La calunnia è un venticello… cantava Don Basilio ne Il barbiere di Siviglia, a sottolineare come una diceria possa iniziare piano ma presto gonfiarsi fino a diventare un fragoroso turbine di discredito. Nell’era digitale quel venticello soffia a velocità supersonica: una recensione falsa o un post diffamatorio possono in breve tempo compromettere seriamente la reputazione di un professionista o di una piccola impresa, facendo perdere clienti e fiducia nel brand. Purtroppo, come ricorda il detto latino “Audacter calumniare, semper aliquid haeret”, anche dopo eventuali smentite qualcosa del fango lanciato resta sempre attaccato. È quindi essenziale reagire con tempestività e decisione, attivando un pronto intervento legale per contenere i danni, ripulire la propria immagine online e riportare la verità a galla.
Bastano pochi clic perché la crisi reputazionale divampi: un cliente insoddisfatto che pubblica commenti denigratori, un ex dipendente che divulga accuse infondate, oppure la concorrenza sleale di chi diffonde recensioni negative false sul web. Questi attacchi possono prendere la forma di post offensivi sui social, di recensioni su Google, Tripadvisor o altre piattaforme, fino ad arrivare ad articoli diffamatori su blog e testate online. In tutti i casi l’effetto è lo stesso: il nome dell’azienda o del professionista viene infangato in pubblico, con potenziali ripercussioni gravi sul lavoro. Si pensi a un ristorante bersagliato da recensioni fasulle che ne stroncano la qualità: il calo di prenotazioni sarà immediato. Allo stesso modo, per un libero professionista accusato ingiustamente sul web, la perdita di credibilità può tradursi in clienti persi e contratti sfumati.
Una singola recensione negativa, se non veritiera e lesiva, può cancellare anni di buona reputazione costruita con impegno. Quando la web reputation è sotto attacco, serve dunque agire in fretta: più tempo un contenuto diffamatorio rimane online, più persone lo leggeranno e più a lungo ne rimarrà l’eco. La crisi, se non gestita, rischia di autoalimentarsi: altri utenti potrebbero aggiungere commenti sulla scia della prima accusa, i motori di ricerca indicizzano velocemente le pagine negative, e presto cercando il nome dell’azienda si vedranno comparire solo risultati sfavorevoli. È il cosiddetto “effetto valanga” della diffamazione online. In questi frangenti, l’intervento di uno studio legale esperto in reputazione digitale diventa fondamentale per arginare l’emergenza, tutelare i propri diritti e ripristinare la verità.
Di fronte a una crisi reputazionale improvvisa, lo Studio Legale MP propone un servizio di “Reputation Recovery” online, un vero pacchetto di pronto intervento legale pensato per PMI e professionisti colpiti da diffamazione sul web. Questo servizio d’emergenza prevede una serie di azioni immediate e coordinate per affrontare l’attacco su più fronti:
Analisi e raccolta delle prove: per prima cosa si esaminano i contenuti lesivi (post, recensioni, articoli) raccogliendo prove digitali dell’offesa. Screenshot, URL e dati sull’autore (se noti) vengono conservati, poiché saranno cruciali in sede legale.
Diffida e richiesta di rimozione urgente: lo studio predispone subito una diffida legale indirizzata all’autore del contenuto diffamatorio e alla piattaforma ospitante (es. il social network o il portale di recensioni). Nella diffida si intima la rimozione immediata del contenuto illecito, facendo leva sulle norme vigenti e sulle responsabilità legali in caso di inerzia. Spesso già questa mossa ottiene l’effetto sperato: piattaforme come Google o Facebook, se adeguatamente sollecitate e messe di fronte a possibili profili di responsabilità, possono eliminare spontaneamente i post palesemente diffamatori.
Azione giudiziaria d’urgenza: qualora il contenuto lesivo non venga rimosso spontaneamente, si può ricorrere al tribunale con un provvedimento d’urgenza (ad esempio un ricorso ex art. 700 c.p.c., inibitoria) per ottenere dal giudice un ordine immediato di oscuramento o cancellazione. I tribunali italiani, in casi di diffamazione evidente, tendono ad accogliere queste richieste per evitare che il pregiudizio continui. Emblematico è il caso Tribunale di Genova, sentenza 18/11/2022 (caso “Hostaria Ducale”): il giudice ha ordinato a Google di rimuovere una serie di recensioni false e gravemente offensive che stavano danneggiando un ristorante, riconoscendo che la piattaforma avrebbe dovuto intervenire con “ordinaria diligenza” per eliminare contenuti manifestamente illeciti.
Querela per diffamazione e azione penale: parallelamente, se le circostanze lo consentono, viene presentata una denuncia-querela per diffamazione (ex art. 595 c.p.). In Italia la diffamazione è un reato: si configura quando qualcuno offende la reputazione altrui comunicando con più persone (ad esempio attraverso internet), e in caso di utilizzo di un mezzo di pubblicità – il web è equiparato alla stampa – scatta l’aggravante del comma 3 dell’art. 595 c.p., punita più severamente (fino a 3 anni di reclusione). L’autorità giudiziaria potrà quindi aprire un procedimento penale, individuare gli autori (anche attraverso indagini informatiche) e, in caso di processo, chiedere al giudice penale di disporre la rimozione dei contenuti come pena accessoria nonché condannare i colpevoli.
Azione civile per risarcimento danni: lo studio attiva anche il percorso civilistico, citando in giudizio i responsabili per ottenere il risarcimento del danno causato dalla lesione dell’onore e dell’immagine (ex art. 2043 c.c. – fatto illecito). Si possono chiedere sia i danni patrimoniali (es. il calo di fatturato imputabile alla perdita di clientela) sia i danni non patrimoniali legati allo stress, all’umiliazione e al patema d’animo subiti dalla vittima. I giudici italiani hanno riconosciuto in più occasioni il diritto al risarcimento per diffamazione online: ad esempio, il Tribunale di Macerata a gennaio 2025 ha condannato una cliente a pagare complessivamente 7.000 euro (tra multa penale e risarcimento danni) per una recensione offensiva pubblicata su Tripadvisor che eccedeva il legittimo diritto di critica, danneggiando ingiustamente la titolare di un ristorante.
Diritto all’oblio e de-indicizzazione: nell’ambito del pacchetto “Reputation Recovery”, lo studio interviene anche sul versante dei motori di ricerca. Grazie al Regolamento GDPR e alle normative europee sul diritto all’oblio, è possibile chiedere a Google & co. la de-indicizzazione di pagine web lesive, ossia la rimozione dei risultati di ricerca che contengono il nome dell’azienda o della persona associato a contenuti diffamatori o obsoleti. Si tratta di un ulteriore livello di tutela: anche se l’articolo diffamatorio originale non viene eliminato dal sito che lo ospita, impedirne la facile reperibilità tramite Google riduce enormemente il rischio che continui a nuocere alla reputazione. In caso di rifiuto del motore di ricerca, è possibile rivolgersi al Garante Privacy o al giudice civile per ottenere la de-indicizzazione forzata.
Come si vede, il pronto intervento legale in materia di reputazione online opera su più piani (extragiudiziale, penale, civile, amministrativo) in maniera coordinata. L’obiettivo è duplice: eliminare rapidamente il contenuto diffamatorio dalla circolazione e, al tempo stesso, sanzionare gli autori così da ottenere giustizia e dissuadere da future aggressioni. Vediamo allora più da vicino quali sono le basi giuridiche di queste azioni e come la giurisprudenza più recente le sta applicando.
La diffamazione è il fulcro giuridico attorno a cui ruota la difesa dell’onore digitale. Sul piano penale, l’art. 595 c.p. inquadra come reato la condotta di chi “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione”. L’elemento chiave è la comunicazione a più soggetti: ad esempio un post su Facebook visibile a vari contatti, un commento in un gruppo WhatsApp con più membri, oppure una recensione pubblica su un portale – tutti casi in cui l’offesa esce dalla sfera privata. La Corte di Cassazione ha chiarito che non occorre un pubblico sterminato: basta anche un gruppo ristretto ma più di una persona perché il reato sia configurabile. Ad esempio, la Cassazione Penale, Sez. V, sent. n. 5701/2024 ha confermato che un messaggio offensivo inviato a più destinatari separatamente può integrare diffamazione, mentre il messaggio rivolto a un solo interlocutore no. Inoltre, qualsiasi post pubblicato su un social network aperto a un numero indefinito di utenti è quasi certamente diffamazione aggravata “mediante mezzo di pubblicità”. In pratica, scrivere frasi gravemente denigratorie su Facebook, Instagram, Twitter o altri social equivale a commettere un reato.
Un aspetto interessante emerso dalla giurisprudenza riguarda il caso in cui l’offesa non menzioni esplicitamente il nome della vittima. Si pensi a un post allusivo, in cui non si fa il nome dell’azienda diffamata ma si lasciano intendere riferimenti chiari. Ebbene, anche in tali circostanze il reato sussiste. La Cassazione Penale (Sez. V) con due pronunce ravvicinate – sent. n. 14345/2024 e sent. n. 42553/2024 (depositata il 20/11/2024) – ha ribadito che il destinatario dell’offesa può essere individuato anche senza indicazione esplicita, purché dal contesto sia riconoscibile da una cerchia di persone. Nel caso esaminato dalla sentenza n. 42553/2024, ad esempio, l’autore di alcuni post accusava genericamente certa “stampa locale” di essere composta da “camorristi” estorsori: pur non facendo nomi, è risultato chiaro che il bersaglio delle offese era una specifica emittente televisiva regionale, che infatti si è attivata legalmente. La Corte, in quell’occasione, ha anche sottolineato che anche un’entità collettiva (società, associazione) può essere soggetto passivo di diffamazione: insomma, non solo le persone fisiche ma anche aziende e persone giuridiche hanno diritto alla tutela dell’onore. Nel caso in questione l’imputato è stato dichiarato colpevole, anche se il reato è poi stato dichiarato estinto per prescrizione (dato il tempo trascorso); tuttavia la Cassazione ha confermato la responsabilità civile a suo carico, obbligandolo a risarcire le spese legali della parte offesa. Ciò dimostra che, persino quando la via penale si blocca per ragioni tecniche (come la prescrizione), le conseguenze civili della diffamazione online restano e possono essere assai concrete (risarcimenti, rifusione di spese, ecc.).
Un elemento cruciale per distinguere una lecita critica da una diffamazione è la veridicità dei fatti narrati e la continente espressione delle opinioni. In linea generale, il nostro ordinamento ammette il diritto di critica (anche aspra) se esercitato su basi veritiere e con forma corretta. Ma se si accusano altri di fatti non veri, o si trascende in insulti gratuiti, non c’è diritto di cronaca o critica che tenga: si entra nell’illecito. Proprio su questo punto è intervenuta la recente Cassazione Penale, Sez. V, sent. n. 25026/2024, la quale ha delineato gli elementi essenziali del reato di diffamazione distinguendo fra semplici opinioni (consentite) e accuse diffamatorie (punibili). La Suprema Corte ha sottolineato in tale sentenza che conta la verità dei fatti attribuiti e la rilevanza sociale dell’informazione: una critica fondata su fatti veri e di pubblico interesse, espressa con moderazione, può rientrare nell’esercizio del diritto di critica; al contrario, attribuire falsamente a qualcuno comportamenti disonorevoli o usare epiteti gravemente offensivi esula dalla critica e configura diffamazione. Ad esempio, definire genericamente “scorretto” un servizio può essere opinione legittima, ma affermare falsamente che un professionista “truffa i clienti” oppure usare insulti pesanti travalica i limiti.
Un altro equivoco da evitare è pensare che basti usare il condizionale o porre un fatto sotto forma di domanda per sottrarsi alla diffamazione. Anche insinuare “[Tizio] potrebbe aver commesso…”, se l’insinuazione è infondata e lesiva, integra comunque offesa. Lo ha chiarito di recente la Cassazione, sent. n. 14196/2025, affrontando il caso di un blog che aveva scritto (al condizionale) di un ufficiale implicato in affari di narcotraffico. La Corte ha stabilito che il tempo verbale ipotetico non salva dall’illiceità: suggerire un fatto infamante con formule dubitative costituisce ugualmente diffamazione, perché getta un’ombra sulla reputazione altrui. Questo principio vale per i giornalisti e ancor più per chiunque pubblichi contenuti online: non si può lanciare il sasso e nascondere la mano usando condizionali o punti di domanda in modo strumentale. Insomma, “pare che Tizio rubi” è diffamatorio quanto “Tizio ruba”, se l’accusa è priva di fondamento.
Sul piano civile, come accennato, la persona diffamata (sia essa individuo o azienda) può ottenere tutela sia in forma specifica (ossia la rimozione del contenuto lesivo, tramite provvedimento d’urgenza o a seguito di condanna) sia per equivalente economico (risarcimento monetario del danno). In molti casi di diffamazione online i due percorsi – penale e civile – viaggiano affiancati: la sede penale accerta il reato e può dare ordine di pubblicare la sentenza di condanna (riparazione della reputazione) oltre a liquidare una provvisionale, mentre la sede civile quantifica compiutamente i danni subiti. Va ricordato che la propagazione virale di un contenuto offensivo può far aumentare il risarcimento: i giudici tengono conto di quante visualizzazioni e condivisioni abbia avuto il post diffamatorio nel valutare la gravità e la diffusione dell’offesa.
Un capitolo speciale della reputazione online riguarda le recensioni false o manipolate. Queste possono essere sia false recensioni negative, pubblicate magari da concorrenti sleali o da utenti anonimi con intento denigratorio, sia recensioni positive ingannevoli, magari comprate o sollecitate in modo poco trasparente da chi vuole migliorare artificialmente la propria immagine. Entrambe le forme sono dannose: le prime distruggono reputazioni meritate, le seconde falsano il mercato e la fiducia dei consumatori.
Dal punto di vista legale, pubblicare recensioni completamente inventate o denigratorie integra certamente gli estremi della diffamazione (qualora si imputino fatti o qualità negative falsi). Se ad esempio un utente scrive che il ristorante X “serve cibo avariato” senza che ciò sia vero, sta commettendo diffamazione aggravata a mezzo internet. Non a caso, stanno aumentando le denunce in questo ambito: diversi ristoratori italiani bersagliati da recensioni negative false negli ultimi tempi hanno sporto querela e ottenuto giustizia. Oltre al caso citato prima di Macerata, nel 2024 ha fatto scalpore un episodio a Rimini: un cliente scontento, dopo che gli era stato rifiutato un alcolico, ha inondato Tripadvisor e Google di commenti offensivi contro il locale; il risultato è stata una condanna penale a due mesi di reclusione da parte del Tribunale di Rimini (febbraio 2024). La sentenza ha lanciato un messaggio chiaro: chi usa le recensioni come arma di vendetta personale ne risponde davanti alla legge.
Le false recensioni positive, d’altro canto, pur non diffamatorie, rappresentano un illecito sotto il profilo della trasparenza commerciale. Offrire sconti o pagamenti in cambio di recensioni a 5 stelle, o peggio creare account falsi per lodare la propria attività e migliorare la reputazione, costituisce una pratica commerciale scorretta. In certi casi si può configurare la concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) soprattutto se viene ingannato il pubblico e danneggiata la concorrenza. Un precedente storico in Italia è arrivato nel 2024: per la prima volta Amazon ha vinto una causa civile contro un sito specializzato in compravendita di recensioni fake. Il Tribunale di Milano, sentenza del 20/03/2024, ha dichiarato illegale l’operato della piattaforma “Realreviews” – che rimborsava gli acquisti agli utenti in cambio di recensioni entusiastiche – ordinandone la chiusura per violazione delle norme sulla concorrenza sleale. Questa sentenza ha “passato alla storia” come un forte segnale: il business delle recensioni false, che vale miliardi nel mondo, non è tollerato neppure in sede civile.
Già prima di questo caso, l’Autorità Antitrust italiana era intervenuta più volte multando aziende sorprese a diffondere recensioni fasulle. Ad esempio, a fine 2023 la società “Facile Ristrutturare” è stata sanzionata per 4,5 milioni di euro dall’AGCM per aver disseminato online (su portali come Trustpilot e Opinioni.it) giudizi positivi non autentici scritti da propri collaboratori: una pesante punizione pecuniaria per pratica ingannevole. E va menzionato che in alcuni frangenti il fenomeno assume contorni criminali veri e propri: è emerso l’esistenza di “racket” delle recensioni negative, usate come strumento di ricatto. Alcuni ristoratori, ad esempio, hanno denunciato di aver ricevuto minacce di valanghe di recensioni 1 stella se non avessero pagato somme di denaro – una forma di estorsione 2.0 che conferma quanto la posta in gioco sia alta.
In Italia, attualmente, non esiste una figura di reato ad hoc per chi fabbrica o vende recensioni false positive (“astroturfing”), ma la normativa di settore sta evolvendo rapidamente. Già nel marzo 2023 il Parlamento ha recepito la direttiva UE “Omnibus” che considera le recensioni false una pratica commerciale scorretta a danno dei consumatori. Ciò obbliga le piattaforme a controllare e garantire, per quanto possibile, che le recensioni pubblicate provengano davvero da clienti reali: se non sono in grado di verificarlo, devono dichiararlo apertamente. Colossi come Amazon, TripAdvisor o Booking da tempo investono in sistemi anti-frode (anche con algoritmi di intelligenza artificiale) per individuare e rimuovere recensioni sospette: nel 2022 TripAdvisor dichiara di aver cancellato oltre 1,3 milioni di recensioni non autentiche. Dal canto suo Amazon ha costituito team dedicati di legali e investigatori per perseguire i broker di recensioni false ovunque nel mondo.
Sul fronte delle recensioni negative, comunque, chi le pubblica assumendo il falso rischia direttamente l’accusa di diffamazione (art. 595 c.p.), come visto. Se invece è l’azienda stessa a manipolare le proprie recensioni (ad esempio commissionando recensioni positive fasulle o offrendo incentivi per ottenerle), più che il penale scatterà la violazione delle norme sulla lealtà commerciale. Può intervenire l’AGCM (Antitrust) con pesanti sanzioni amministrative e, nei rapporti tra concorrenti, configurarsi concorrenza sleale. In sintesi: diffamazione per chi pubblica recensioni negative false contro altri; illecito commerciale per chi orchestra recensioni positive fake a proprio vantaggio. In entrambi i casi, però, la legge oggi offre strumenti alle vittime: querela e azione civile per chi subisce recensioni diffamatorie; segnalazione all’Antitrust e azione civile per concorrenza sleale per chi subisce una concorrenza falsata da review non genuine.
Visti i problemi diffusi, il legislatore italiano ha deciso di intervenire in modo più sistematico sul fenomeno delle false recensioni online. Recentemente, infatti, sono state proposte e approvate nuove misure normative, inserite nella Legge annuale per le PMI (piccole e medie imprese), specificamente mirate a contrastare le recensioni fasulle e tutelare l’immagine degli operatori onesti. Questo disegno di legge – in fase avanzata di approvazione tra fine 2024 e 2025 – introduce diverse novità importanti:
Recensioni solo con prova d’acquisto: sarà richiesta una prova documentale (es. scontrino, ricevuta o codice di prenotazione) per poter lasciare una recensione. Ciò non impedisce l’anonimato pubblico del recensore, ma dietro le quinte la piattaforma dovrà verificare che chi recensisce abbia effettivamente acquistato/usato il prodotto o servizio. L’intento è eliminare recensioni lasciate da chi non è cliente reale.
Limite di tempo per recensire: le recensioni andranno pubblicate entro un certo termine dall’esperienza (nelle ultime bozze, 15 giorni dalla fruizione del servizio). Riducendo il lasso temporale, si mira a prevenire recensioni postume inserite magari a distanza di mesi/anni solo per nuocere, e a garantire giudizi “a caldo” più attendibili.
Stop alle recensioni comprate o incentivate: divieto esplicito di offrire sconti, omaggi o altri vantaggi in cambio di recensioni positive. Questa pratica – purtroppo diffusa – verrà sanzionata per evitare che il consumatore sia indotto a rilasciare giudizi non sinceri dietro compenso. Allo stesso modo, sarà vietato acquistare o vendere pacchetti di recensioni (come quelle offerte da agenzie specializzate): una stretta necessaria per stroncare il mercato nero delle false review.
Diritto di replica e rimozione per le aziende: la normativa in arrivo rafforza anche le tutele per i soggetti bersaglio di recensioni. Si prevede il diritto di replica del titolare dell’attività colpita da un giudizio negativo: il commento del ristoratore/professionista dovrà avere pari visibilità accanto alla recensione, in modo da fornire la propria versione o eventuali scuse pubbliche se dovute. Inoltre, le aziende recensite potranno chiedere la rimozione di recensioni chiaramente false o ingannevoli entro un certo periodo (fino a 24 mesi dalla pubblicazione). Questo obbligo di eliminazione ridà un certo controllo all’esercente sulla propria reputazione digitale, almeno per i casi più eclatanti di falsità.
Sanzioni elevate e controlli affidati all’Antitrust: la vigilanza sul rispetto di queste regole sarà attribuita all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), in coordinamento con il Ministero e le altre autorità (es. Garante Privacy e AGCOM). Le sanzioni previste per chi violerà le nuove disposizioni sono molto pesanti, potendo arrivare fino al 10% del fatturato annuo dell’azienda responsabile. Si tratta di un deterrente significativo, pensato per colpire duramente chi dovesse continuare a manipolare sistematicamente il sistema delle recensioni. È prevista anche la figura dei “segnalatori attendibili” (ad esempio associazioni di categoria o di consumatori), che avranno un canale privilegiato per segnalare e far rimuovere tempestivamente recensioni false o diffamatorie.
Queste misure legislative rappresentano una risposta forte a un problema crescente. Se approvate in via definitiva, porteranno l’Italia all’avanguardia nella protezione della reputazione online di imprenditori e professionisti. Va detto che il panorama normativo europeo si muove nella stessa direzione: anche il nuovo Digital Services Act (DSA) dell’UE impone ai grandi operatori digitali obblighi di trasparenza e controllo sui contenuti illegali, comprese le fake reviews. D’ora in poi, chi pensava di poter diffamare o ingannare impunemente su internet avrà vita decisamente più difficile.
Affrontare una crisi di reputazione online è un percorso delicato, che richiede competenza legale, rapidità d’azione e sensibilità strategica. Ogni situazione è diversa: può trattarsi del singolo hater isolato oppure di un attacco coordinato, di diffamazione palese oppure di insidiosi commenti al limite della legalità. Un “Reputation Recovery” efficace parte sempre da un’analisi attenta del caso specifico e dall’individuazione degli strumenti giuridici più adatti da attivare. L’obiettivo finale non è solo eliminare le macchie digitali attuali, ma anche ripristinare la fiducia di clienti e partner e mettere in sicurezza il nome dell’azienda per il futuro. Per questo, accanto alla reazione immediata, lo Studio Legale MP fornisce anche consulenza su come prevenire nuove crisi reputazionali: ad esempio monitorando costantemente il web alla ricerca di riferimenti al proprio brand, o predisponendo policy interne per la gestione dei feedback negativi in modo trasparente e professionale. In un’epoca in cui “la reputazione corre sulla rete”, avere al proprio fianco un team legale preparato è un investimento fondamentale.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.