meno visibile: sarà reperibile solo andando direttamente sul sito della testata o formulando ricerche molto specifiche, non semplicemente digitando su Google il nome della persona. In pratica, l’informazione non viene soppressa dal web, ma viene rimossa dalla “vetrina” principale rappresentata dal motore di ricerca.
Questa distinzione è fondamentale. Da un lato tutela la libertà di stampa e la memoria storica; dall’altro consente all’individuo di non essere immediatamente associato, nel profilo pubblico che emerge dai motori di ricerca, a fatti ormai passati.
Il diritto all’oblio non è assoluto. Esistono situazioni in cui prevale l’opposto diritto della collettività a essere informata. La legge e la giurisprudenza hanno quindi elaborato criteri per stabilire quando una persona può legittimamente esigere la deindicizzazione di una notizia che la riguarda.
Già una storica sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 19681/2019) aveva affermato che citare il nome di una persona in relazione a vicende passate è lecito solo se quella persona, attualmente, desta ancora un interesse pubblico; al di fuori di queste ipotesi, deve prevalere la tutela della persona contro il rischio di restare esposta per sempre a una “gogna mediatica” relativa a fatti remoti.
In particolare, con ordinanza n. 3013/2024 (Cass. civ., Sez. III) la Corte di Cassazione ha ribadito che la rimozione o deindicizzazione di contenuti lesivi va valutata bilanciando attentamente interessi contrapposti. Solo quando sussistono congiuntamente condizioni come interesse pubblico attuale, notorietà del soggetto coinvolto, veridicità della notizia e rispetto del diritto di replica, la libertà di informazione può prevalere sul diritto all’oblio.
Cass. civ., Sez. III, ord. n. 3013/2024 (1° febbraio 2024): riconosciuto che mantenere online una notizia incompleta (senza aggiornamento sull’assoluzione) può ledere il diritto all’identità personale.
Cass. civ., Sez. III, ord. n. 31859/2024 (11 dicembre 2024): stabilito che la deindicizzazione può essere chiesta solo dopo una sentenza definitiva di assoluzione o archiviazione; introdotto il riferimento all’art. 64-ter c.p.p. della Riforma Cartabia.
Cass. civ., Sez. I, sent. n. 14488/2025 (30 maggio 2025): la Prima Sezione civile ha riconosciuto la prevalenza del diritto all’oblio in un caso di assoluzione definitiva, a distanza di oltre un decennio dai fatti.
Tribunale di Roma, Sez. XVII, sent. n. 5423/2024 (1° dicembre 2024): Google condannata a deindicizzare articoli lesivi e a rimborsare le spese legali, a seguito di inerzia ingiustificata.
Garante Privacy, Provv. n. 617/2023 (21 dicembre 2023): negata la cancellazione dall’archivio del giornale, ma ordinata la deindicizzazione su Google, riaffermando la distinzione tra memoria storica e reputazione individuale.
Il primo passo è compilare l’apposito modulo di Google, indicando i propri dati, gli URL da rimuovere e le motivazioni. È consigliabile allegare documenti che provino l’obsolescenza o l’inesattezza della notizia (es. provvedimenti di archiviazione, assoluzioni).
Se Google respinge la richiesta, l’interessato può rivolgersi al Garante Privacy o direttamente al tribunale. È fondamentale in questi casi l’assistenza di un avvocato esperto, che possa strutturare la domanda in maniera efficace e, se necessario, agire per ottenere anche il risarcimento dei danni.
Il diritto all’oblio è oggi uno strumento essenziale per tutelare la reputazione digitale e il diritto alla dignità personale. Non equivale a cancellare la storia, ma a regolare l’accessibilità di informazioni obsolete e pregiudizievoli. Le pronunce più recenti confermano che, in assenza di un interesse pubblico attuale, il diritto della persona deve prevalere.
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Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.