“Primum non nocere” – prima di tutto, non nuocere. Questo antico principio medico ricorda al professionista sanitario che ogni intervento sul paziente deve avere una giustificazione clinica valida. Nel campo odontoiatrico, purtroppo, stanno emergendo situazioni in cui vengono proposte o effettuate cure non strettamente necessarie. Si parla di overdiagnosi, ossia diagnosi eccessive o sovrastimate di problemi dentali che magari non evolverebbero mai in patologie serie, e di overtreatment, cioè trattamenti eseguiti in assenza di un reale bisogno terapeutico. Un esempio comune è l’estrazione di denti curabili – o addirittura sani – solo per inserire impianti costosi, oppure la prescrizione di procedure diagnostiche avanzate in mancanza di effettive indicazioni cliniche. Queste pratiche rappresentano non solo un dilemma etico, ma anche un potenziale abuso della fiducia che il paziente ripone nel dentista. Come ha ironicamente osservato Ambrose Bierce, «Dentista: un prestigiatore che inserendo del metallo nella vostra bocca estrae monete dal vostro portafoglio.» – una frase pungente che evidenzia il conflitto d’interessi economico alla base di certe condotte.
Le cause dell’overdiagnosi e overtreatment in odontoiatria possono essere diverse. Da un lato vi è la crescente commercializzazione della professione odontoiatrica: in contesti fortemente orientati al profitto (ad esempio alcune catene di cliniche dentali), il rischio è quello di “inventare” cure per aumentare il fatturato. Dall’altro lato può incidere l’eccesso di prudenza o di zelo clinico: il dentista potrebbe proporre trattamenti non indispensabili pensando di prevenire problemi futuri, oppure affidarsi a tecnologie diagnostiche avanzate anche quando non ve ne sia necessità, esponendo il paziente a costi eccessivi (e talvolta a radiazioni inutili) senza un reale beneficio. In ogni caso, il risultato è che il paziente subisce interventi evitabili, con possibili conseguenze sul piano della salute (dal dolore post-operatorio a vere e proprie complicanze) oltre che sul piano economico.
Dal punto di vista giuridico, proporre o eseguire cure odontoiatriche non giustificate costituisce una violazione dei doveri professionali del dentista. Il rapporto che si instaura tra paziente e odontoiatra, infatti, nella maggior parte dei casi ha natura contrattuale: il dentista si obbliga a fornire una prestazione sanitaria secondo le leges artis, ovvero le regole della buona pratica clinica, con la diligenza qualificata richiesta dalla professione medica (art. 1176 cod. civ.). Effettuare trattamenti sproporzionati o non necessari significa venir meno a tale obbligo di diligenza e appropriatezza. In termini legali si configura un inadempimento contrattuale (art. 1218 cod. civ.), che può dare diritto al paziente di ottenere il risarcimento del danno subito.
Va chiarito che il danno risarcibile in questi casi non si limita al danno biologico (quando presente). Anche se una cura inutile non provoca complicanze fisiche immediate, il paziente ha comunque diritto alla tutela: innanzitutto per l’invasività non giustificata che di per sé costituisce un pregiudizio (si pensi alla perdita di un dente sano estratto senza necessità, che rappresenta una menomazione ingiustificata). Inoltre rientrano nel danno risarcibile i costi economici sopportati per la cura non dovuta e quelli che dovrà affrontare per eventuali terapie riparative, oltre al danno morale e esistenziale legato allo stress, al dolore inutile e alla delusione subita. In pratica, il paziente può chiedere la restituzione di quanto pagato per la prestazione inappropriata e il risarcimento di tutti i danni conseguenti. Non va dimenticato che in ambito odontoiatrico spesso il confine tra successo e insuccesso di un trattamento può essere sottile: un intervento superfluo può aggravare la situazione clinica invece di migliorarla, facendo insorgere complicanze che prima non c’erano.
Dal punto di vista probatorio, le recenti pronunce confermano un orientamento favorevole al paziente. È sufficiente che il paziente alleghi di aver subito un danno o un aggravamento della propria situazione in seguito alle cure odontoiatriche; spetterà poi al dentista dimostrare di aver operato correttamente e che quelle cure erano appropriate e conformi alle necessità cliniche. In altre parole, se viene contestato un overtreatment, sarà il medico a dover provare che il trattamento – per quanto forse rivelatosi inutile – non sia stato dannoso oppure era indicato secondo le conoscenze mediche del momento. Questo principio, affermato ad esempio dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 5128/2020, tutela il paziente da un’asimmetria informativa: chi eroga cure ha l’onere di giustificarle, specialmente se l’esito è negativo.
Sul piano penale, qualora dalla condotta del dentista derivi al paziente una lesione personale (ad esempio un danno permanente a un nervo, un’infezione grave, etc.), può configurarsi il reato di lesioni colpose (art. 590 cod. pen.). L’ordinamento penale, con l’art. 590-sexies cod. pen. introdotto dalla legge Gelli-Bianco, esclude la punibilità del medico per imperizia lieve quando sono rispettate le linee guida appropriate; tuttavia, questa esimente non copre i casi di negligenza grave, imprudenza o palese violazione delle regole dell’arte. Se un trattamento non necessario causa danni al paziente, difficilmente il sanitario potrà invocare l’aver seguito linee guida, proprio perché quel trattamento in realtà non andava eseguito. Di conseguenza, nelle situazioni di overtreatment che sfociano in complicanze rilevanti, il dentista può essere chiamato a rispondere anche penalmente. È il caso, ad esempio, di un’estrazione immotivatamente troppo invasiva che provochi un trauma: in tali scenari il confine tra responsabilità civile e penale viene superato dalla gravità del danno.
La sensibilità verso questi temi è in aumento e la giurisprudenza italiana più recente ha affrontato vari casi di responsabilità odontoiatrica legati a cure inadeguate o eccessive. Di seguito, tre esempi significativi degli anni 2024–2025:
Lesione durante estrazione non eseguita a regola d’arte: il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza n. 3812/2024, ha condannato un dentista che aveva provocato una grave complicanza durante l’estrazione di un molare superiore. In quel caso il professionista, nel rimuovere il dente, aveva lacerato la membrana del seno mascellare e la parete ossea, causando una comunicazione oro-antrale con sinusite cronica. La paziente ha dovuto subire un intervento maxillo-facciale riparativo e varie sofferenze. Il giudice ha ritenuto tali lesioni non delle inevitabili complicanze, bensì il frutto di imperizia nell’esecuzione e di omessa diagnosi tempestiva della perforazione; di conseguenza, il dentista è stato dichiarato responsabile e condannato a risarcire circa 6.600 euro alla paziente. Questa pronuncia conferma che l’adagio popolare “via il dente, via il dolore” non vale se l’estrazione provoca nuovi guai: in tal caso il paziente ha diritto al risarcimento per l’errore medico.
Estrarre un dente del giudizio senza adeguate cautele: un caso ancor più recente è arrivato in Cassazione. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22474/2025 depositata il 16 giugno 2025, ha confermato la responsabilità penale di un odontoiatra per lesioni colpose gravi ai danni di una paziente. Il dentista aveva estratto un dente del giudizio semi-incluso senza effettuare esami diagnostici appropriati (come la TAC) e senza adottare tecniche conservative, finendo per lesionare in modo permanente il nervo mandibolare della paziente. La Suprema Corte ha definito la condotta come imperizia grave, sottolineando che la configurazione anatomica del caso non era eccezionale e che, vista l’esperienza del professionista, l’errore tecnico era evitabile e dunque colposo Il dentista è stato condannato a risarcire circa 15.000 euro alla vittima; quanto alla pena detentiva, è andata prescritta, ma la sentenza ha un forte valore simbolico: anche senza dolo, un intervento eccessivo o condotto con negligenza in ambito odontoiatrico può costituire reato. La Cassazione, in sostanza, ribadisce che “l’esperienza professionale accresce il livello di competenza atteso” e che una procedura di routine (come molte estrazioni) richiede sempre prudenza e perizia adeguateeì.
Cure prolungate e inutili, con aggravamento del quadro: il Tribunale di Pavia (sentenza del 16 giugno 2025, n. 706) ha affrontato un caso di presunto overtreatment durato anni. Una paziente si era rivolta sempre allo stesso dentista dal 2017 al 2022, sottoponendosi a numerose otturazioni, cure conservative e di igiene, senza però risolvere il problema di fondo – un’infezione ricorrente a un dente mandibolare (canino inferiore). Il dentista aveva trascurato di effettuare scelte risolutive (come l’estrazione tempestiva di quel dente compromesso), preferendo interventi tampone risultati inefficaci. Quando la paziente è passata a un altro odontoiatra, una TAC ha evidenziato una situazione grave e si è proceduto all’avulsione immediata del dente in questione, risolvendo finalmente la fistola purulenta che continuava a formarsi. A quel punto la paziente ha citato in giudizio il primo dentista per tutte le cure pagate e i danni subiti. Il Tribunale ha riconosciuto il grave inadempimento contrattuale del sanitario, dichiarando risolto il contratto per le prestazioni d’opera professionale e condannando il dentista a risarcire la paziente. In particolare, nella sentenza Pavia 706/2025 il giudice ha liquidato oltre 20.000 euro per le future spese di rifacimento dei lavori presso un altro medico e altre migliaia di euro per danni biologici temporanei, danno morale e spese già sostenute È stata invece respinta la richiesta di restituzione integrale di tutte le somme pagate negli anni, poiché parte delle cure prestate (ad esempio le igieni dentali periodiche) erano comunque state erogate – sebbene il problema principale non fosse stato risolto. Questa decisione dimostra che anche l’inerzia terapeutica o la gestione inadeguata del piano di cure può integrare una forma di responsabilità: il dentista che “persevera nell’errore” senza risolvere la patologia rischia conseguenze civili pesanti, inclusa la risoluzione del contratto e il pagamento delle spese affinché il paziente possa curarsi altrove.
Queste sentenze recenti mettono in luce come i giudici valutano con sempre maggiore severità le condotte dei sanitari in ambito odontoiatrico. L’orientamento emerso nel biennio 2024–2025 è chiaro: il dentista che provoca un danno al paziente con cure non necessarie o eseguite impropriamente ne risponde pienamente, sia in termini di risarcimento del danno sia – nei casi più gravi – in sede penale. Come affermato dalla Cassazione, l’attività del dentista va valutata in base alla conformità alle buone pratiche scientifiche del momento; agire “non conforme alle metodiche scientifiche” significa agire in colpa. Anche senza arrivare a una condanna penale, infatti, il professionista può essere chiamato a pagare ingenti somme in sede civile: in alcuni giudizi si è superata la soglia dei 100.000 euro di risarcimento, specie quando il paziente ha subito invalidità permanenti e ha dovuto affrontare costose cure riparative. Il messaggio proveniente dai tribunali è un monito per la categoria odontoiatrica, ma allo stesso tempo una garanzia di tutela per i pazienti lesi.
Per evitare casi di overdiagnosi e overtreatment, è fondamentale che il dentista imposti la propria attività ponendo sempre al centro il beneficio clinico del paziente. Ogni trattamento deve essere motivato da una diagnosi accurata e da un’indicazione terapeutica appropriata. Sul piano deontologico, proporre cure inutili contrasta con i principi etici della professione medica: il Codice Deontologico dei dentisti impone al professionista di operare scelte prudenti e proporzionate, evitando sia l’accanimento diagnostico/terapeutico sia, all’opposto, la negligenza. Mantenere una comunicazione chiara e onesta con il paziente è altrettanto importante: spiegare perché un certo intervento è consigliato (o non consigliato) e illustrarne rischi e benefici rientra nei doveri informativi del medico. Un paziente ben informato, infatti, può partecipare attivamente alle decisioni e difficilmente sarà vittima di trattamenti inutili.
Dal lato dei pazienti, per tutelarsi è opportuno adottare alcune cautele. In presenza di piani di cura molto invasivi o costosi è lecito chiedere un secondo parere indipendente, soprattutto se si ha il sospetto che le cure proposte possano essere eccessive. Inoltre, il paziente ha diritto di ottenere la propria documentazione clinica (cartella, radiografie, preventivi dettagliati) e, se ritiene di aver subìto un danno da un trattamento odontoiatrico, dovrebbe raccogliere tutte le prove disponibili (ricevute, referti medici, fotografie dello stato pre e post intervento, ecc.). Queste potranno rivelarsi decisive in un eventuale contenzioso. In molti casi, prima di intraprendere una causa, si può tentare una mediazione o una composizione stragiudiziale: a volte il professionista (o la clinica) accetta di risarcire spontaneamente il paziente insoddisfatto, specie se il difetto della cura è evidente, evitando così ulteriore pubblicità negativa e costi legali. Tuttavia, qualora non si trovi un accordo, l’azione legale resta lo strumento di tutela finale. È bene affidarsi a un avvocato esperto in responsabilità medica odontoiatrica, che possa valutare il caso con l’ausilio di consulenti medico-legali odontoiatri e stabilire se vi siano i presupposti per un risarcimento.
In sintesi, gli sviluppi recenti ci consegnano un quadro in cui l’equilibrio tra cura e necessità diventa centrale: il dentista deve curare senza eccedere, attenendosi ai protocolli scientifici validati e ricordando sempre che “per prima cosa, non nuocere”. Sul fronte opposto, il paziente ha oggi maggiori strumenti e consapevolezza per far valere i propri diritti quando qualcosa va storto. Le aule di giustizia hanno dimostrato di saper riconoscere e sanzionare le pratiche odontoiatriche scorrette o ingiustificate: prevenire questi episodi è interesse di tutti – medici, pazienti e dell’intero sistema sanitario – per ristabilire quella fiducia imprescindibile che deve regnare nel rapporto terapeutico.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.