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Demansionamento, mobbing e straining: diritti e risarcimenti - Studio Legale MP - Verona

La guida alle differenze tra demansionamento, mobbing e straining e alle tutele legali per ciascuna di queste situazioni. Dalle ultime novità giurisprudenziali emergono strumenti efficaci per ottenere giustizia e risarcimenti.

 

Demansionamento e mansioni inferiori
“Homo homini lupus”: l’antico adagio latino – l’uomo è lupo per i suoi simili – trova purtroppo conferma anche in ambito lavorativo. Una prima forma di prevaricazione in azienda è il demansionamento, cioè l’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto al suo inquadramento e alle sue competenze. Si tratta di una condotta vietata dall’art. 2103 c.c., che tutela la professionalità del dipendente. Il demansionamento illegittimo lede la dignità e la crescita professionale della persona: improvvisamente ci si può ritrovare a svolgere compiti dequalificanti, inutili o umilianti rispetto al proprio ruolo. Oltre all’umiliazione personale, questo comportamento del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale grave. Il lavoratore demansionato, infatti, ha diritto sia di essere reintegrato nelle proprie mansioni originarie, sia di chiedere un risarcimento del danno subito (dal pregiudizio alla carriera sino al disagio psicologico). Non a caso una recente decisione ha confermato che il demansionamento accertato legittima il risarcimento del danno professionale in favore del dipendente (Trib. Bari, sent. 27 maggio 2024, n. 2131).

Va chiarito però che il risarcimento non è automatico: occorre provare il danno subito. La Corte di Cassazione ha ribadito che non basta dimostrare la mera potenzialità lesiva di un demansionamento, ma servono prove concrete del pregiudizio arrecato e del nesso causale con l’illecito datoriale (Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 27867/2024). In altri termini, il dipendente dovrà dimostrare, anche tramite presunzioni o testimonianze, come le mansioni inferiori abbiano realmente inciso sulla sua professionalità, sulla sua salute o sulla sua vita lavorativa. Ad esempio, potrebbe emergere la perdita di chance di carriera, un peggioramento clinico (ansia, depressione) attestato da certificati medici, oppure la compromissione della propria immagine professionale. Se queste conseguenze vengono provate, il giudice potrà quantificare un risarcimento commisurato alla gravità dell’offesa subita. Il messaggio è chiaro: demansionare un lavoratore senza valido motivo è non solo illegale, ma espone l’azienda a sanzioni e a dover rifondere tutti i danni provocati.

 

Mobbing: persecuzioni sul lavoro
Accanto al demansionamento, il fenomeno forse più noto di abuso lavorativo è il mobbing. Con questo termine (dal verbo inglese to mob, assalire) si indica una serie di comportamenti ostili e reiterati, posti in essere generalmente da superiori – ma talvolta anche da colleghi – con l’obiettivo di emarginare, vessare o indurre alle dimissioni un dipendente. Si pensi a chi subisce continue umiliazioni verbali, rimproveri ingiustificati, controllo esasperato, isolamento dal gruppo, assegnazione di compiti impossibili o ulteriori rispetto al normale, oppure, all’opposto, totale inattività forzata. Il mobbing può assumere forme subdole e progressive, ma i suoi effetti sono concreti: la vittima sviluppa frequentemente patologie da stress, disturbi d’ansia, depressione, fino a perdere la fiducia in sé stessa. Come affermato efficacemente in dottrina, il mobbing dileggia il fondamento stesso dei diritti del lavoratore: la sua dignità di persona.

Sul piano giuridico, il mobbing è una costruzione elaborata dai giudici a partire dagli anni 2000, che però richiede precisi requisiti probatori. Occorre dimostrare un complesso di atti ostili (elemento oggettivo) e un disegno persecutorio unitario da parte del mobber (elemento soggettivo). In altre parole, i singoli episodi devono essere collegati da un’intenzione costante di nuocere. Questa necessità di provare un intento malevolo e una pluralità di episodi rende spesso difficile ottenere giustizia per mobbing: basta che le molestie non siano abbastanza sistematiche, o che manchi una “regia” evidente, e la domanda rischia di essere rigettata. Non sorprende infatti che molte cause per mobbing finiscano senza successo per il lavoratore, proprio per l’alto standard di prova richiesto. I giudici, in assenza di prove chiare di un vero complotto persecutorio, tendono a negare la sussistenza del mobbing in senso tecnico.

 

Straining: un caso isolato ma dannoso
Proprio per colmare le lacune nella tutela, la giurisprudenza italiana ha individuato col tempo figure affini al mobbing. Una di queste è lo straining, termine inglese che significa “mettere sotto tensione”. Lo straining indica una situazione di stress forzato sul luogo di lavoro dovuta a anche un solo episodio o provvedimento ostile, capace però di produrre effetti negativi duraturi sul dipendente. Si tratta di una sorta di “mobbing attenuato”: manca la continuità degli atti vessatori, ma l’ambiente di lavoro diventa comunque insostenibile a causa di un singolo grave episodio. Esempi tipici di straining possono essere: il trasferimento immotivato ad un ruolo marginale, l’isolamento improvviso del lavoratore privato di incarichi significativi, l’assegnazione ad un ufficio privo di strumenti o contatti (la classica stanza vuota), l’estromissione da ogni riunione o comunicazione importante. Anche se avvenuto una sola volta, un atto del genere pone il dipendente in condizione di disagio permanente: ogni giorno subisce le conseguenze di quella decisione ostile, ritrovandosi inutilizzato, demoralizzato e sotto pressione psicologica continua.

Da un punto di vista legale, allo straining non si attribuisce uno status giuridico molto diverso dal mobbing. Inizialmente i tribunali lo hanno riconosciuto come fattispecie distinta, richiedendo per provarlo elementi leggermente diversi (bastava un unico episodio intenzionale con effetti duraturi, senza bisogno di dimostrare la pluralità di atti). Tuttavia, la Cassazione ha più volte chiarito che “mobbing” e “straining” sono nozioni di carattere socio-medico, utili a descrivere fenomeni reali, ma prive di autonoma rilevanza giuridica. Ciò significa che, in giudizio, etichettare una vicenda come straining o mobbing non è decisivo: quel che conta è verificare se il comportamento del datore di lavoro (singolo o ripetuto che sia) abbia violato o meno i doveri di tutela imposti dall’ordinamento, causando un pregiudizio al dipendente. In particolare, entra in gioco l’art. 2087 c.c., la norma cardine che obbliga l’imprenditore a garantire un ambiente di lavoro sicuro, salubre e rispettoso della personalità morale di chi vi opera.

Dallo stress lavorativo alla tutela risarcitoria
Proprio l’ambiente di lavoro stressogeno è il concetto su cui la giurisprudenza recente sta facendo leva per assicurare una maggiore protezione ai lavoratori vessati. Se non si riesce a incasellare una situazione né come mobbing (perché manca la serie continua di atti) né come straining in senso stretto, resta comunque fermo il principio generale: neminem laedere, nessuno può essere leso ingiustamente. La Cassazione, con una serie di pronunce nel 2024 e 2025, ha messo un punto fermo: al di là delle definizioni sociologiche, ogni condotta del datore di lavoro che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente di lavoro nocivo, stressante o ostile integra una violazione dell’art. 2087 c.c. e dà luogo a responsabilità risarcitoria. In una recente ordinanza, la Suprema Corte ha ribadito che lo stress lavorativo ha pieno riconoscimento giuridico, a differenza dei concetti nominali di mobbing e straining (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 31912/2024). Ciò significa che il dipendente, anche se non può dimostrare un vero e proprio “plot” persecutorio, può comunque ottenere giustizia provando che il clima aziendale era tossico e che il datore non è intervenuto per prevenirlo o fermarlo.

Si pensi al caso in cui i contrasti sul posto di lavoro siano sfociati in litigi costanti, insulti o svalutazioni continui, creando una situazione insostenibile: anche se manca la regia occulta di un mobber, il datore di lavoro resta responsabile per omessa vigilanza e per non aver protetto la salute psico-fisica del lavoratore. In un caso deciso nel 2025, ad esempio, è stato riconosciuto il danno da ambiente lavorativo nocivo in una vicenda dove non ricorrevano gli estremi del mobbing sistematico: un dirigente pubblico teneva comportamenti contraddittori, provocatori e offensivi verso un’impiegata, tanto da causarle un’invalidità permanente del 5% per disturbi ansioso-depressivi. La Cassazione ha confermato il risarcimento del danno, richiamando proprio l’obbligo datoriale di non tollerare condizioni stressanti prolungate (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 123/2025). Questo orientamento giurisprudenziale innovativo – riassunto dall’espressione “danno da stress lavorativo” – consente dunque di andare oltre le etichette: non importa come lo chiamiamo, ciò che rileva è il fatto ingiusto. Se il lavoratore subisce un pregiudizio alla salute o alla personalità a causa del clima lavorativo, ha diritto alla tutela anche in assenza di un preciso persecutore identificabile.

 

Diritti del lavoratore e strumenti di difesa
Di fronte a queste forme di prevaricazione – siano esse plateali come un demansionamento scritto nero su bianco, o subdole come un lento logoramento psicologico – il lavoratore non è impotente. Anzitutto, può e deve documentare ogni evento: ordini di servizio, email, testimonianze di colleghi, referti medici del medico di base o dello specialista (psicologo, psichiatra) che attestino il disagio. Avere un quadro probatorio solido è fondamentale per far valere i propri diritti in sede legale. In base alle circostanze, il dipendente potrà intraprendere un’azione giudiziaria per far cessare la condotta illecita (ad esempio ottenere dal giudice l’assegnazione a mansioni consone al livello contrattuale) e per ottenere un risarcimento integrale dei danni. Questi comprendono il danno patrimoniale (eventuali perdite economiche, come mancati avanzamenti o stipendi più bassi dovuti al demansionamento) e, soprattutto, i danni non patrimoniali. Nel calderone dei danni non patrimoniali rientrano il danno biologico (lesione della salute, certificata da una diagnosi medica), il danno morale (sofferenza interiore, umiliazione, ansia) e il danno alla vita di relazione o esistenziale (peggioramento della qualità di vita, perdita di autostima, isolamento sociale causato dalla situazione lavorativa). Il giudice valuterà caso per caso l’entità di questi pregiudizi e liquiderà un importo monetario compensativo, tenendo conto della durata e gravità delle vessazioni. Ad esempio, il risarcimento per una lieve sindrome ansiosa recuperabile sarà inferiore rispetto a quello per una depressione cronica che comporti invalidità permanente.

Un altro strumento di tutela, spesso trascurato, è la possibilità di presentare dimissioni per giusta causa. Se l’ambiente è divenuto davvero intollerabile e la prosecuzione del rapporto anche solo temporanea risulta impossibile (come accade nelle situazioni di mobbing grave), il lavoratore può dimettersi immediatamente senza preavviso, addebitando la colpa al datore di lavoro. Le dimissioni per giusta causa, quando riconosciute, danno diritto al trattamento di disoccupazione NASpI e non pregiudicano l’azione risarcitoria: il dipendente potrà comunque convenire in giudizio l’azienda per farsi indennizzare dei torti subiti. È bene, tuttavia, farsi assistere in questo passo da un legale, per impostare correttamente la lettera di dimissioni e successivamente l’eventuale causa, evitando errori procedurali.

In definitiva, l’ordinamento offre una rete di protezione al lavoratore vittima di abusi: dalla normativa contrattuale (art. 2103 c.c.) a quella sulla sicurezza e dignità (art. 2087 c.c.), supportate da una giurisprudenza sempre più attenta alle nuove forme di prevaricazione nascosta. Come ha sintetizzato un autore contemporaneo, “la menomazione dell’opportunità di realizzazione e sviluppo dell’essere umano a causa sia di conflitti interni sul luogo di lavoro, sia di unilaterali decisioni aziendali, costituisce un fatto grave per la tutela della dignità e dell’integrità della persona” (Luca Figus Diaz, 2017). Queste parole sottolineano come tanto le vessazioni sistematiche quanto gli atti unilaterali (come il demansionamento) minino profondamente la dignità del lavoratore, ed evidenziano l’importanza di reagire. Nessuno dovrebbe sentirsi solo di fronte a tali ingiustizie: la legge esiste proprio per ristabilire l’equilibrio di forze nel rapporto di lavoro, offrendo alla parte più debole gli strumenti per far valere i propri diritti.

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  • 22 settembre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.