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Criptovalute tra fisco e reati: le recenti sentenze - Studio Legale MP - Verona

La Cassazione affronta le nuove sfide delle criptovalute: dalle tasse sui profitti in Bitcoin e NFT ai limiti dei sequestri nei reati fiscali, ecco come le pronunce più recenti stanno ridefinendo il quadro legale

 

«Quando i banchieri si trovano a cena, parlano d’arte. Quando gli artisti si trovano a cena, parlano di denaro.» – Oscar Wilde. Questa frase, ironica e quanto mai attuale, ben rappresenta la commistione tra arte, tecnologia e denaro nell’era delle criptovalute. I nuovi patrimoni digitali – dai Bitcoin alle opere digitali vendute come NFT – hanno creato situazioni inedite per il diritto. Come devono essere tassati i profitti realizzati in criptovaluta? Cosa accade se non vengono dichiarati al fisco? È possibile sequestrare dei Bitcoin nell’ambito di un’indagine per reati tributari? E ancora, vendere o gestire investimenti in criptovalute senza autorizzazione può integrare un reato? Di fronte a queste domande, la giurisprudenza italiana si sta rapidamente evolvendo. La Corte di Cassazione, in particolare, tra il 2024 e il 2025 ha emanato sentenze che fanno chiarezza su obblighi fiscali e limiti legali legati alle valute virtuali. Approfondiamo di seguito tre decisioni recenti che delineano il nuovo panorama giuridico per le cripto-attività.

 

Sequestro di Bitcoin e reati fiscali: il limite dell’equivalente

Una prima questione di grande rilievo ha riguardato la possibilità di sequestrare criptovalute per coprire imposte evase. In un caso concreto, nell’ambito di un procedimento per dichiarazione infedele dei redditi (ovvero omessa dichiarazione di parte dei guadagni al Fisco), era stato disposto il sequestro probatorio di una somma in Bitcoin corrispondente all’imposta presumibilmente evasa. La Cassazione, con una pronuncia recente (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 1760/2025 depositata il 15 gennaio 2025), ha annullato questo sequestro, segnando un principio importante: non si possono equiparare i Bitcoin alla valuta legale ai fini di un sequestro probatorio per equivalente. In altre parole, non è legittimo sequestrare criptovaluta per un valore pari al tax gap contestato, come si farebbe sequestrando una somma di denaro tradizionale.

La Suprema Corte ha motivato questa decisione sottolineando diversi aspetti tecnici: in primis, i Bitcoin non hanno corso legale in Italia (non sono “moneta a corso forzoso” garantita da uno Stato) e il loro valore di mercato è estremamente volatile. Ciò rende inaffidabile e arbitrario ancorare un sequestro al controvalore momentaneo di una criptovaluta. Un sequestro probatorio, infatti, dovrebbe mirare a preservare elementi utili come prova o a impedire l’aggravarsi delle conseguenze del reato, ma non può trasformarsi surrettiziamente in un sequestro per equivalente (cioè un congelamento di beni per assicurare la futura confisca del profitto illecito). Quest’ultimo tipo di misura – il sequestro preventivo finalizzato alla confisca – ha presupposti specifici previsti dalla legge, e nel caso esaminato non erano stati seguiti. In sintesi, la Cassazione ha chiarito che nel reato tributario di infedele dichiarazione non si può sequestrare in sede probatoria una quantità di Bitcoin pari all’imposta evasa, perché significherebbe trattare i Bitcoin come denaro contante, cosa che essi non sono. Sarà invece possibile, in caso di condanna, applicare le ordinarie misure patrimoniali (confisca) sul valore in euro del profitto illecito, ma durante le indagini “ignorantia legis non excusat”: la legge va applicata correttamente distinguendo i diversi tipi di sequestro. Questo principio tutela sia i diritti dell’indagato sia la logica del sistema: evitare forzature giuridiche nel tentativo di assimilare fenomeni nuovi (le criptovalute) agli schemi tradizionali, quando manchi una base normativa chiara.

 

NFT e obblighi fiscali: redditi in criptovaluta da dichiarare

Un secondo fondamentale intervento giurisprudenziale è arrivato in materia di tassazione dei proventi da criptovalute, con particolare riferimento alle vendite di NFT (Non-Fungible Token). Questi ultimi sono certificati digitali unici, spesso utilizzati per vendere opere d’arte digitali o collezionabili sulla blockchain. Il caso affrontato dai giudici riguardava un artista digitale che aveva venduto le proprie opere tramite NFT, ricevendo come corrispettivo pagamenti in criptovaluta (nello specifico Ethereum, sotto forma di token Ether) sia al momento della vendita iniziale sia come royalty sulle rivendite successive delle opere. L’artista, inizialmente, non aveva dichiarato al Fisco tali introiti, ritenendo forse che, non convertendoli in euro, non fossero imponibili. Su questa vicenda si è espressa la Cassazione con la sentenza n. 8269/2025 (Sez. III penale, depositata il 28 febbraio 2025), affermando un principio netto: i ricavi derivanti dalla vendita di NFT e più in generale i proventi in criptovaluta sono soggetti a tassazione e vanno dichiarati, anche se non vengono convertiti in moneta tradizionale.

In particolare, la Corte ha ricondotto tali redditi nell’alveo dei compensi da lavoro autonomo (ai sensi dell’art. 53 del TUIR, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi), equiparandoli ai proventi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno. Tradotto: se un artista (o un autore, un creatore di contenuti) vende un’opera digitale tramite NFT, il guadagno ottenuto in criptovaluta costituisce reddito imponibile al pari di un compenso in euro. Il fatto che il pagamento avvenga in Bitcoin, Ether o altre valute virtuali non esonera dal dichiararlo: la somma in questione va semplicemente valorizzata in euro al momento in cui è percepita. Secondo i giudici, il momento impositivo sorge al momento della transazione, e il valore in euro dev’essere calcolato usando il tasso di cambio corrente della criptovaluta in quel giorno. Anche il meccanismo delle royalties da NFT (percentuali che l’artista riceve ad ogni rivendita successiva) rientra tra i redditi tassabili.

Con questa sentenza, la Cassazione ha anche respinto le tesi difensive basate sull’asserita mancanza di chiarezza normativa: già prima delle circolari esplicative dell’Agenzia delle Entrate del 2023, l’obbligo di dichiarare questi redditi si desumeva dai principi generali del TUIR. Dichiarare di non sapere che andassero inclusi non scusa l’omissione – ignorantia legis non excusat, appunto – a meno che l’errore non sia stato inevitabile. Nel caso in esame, trattandosi di importi ingenti (oltre 800 mila euro di corrispettivi in criptovaluta non dichiarati in due anni) e di un’attività professionale continuativa, la buona fede è stata esclusa. Vale la pena notare che la normativa fiscale sulle criptovalute è in evoluzione: il legislatore italiano, con la legge di Bilancio 2023, aveva introdotto una franchigia di 2.000 euro sotto la quale le plusvalenze da cripto-attività non erano tassate, ma dal 2025 questa soglia di esenzione è stata abolita. Ciò significa che anche pochi euro di guadagno in criptovalute dovranno essere dichiarati. Inoltre, sempre dal 2025 l’aliquota sulle plusvalenze da valute virtuali è stata fissata al 26% (in linea con quella sulle rendite finanziarie tradizionali), con previsione di un aumento al 33% dal 2026. Questi aggiornamenti normativi confermano l’orientamento emerso in giurisprudenza: lo Stato vuole garantire che i profitti realizzati nel mondo crypto emergano e vengano tassati come quelli tradizionali, senza zone franche. Chi investe o opera con criptovalute dovrà quindi prestare grande attenzione a regolarizzare la propria posizione fiscale, eventualmente usufruendo delle procedure di collaborazione volontaria se messe a disposizione, per evitare di incorrere in sanzioni tributarie o, nei casi più gravi, in imputazioni penali per reati tributari.

Investimenti cripto e abusivismo finanziario: attenzione alle truffe

Il terzo ambito in cui le criptovalute hanno incrociato le aule di giustizia riguarda le attività di investimento e intermediazione finanziaria. La relativa novità e l’attrattiva delle monete virtuali, infatti, hanno anche favorito la nascita di schemi poco trasparenti e truffe ai danni dei risparmiatori. Un caso paradigmatico, affrontato dalla Cassazione con la sentenza n. 29649/2024 (depositata nell’anno 2024), ha riguardato un individuo che aveva raccolto denaro da vari clienti promettendo investimenti in prodotti finanziari inesistenti e in criptovalute, il tutto senza alcuna autorizzazione e con modalità ingannevoli. In pratica, si trattava di un intermediario improvvisato che, millantando competenze e opportunità di guadagno nel settore crypto, convinceva le persone ad affidargli fondi, poi in parte distratti. Le vittime credevano di investire in Bitcoin o altri strumenti redditizi, ma in realtà erano di fronte a un’attività irregolare.

La Corte di Cassazione, in questa vicenda, ha confermato la condanna per esercizio abusivo di attività finanziaria (art. 166 del TUF, Testo Unico della Finanza). Pur riconoscendo che le criptovalute di per sé non sono equiparate ai tradizionali strumenti finanziari regolati, i giudici hanno posto l’accento sul modo in cui l’operatore ha agito: raccogliere denaro dal pubblico con la promessa di investirlo, stipulando di fatto contratti di gestione o investimento senza avere le abilitazioni richieste (iscrizione agli albi, autorizzazione Consob, ecc.) costituisce reato. La Cassazione ha chiarito che ciò che conta, ai fini dell’abusivismo finanziario, è la natura dell’attività svolta più che l’oggetto specifico dell’investimento. Se un soggetto offre servizi di investimento, consulenza o gestione patrimoniale in criptovalute in modo professionale e continuativo, rivolgendosi a clienti e maneggiando il loro denaro, sta di fatto operando come un intermediario finanziario. E farlo senza licenza configura il reato, anche se le valute virtuali di per sé non rientrano ancora esplicitamente nelle categorie di prodotti finanziari tipici. Al contrario, la mera compravendita di criptovalute per conto proprio, o il mining, o l’occasionale consiglio tra amici, non integrano alcun illecito: un privato cittadino è libero di acquistare Bitcoin per sé e questo non costituisce intermediazione. Il crinale è oltrepassato quando c’è un’offerta al pubblico di servizi di investimento organizzata e priva di autorizzazione.

Questa pronuncia è importante perché mette in guardia sia gli operatori sia i clienti: chi propone investimenti in criptovalute promettendo rendimenti facili deve avere le carte in regola, altrimenti rischia pesanti conseguenze penali. E, dal lato degli investitori, occorre diffidare di chiunque offra servizi finanziari sul mercato crypto senza essere un intermediario autorizzato: l’assenza di vigilanza espone a truffe e perdite totali dei fondi. Come sintetizzato efficacemente dalla Cassazione, la “natura” delle criptovalute (non assimilabili a strumenti finanziari tradizionali) non è un lasciapassare per operare fuori dalle regole: se l’attività svolta è sostanzialmente quella di un broker o di un gestore finanziario, si applicano le norme a tutela dei risparmiatori. Dunque, il mondo crypto non è un “Far West” senza legge: le autorità possono perseguire sia i reati fiscali legati alle criptovalute sia i comportamenti fraudolenti o abusivi nel proporre investimenti in questo settore.

Dal quadro che emerge da queste sentenze – tra loro complementari – si ricava un messaggio chiaro: l’ordinamento italiano sta cercando di incorporare le criptovalute nel sistema legale esistente, facendo prevalere la substantia sulla forma. Se c’è un reddito, va tassato; se c’è un profitto illecito, sarà confiscato (ma rispettando le procedure corrette); se c’è un servizio finanziario, deve sottostare alle regole del settore finanziario. Il diritto, insomma, si adatta alla tecnologia, applicando i principi di sempre a scenari nuovi. Allo stesso tempo, resta evidente la necessità di una normativa più organica: si attende l’entrata in vigore del Regolamento UE “MiCA” (Markets in Crypto-Assets), che uniformerà a livello europeo molti aspetti, e il legislatore nazionale potrà intervenire per colmare i vuoti. Nel frattempo, Cassazione e autorità giudiziarie tracciano le linee guida caso per caso. Chi opera con criptovalute – investitori, professionisti o anche semplici appassionati – farebbe bene a seguire da vicino questi sviluppi. Conoscere le regole evita di incorrere in errori costosi: ad esempio, omettere di inserire Bitcoin e NFT nella dichiarazione dei redditi può portare non solo a sanzioni amministrative, ma addirittura a denunce penali sopra determinate soglie; affidarsi a operatori improvvisati può significare perdere tutti i propri risparmi senza tutela.

In definitiva, le criptovalute non sono più un fenomeno di nicchia e il diritto sta facendo la sua parte per garantire certezza e legalità in questo campo. “Fiat iustitia, et pereat mundus” – sia fatta giustizia, costi quel che costi. Le nuove decisioni dei tribunali italiani dimostrano che la giustizia sta arrivando anche nel mondo di Bitcoin e affini, proteggendo sia gli interessi erariali dello Stato sia quelli dei cittadini onesti contro frodi e abusi.

 

Se tu o la tua azienda vi trovate ad affrontare questioni legali legate alle criptovalute – dalla tassazione dei profitti in Bitcoin alle indagini per reati fiscali, fino a problemi di truffe finanziarie nel settore crypto – non esitare a rivolgerti allo Studio Legale MP. Il nostro team, con sede a Verona, vanta esperienza aggiornata in diritto tributario e nelle nuove frontiere digitali. Possiamo offrirti consulenza qualificata e assistenza personalizzata per tutelare al meglio i tuoi interessi. Contattaci oggi stesso: affronteremo insieme ogni sfida legale nel mondo delle criptovalute, trasformando le complessità normative in soluzioni concrete per te.

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  • 15 settembre 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.