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Crisi d’impresa: responsabilità e soluzioni di risanamento - Studio Legale MP - Verona

La crisi d’impresa non significa più automaticamente fallimento. Normative e sentenze recenti offrono nuovi strumenti per tentare il risanamento dell’azienda, ma impongono anche obblighi stringenti a chi la gestisce. Esaminiamo come gli amministratori devono muoversi di fronte a una situazione di difficoltà economica, tra doveri legali inderogabili e opportunità concrete per salvare l’impresa e rilanciarl

 

Doveri degli amministratori nella crisi d’impresa

Chi guida un’impresa deve agire con la massima prudenza quando l’azienda entra in crisi. Le leggi recenti impongono obblighi precisi agli amministratori, affinché la crisi venga affrontata tempestivamente e con trasparenza. L’art. 2086 c.c., riformato dal Codice della Crisi, stabilisce che ogni impresa deve dotarsi di “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili” idonei a rilevare per tempo gli indizi di difficoltà. In altri termini, l’organo amministrativo ha il dovere di monitorare costantemente lo stato di salute finanziaria della società e di intervenire senza indugio al manifestarsi dei primi segnali di squilibrio (perdite significative, calo di liquidità, insoluti ripetuti, ecc.). Come recita il detto latino, “praemonitus, praemunitus”: essere preavvisati significa essere preparati. Un amministratore diligente, dunque, non deve attendere che la situazione precipiti, ma attuare subito misure correttive – ad esempio ricapitalizzazione, rinegoziazione dei debiti, ricerca di nuovi soci finanziatori – oppure, nei casi più gravi, valutare l’accesso a una procedura concorsuale prima che il patrimonio aziendale si eroda del tutto.

Questo approccio preventivo rappresenta un importante cambio di paradigma rispetto al passato. Si è passati da una visione “punitiva” dell’insolvenza, in cui il fallimento era quasi inevitabile e immediato alla perdita del capitale sociale, a una visione moderna che considera la crisi d’impresa come una fase fisiologica della vita aziendale, da gestire in modo trasparente nell’ottica di salvare il valore organizzativo. Oggi la legge consente, in certi casi, la continuità operativa sotto controllo durante la crisi, purché finalizzata al risanamento. Ad esempio, l’art. 2486 c.c. permette agli amministratori, dopo una causa di scioglimento, di proseguire temporaneamente la gestione solo per conservare l’integrità del patrimonio sociale: significa che nella “twilight zone” pre-fallimentare si può continuare l’attività soltanto se serve a evitare un ulteriore depauperamento e a tutelare creditori e asset aziendali.

Di riflesso a questi obblighi, la giurisprudenza ha adottato una linea molto rigorosa verso gli amministratori negligenti. Numerose sentenze recenti hanno condannato i vertici societari che hanno ignorato i segnali di crisi o aggravato il dissesto sperando in salvataggi improbabili. Ad esempio, Cass. civ., Sez. I, sent. n. 19847/2023 ha affermato che l’imprenditore deve adottare misure idonee a garantire l’equilibrio finanziario e la sostenibilità dell’impresa nel medio-lungo termine; nella vicenda esaminata, gli amministratori di una società fallita sono stati citati in giudizio per non aver implementato assetti adeguati e per aver perseverato in investimenti azzardati. Analogamente Cass. civ., sent. n. 3841/2024 ha confermato la responsabilità degli amministratori che, in una situazione di crisi latente, non solo omettevano di dotarsi di un assetto amministrativo adeguato, ma diffondevano anche informazioni poco veritiere ai soci e ai creditori nel tentativo di minimizzare la gravità dei problemi: tale condotta, qualificata addirittura come illecito concorrenziale, è costata loro una condanna al risarcimento. Insomma, chi gestisce una società deve agire con professionalità e correttezza: ignorare la crisi o, peggio, occultarla può comportare responsabilità gravissime. Non a caso, i procedimenti giudiziari contro amministratori per mala gestio sono in forte aumento (si stima siano raddoppiati, da circa 1.500 nel 2019 a oltre 3.000 nel 2023) e oggi coinvolgono anche i collegi sindacali: con la recente L. 35/2025, è stata riformata la responsabilità dei sindaci (art. 2407 c.c.), prevedendo sì un tetto al risarcimento in caso di sola colpa, ma anche esplicitando che i controllori interni possono rispondere in solido con gli amministratori verso creditori e soci se non vigilano adeguatamente. In sostanza, l’ordinamento chiede a chi amministra (o controlla) l’impresa di essere proattivo, competente e trasparente nella gestione: chi chiude gli occhi davanti alla crisi rischia in prima persona.

 

Rischi legali: azioni di responsabilità e reati fallimentari

Quando l’impresa viene travolta dai debiti, gli amministratori che non hanno agito correttamente possono subire conseguenze sul piano civile e, nei casi peggiori, anche penale. Sul piano civile, i creditori sociali hanno a disposizione la cosiddetta azione di responsabilità per indebita gestione (ex art. 2394 c.c.): se al momento del default il patrimonio della società risulta insufficiente a soddisfare i creditori, questi ultimi possono citare in giudizio gli amministratori accusandoli di aver violato i propri doveri di conservazione del patrimonio. Tipicamente ciò avviene quando viene contestata la prosecuzione abusiva dell’attività: anziché prendere atto delle perdite e fermare l’emorragia, i dirigenti hanno continuato ad accumulare debiti, aggravando il dissesto. In tal caso, come riconosciuto da numerose pronunce, il danno da risarcire coincide con l’aggravamento del passivo subito dai creditori a causa dell’inerzia o dell’azzardo degli amministratori. Per esempio, Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4257/2023 (orientamento del 2023, confermato poi in varie decisioni del 2024) ha condannato gli amministratori di una S.r.l. proprio perché avevano tardato nel rilevare lo stato di crisi e nel richiedere una procedura concorsuale, causando così un aumento irreversibile dei debiti: se avessero agito prima, il deficit verso i creditori sarebbe stato minore. Il messaggio è chiaro: chi osa “tirare a campare” mettendo a rischio i soldi altrui ne risponde di tasca propria.

Sul fronte penale, poi, entra in gioco la legge fallimentare (oggi integrata nel Codice della Crisi). La dichiarazione di fallimento – che nel nuovo ordinamento prende il nome di liquidazione giudiziale – può portare con sé l’apertura di un procedimento penale per bancarotta a carico degli amministratori, sindaci o liquidatori che abbiano commesso irregolarità. Le ipotesi più frequenti sono la bancarotta fraudolenta (distrazione di beni, falsificazione di bilanci, ecc.) e la bancarotta semplice, che punisce condotte meno dolose ma comunque imprudenti (come aver aggravato colpevolmente il dissesto o tenuto una gestione scriteriata). Una recente decisione della Cassazione ha evidenziato che anche comportamenti omissivi, all’apparenza “passivi”, possono configurare reato: Cass. pen., sent. n. 16005/2025 ha confermato la condanna per bancarotta documentale semplice degli amministratori di una società poi fallita, i quali si erano limitati a tenere una contabilità semplificata ai fini fiscali senza redigere i libri contabili obbligatori. Questa mancanza di una contabilità completa ha impedito di ricostruire movimenti e consistenza del patrimonio, violando i doveri imposti dalla legge: un’omissione classificata come grave negligenza, sufficiente per configurare il reato ai sensi dell’art. 323 del Codice della Crisi. In sintesi, gli amministratori di un’impresa in dissesto rischiano non solo il proprio patrimonio personale, ma anche la libertà: se dalle ceneri del fallimento emergono irregolarità gestionali, la Procura può procedere penalmente. Per questo è fondamentale agire sempre in modo onesto e diligente, documentando ogni scelta: qualsiasi summum ius applicato con rigore ai doveri degli amministratori può diventare summa iniuria per chi ha sbagliato, portando a sanzioni severe.

 

Errori da evitare nella gestione della crisi

Minimizzare o negare la crisi: sperare che il problema si risolva da solo è una ricetta per il disastro. Ignorare i segnali d’allarme iniziali ritarda interventi cruciali e aggrava la situazione.

Agire tardi per orgoglio o paura: richiedere aiuto o attivare una procedura concorsuale dopo che i creditori hanno già avviato azioni esecutive può essere troppo tardi. È fondamentale giocare d’anticipo, prima che la situazione precipiti.

Compromettere la trasparenza contabile: alterare i bilanci, nascondere debiti o distrarre attivi per evitare pignoramenti sono comportamenti non solo illeciti, ma anche controproducenti. Oltre al rischio penale, rendono impossibile qualsiasi piano di risanamento credibile.

Agire da soli senza consulenti esperti: la gestione della crisi richiede competenze multidisciplinari (legali, finanziarie, fiscali). Affidarsi a professionisti specializzati in diritto fallimentare e della crisi d’impresa può fare la differenza tra un fallimento disordinato e una ristrutturazione di successo.

 

Strumenti di risanamento e “seconda opportunità”

Affrontare la crisi d’impresa non significa rassegnarsi alla chiusura: oggi esiste una cassetta degli attrezzi legislativa pensata per aiutare l’imprenditore onesto a ristrutturare i debiti e salvare il valore aziendale, ove possibile. Il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza, allineato alla direttiva UE 2019/1023, incoraggia soluzioni che preservino la continuità aziendale rispetto alla liquidazione pura e semplice. Le principali strade per il risanamento si dividono in due categorie: strumenti stragiudiziali e procedure concorsuali.

Sul piano stragiudiziale (fuori dal tribunale) troviamo ad esempio il piano attestato di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Si tratta di accordi negoziati con i creditori, basati su un piano finanziario valutato da un esperto indipendente, che permettono di ristrutturare l’esposizione debitoria evitando il “marchio” di una procedura concorsuale pubblica. Questi accordi richiedono naturalmente la fiducia e l’adesione di una quota qualificata di creditori, ma hanno il vantaggio della riservatezza e della flessibilità negoziale. In alcuni casi, possono essere accompagnati da misure protettive concesse dal tribunale (ad esempio uno standstill sugli atti esecutivi dei creditori durante la trattativa).

Quando la strada privata non è percorribile o non basta, intervengono le procedure concorsuali vere e proprie, nelle quali l’autorità giudiziaria supervisiona il risanamento o la liquidazione. Il concordato preventivo è la procedura principe per evitare il fallimento: l’imprenditore in crisi propone ai creditori un piano, che può prevedere la continuità aziendale (concordato “in continuità”) oppure la liquidazione del patrimonio (concordato liquidatorio), spesso con una percentuale di pagamento parziale dei debiti. Se la maggioranza dei creditori approva la proposta e il tribunale la giudica fattibile, il concordato viene omologato e consente all’impresa di ripartire liberata da parte dei debiti (quelli stralciati nel piano). Una variante recente è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, riservato ai casi in cui sia fallito un tentativo di composizione negoziata: in questa procedura, introdotta nel 2021, non è previsto il voto dei creditori ma solo l’omologazione giudiziale, con l’obiettivo di velocizzare la liquidazione evitando il fallimento. Proprio sul concordato semplificato la giurisprudenza del 2025 ha fornito i primi chiarimenti: ad esempio è stato ritenuto legittimo creare classi separate per i crediti bancari assistiti da garanzia pubblica (Fondo MCC) prevedendo un fondo rischi ad hoc, al fine di rispettare la par condicio tra creditori chirografari e privilegiati (soluzione confermata in Trib. Milano, sent. 14 maggio 2025). Segno che le corti stanno cercando di adattare gli strumenti concorsuali alle nuove tipologie di debito emerse negli ultimi anni.

Un ruolo chiave, specie per le imprese medio-piccole, lo gioca la composizione negoziata della crisi. Introdotta nel 2021, la composizione negoziata è un percorso volontario in cui l’imprenditore, assistito da un esperto indipendente, tenta di raggiungere un accordo con i creditori con l’aiuto di alcuni benefici (come la sospensione delle azioni esecutive su istanza al tribunale). Questa procedura di allerta precoce ha già mostrato la sua efficacia in vari casi. Ad esempio, il Tribunale di Avezzano, con provvedimento del 22 aprile 2025, ha utilizzato la composizione negoziata per proteggere un’azienda con prospettive di ripresa: il giudice ha concesso misure cautelari innovative, bloccando le segnalazioni in Centrale Rischi e l’escussione delle fideiussioni personali dell’amministratore, in modo da non pregiudicare la reputazione creditizia dell’impresa né aggredire il patrimonio personale di chi stava cercando di salvarla. Questo provvedimento ha permesso all’azienda di tirare il fiato e portare avanti il piano di risanamento con maggiore serenità, confermando come – se vi sono concrete prospettive di risanamento – gli istituti della crisi possano essere usati in modo mirato per tutelare la continuità aziendale.

Va detto però che non sempre è possibile salvare l’impresa nella sua forma originaria. In alcuni casi, malgrado gli sforzi, si arriva alla liquidazione giudiziale (il vecchio fallimento) o, per le piccole imprese non fallibili, alla liquidazione controllata (procedura analoga prevista per i debitori “minori” nel sovraindebitamento). Anche in questi scenari meno lieti, tuttavia, il legislatore ha introdotto importanti novità che mitigano le conseguenze per l’imprenditore onesto. La più rilevante è sicuramente l’esdebitazione: al termine della liquidazione, l’imprenditore individuale può ottenere la cancellazione di tutti i debiti residui non soddisfatti, ripulendo la propria posizione e potendo così ricominciare senza il fardello delle obbligazioni pregresse. Si tratta di una sorta di fresh start, una seconda opportunità sul modello statunitense, che in passato non era scontata. Oggi l’esdebitazione è concessa in modo molto più ampio che in passato, come confermato da recenti decisioni: Cass. civ., Sez. I, sent. n. 27562/2024 ha chiarito che non esiste una soglia minima di pagamento dei creditori per ottenere l’esdebitazione – anche una soddisfazione simbolica dei crediti può bastare, purché il debitore abbia tenuto un comportamento leale e diligente durante la procedura. In altre parole, ciò che conta è la meritevolezza: se l’insolvenza non è frutto di frodi o colpe gravissime, il giudice può liberare il debitore dai debiti rimanenti anche quando il realizzo è stato modesto. Questa evoluzione è fondamentale perché garantisce che l’imprenditore meritevole non sia “sepolto” dai debiti per tutta la vita, ma possa tornare a svolgere attività economica e contribuire di nuovo al tessuto produttivo.

Un nodo ancora critico, semmai, riguarda la tutela di determinati creditori privilegiati nella fase di liquidazione. Ad esempio, nonostante gli sforzi del legislatore di proteggere per quanto possibile l’abitazione principale del debitore, la Cassazione ha di recente riconosciuto un importante limite: Cass. civ., Sez. I, sent. n. 22914/2024 ha stabilito che il privilegio fondiario delle banche (ex art. 41 TUB) si applica anche nella liquidazione controllata, consentendo all’istituto di credito ipotecario di proseguire o iniziare l’esecuzione immobiliare sulla casa del debitore malgrado la procedura concorsuale in corso. In pratica, la banca munita di mutuo ipotecario resta libera di andare avanti con l’asta della casa, senza attendere l’esito della procedura di sovraindebitamento. Questa interpretazione rigorosa – “summum ius, summa iniuria”, verrebbe da commentare – rischia di vanificare gli sforzi di chi sperava di salvare la propria casa attraverso il tribunale. Molti auspicano un intervento normativo correttivo su questo punto. Ad ogni modo, anche alla luce di pronunce come questa, risulta ancor più evidente che affrontare per tempo la crisi offre maggiori chance di tutelare il patrimonio personale: prima si cerca un accordo con i creditori o si attiva una procedura, più margine vi è per negoziare condizioni favorevoli (ad esempio evitando la vendita forzata degli immobili a valori di saldo).

In conclusione, il sistema attuale – pur con alcune imperfezioni – si muove verso un equilibrio tra esigenza di responsabilizzare gli imprenditori e necessità di dare una seconda possibilità a chi fallisce onestamente. Da un lato, i doveri di gestione prudente vengono ribaditi e chi sgarra ne paga le conseguenze; dall’altro, le procedure sono pensate per massimizzare il recupero evitando al contempo la “morte” definitiva dell’impresa o del debitore. Per un’azienda in difficoltà, oggi più che mai vale la pena tentare un percorso di risanamento: se c’è anche solo un nucleo sano nell’attività, il diritto offre strumenti per ristrutturare debiti e continuare l’attività (magari ridimensionata) invece di alzare bandiera bianca. E anche quando la chiusura è inevitabile, l’importante è gestirla in modo ordinato e legalmente corretto, così da beneficiare delle esenzioni di responsabilità previste e poter ripartire. Come scriveva Dante, “e quindi uscimmo a riveder le stelle”: dopo l’oscurità della crisi, un imprenditore che abbia agito con integrità può davvero aspirare a rivedere la luce e tornare a intravedere le “stelle” del successo, forte dell’esperienza acquisita.

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  • 29 settembre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.