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Crisi d'impresa: debiti fiscali tra soluzioni e rischi - Studio Legale MP - Verona

La normativa recente offre alle imprese in crisi nuovi strumenti per gestire i debiti fiscali; tuttavia ignorare la crisi può comportare gravi responsabilità per gli amministrator

 

Il peso dei debiti fiscali nelle crisi aziendali:
Affrontare una crisi d'impresa significa spesso misurarsi con debiti tributari gravosi. Le imposte non versate (IVA, ritenute, contributi) possono accumularsi rapidamente quando l'azienda attraversa difficoltà di liquidità. Nemo tenetur ad impossibilia: nemmeno la legge può pretendere l'impossibile dal debitore, ed è proprio su questo principio che si basano le recenti riforme. In passato, la presenza di ingenti debiti fiscali conduceva quasi inevitabilmente al fallimento; oggi, invece, normative innovative permettono di ristrutturare questi debiti, offrendo all'impresa una via d'uscita negoziata. Come ha scritto Ernest Hemingway, «Il mondo spezza tutti ma alcuni diventano più forti proprio nei punti spezzati.» L'obiettivo è far sì che l'azienda esca dalla crisi più forte e sana, anziché soccombere sotto il peso del Fisco.

 

Nuovi strumenti normativi per risanare i debiti tributari:
Con l'entrata in vigore del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (CCII) e dei successivi correttivi, il legislatore ha introdotto strumenti specifici per gestire i debiti fiscali nelle procedure di crisi. In particolare, la transazione fiscale è diventata il fulcro delle soluzioni negoziali col Fisco. Questo istituto consente all'imprenditore in difficoltà di proporre al Fisco (Agenzia delle Entrate e Agenzia della Riscossione) un pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari maturati. Ad esempio, un'azienda in crisi con €300.000 di debiti IVA e IRPEF potrebbe ottenere di pagare solo €120.000, suddivisi in 10 anni di rate, beneficiando dell'azzeramento di sanzioni e interessi, a condizione che tale somma non sia inferiore a quanto il Fisco otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale. In sostanza, la transazione fiscale funziona come una "rottamazione su misura" all'interno di una procedura concorsuale: l'Erario accetta di rinunciare a una parte del credito pur di incentivare la continuazione dell'attività d'impresa, evitando il tracollo definitivo.

Le novità più rilevanti riguardano la possibilità di estendere queste soluzioni anche fuori dal tribunale. Con la composizione negoziata della crisi (procedura introdotta nel 2021 e rafforzata dal correttivo del 2024), anche in assenza di un concordato formale, l'imprenditore può trattare i debiti fiscali con gli enti creditori. L'art. 23 CCII, novellato nel 2024, prevede infatti che durante una composizione negoziata si possa concludere un accordo con il Fisco avente gli stessi effetti di una transazione fiscale, purché approvato dal tribunale. Questo significa che oggi un'azienda può rinegoziare stragiudizialmente i propri debiti tributari, con possibilità di stralcio (taglio) dell'imposta dovuta, prima impensabili al di fuori di un concordato preventivo. In parallelo, l'art. 25-bis CCII ha introdotto misure premiali per chi ricorre tempestivamente alla composizione negoziata: l'Agenzia delle Entrate può concedere dilazioni straordinarie fino a 6-10 anni sulle imposte non ancora a ruolo, con una forte riduzione delle sanzioni e degli interessi di mora. Tali incentivi rendono la ristrutturazione fiscale più accessibile, premiando l'imprenditore che prende l'iniziativa di affrontare la crisi prima che degeneri.

 

Le pronunce della Cassazione a tutela della continuità aziendale:
Accanto alle riforme legislative, la giurisprudenza recente ha fornito chiarimenti fondamentali, rimuovendo alcuni ostacoli storici nel rapporto tra Fisco e procedure concorsuali. Un nodo cruciale riguardava il cosiddetto cram down fiscale: può un concordato preventivo essere omologato dal tribunale anche se l'Erario, maggiore creditore, vota contro la proposta? La Suprema Corte ha risposto affermativamente. Con l'ordinanza n. 27782/2024 (Cass. civ., Sez. I, 28 ottobre 2024) è stato messo nero su bianco che il tribunale può omologare un concordato preventivo con transazione fiscale anche in presenza di voto negativo dell'Agenzia delle Entrate, a patto che la proposta garantisca comunque al Fisco una soddisfazione minima (almeno il 30% del credito, secondo le soglie di legge) e che sia più vantaggiosa rispetto alla liquidazione fallimentare. Questa pronuncia innovativa ha eliminato di fatto il "diritto di veto" del Fisco, segnando una svolta: oggi l'agenzia fiscale non può più bloccare da sola un piano di risanamento se la proposta è seria e conveniente per tutti i creditori. Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 20036/2024 ha ulteriormente rafforzato questo orientamento, confermando che il giudice può procedere all'omologazione forzosa della transazione fiscale quando sono rispettate le condizioni di legge, ponendo fine a interpretazioni contrastanti del passato.

Un altro aspetto chiarito dalla Cassazione riguarda gli effetti delle procedure di crisi sui piani di rientro già in essere. Spesso l'imprenditore, prima di ricorrere al concordato, tenta di dilazionare i debiti tributari tramite rateazioni con l'Agente della Riscossione. Cosa accade a queste dilazioni quando sopravviene una procedura concorsuale? La risposta viene da Cass. civ., Sez. trib., sent. n. 12174/2024 (6 maggio 2024), la quale ha statuito che l'apertura di un concordato preventivo sospende automaticamente ex lege le rateizzazioni fiscali in corso, impedendo che il debitore decada dai benefici per il mancato pagamento delle rate durante la procedura. In pratica, se un'azienda ha in corso un piano di rate mensili con il Fisco e poi presenta domanda di concordato, non perderà la dilazione né subirà l'iscrizione a ruolo dell'intero debito residuo: il piano viene congelato per legge. Questo principio, confermato anche da altre pronunce (ad es. Cass. civ., Sez. I, ord. n. 4081/2023), tutela l'imprenditore che accede a una procedura di risanamento, evitandogli l'aggravarsi del debito proprio mentre cerca una soluzione concordata.

La Cassazione ha mostrato attenzione anche verso le procedure stragiudiziali di nuova introduzione. Un caso emblematico è quello della composizione negoziata della crisi: pur essendo una procedura volontaria e non rigidamente formalizzata come il concordato, ha ottenuto un riconoscimento importante dai giudici. La Cass. pen., Sez. III, sent. n. 30109/2025 (dep. 2 settembre 2025) ha affermato che la pendenza di una composizione negoziata, con la concessione delle relative misure protettive, esclude il periculum in mora necessario per disporre un sequestro preventivo penale sui beni dell'azienda. In altre parole, se l'imprenditore sta seguendo il percorso della composizione negoziata e ha ottenuto dal tribunale le misure protettive (come lo stop temporaneo alle azioni esecutive dei creditori), non sussiste il rischio di dispersione dei beni che giustificherebbe un sequestro: i beni aziendali sono già sotto controllo e tutela della legge. Si tratta di un segnale di fiducia nell'istituto della composizione negoziata: la Corte riconosce che, quando l'imprenditore attiva gli strumenti di aiuto previsti dalla legge, merita di essere protetto da ulteriori iniziative pregiudizievoli, anche in sede penale. Questa decisione crea un forte incentivo a utilizzare la composizione negoziata, sapendo che avviare per tempo il percorso di risanamento può mettere l'azienda al riparo da provvedimenti ablativi improvvisi.

 

Obblighi e responsabilità degli amministratori:
Le opportunità offerte dalle nuove norme implicano, di contro, una maggiore aspettativa di diligenza a carico degli organi societari. L'era in cui si poteva ignorare passivamente l'accumularsi dei debiti fiscali è finita. Oggi gli amministratori hanno il dovere preciso di attivarsi non appena emergono i primi segnali di insolvenza. L'art. 24 CCII e le Linee Guida del 2025 sul governo dell'impresa in crisi sottolineano che la società deve dotarsi di assetti adeguati a rilevare tempestivamente lo squilibrio finanziario. Ciò significa che amministratori, sindaci e revisori devono costantemente monitorare indicatori come il ritardo nei pagamenti di IVA, ritenute e contributi: un'impresa che inizia a non versare tributi sta lanciando un campanello d'allarme che non può essere ignorato. Se gli organi di controllo segnalano una criticità e gli amministratori restano inerti, questi ultimi rischiano azioni di responsabilità per mala gestio. In altri termini, far finta di nulla di fronte a debiti tributari crescenti può costare caro sul piano civile: i creditori (Fisco incluso) o i curatori potranno chiamare gli amministratori a rispondere personalmente dei danni provocati dall'inerzia o dal ritardo nell'attivare le procedure di crisi.

Vi è poi il versante delle responsabilità penali. Alcune violazioni fiscali costituiscono reato e lo stato di crisi non le giustifica automaticamente. Un esempio su tutti: l'omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000) sopra determinate soglie è punito penalmente. Spesso gli imprenditori in crisi di liquidità si chiedono se il dissesto finanziario possa fungere da scusante per non aver pagato allo Stato le ritenute operate ai dipendenti. Ebbene, la Cass. pen., Sez. III, sent. n. 30301/2025 ha ribadito che la crisi di impresa non costituisce di per sé una causa di esclusione della responsabilità penale per omesso versamento di ritenute. In quella pronuncia la Corte ha affermato che la temporanea carenza di liquidità, pur potendo essere considerata nella determinazione della pena, non esime l'imprenditore dagli obblighi fiscali né elimina il dolo richiesto dal reato, salvo situazioni eccezionali di forza maggiore. In altre parole, l'amministratore che, pur in difficoltà, omette di versare l'IVA o le ritenute commette comunque reato se supera le soglie di punibilità, e non potrà invocare come scusa la generica "crisi aziendale". Questa posizione rigorosa vuole evitare che il ritardo colposo nell'affrontare i debiti tributari si traduca in impunità: dura lex, sed lex – la legge è dura ma è la legge, soprattutto quando si tratta di tutelare gli interessi erariali e previdenziali dei lavoratori.

Alla luce di ciò, emerge un quadro chiaro: la legge oggi mette a disposizione delle imprese in crisi mezzi efficaci per risolvere i debiti fiscali (dilazioni, accordi, falcidie), ma in cambio esige responsabilità, trasparenza e attivazione tempestiva. Il management aziendale è chiamato a un delicato equilibrio: da un lato cogliere le opportunità di risanamento offerte dalle novità normative e giurisprudenziali, dall'altro non sottovalutare i propri doveri di buona gestione per evitare conseguenze sanzionatorie. La crisi d'impresa non è più un territorio oscuro di disperazione, ma un percorso normato in cui chi agisce con tempestività e competenza può salvare la propria azienda, mentre chi persiste nell'inerzia rischia di aggravare le proprie responsabilità.

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  • 06 ottobre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.