La Corte di Cassazione – con la sentenza n. 24289 del 1° settembre 2025 (Sez. I Civ.) – ha affrontato un caso destinato a fare scuola in materia di diritti successori dell’ex coniuge divorziato. Al centro vi è l’assegno divorzile (la somma periodica riconosciuta al coniuge economicamente più debole dopo lo scioglimento del matrimonio) e il suo rapporto con il trattamento di fine servizio (TFS, ossia l’indennità di fine rapporto lavorativo, spesso denominata TFR nel settore privato). La questione era la seguente: se l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile muore, i suoi eredi possono subentrare nel diritto a incassare la quota di TFS maturata dall’altro ex coniuge deceduto? La Cassazione, con un’approfondita motivazione, ha dato risposta affermativa, riconoscendo la trasmissibilità di tale diritto agli eredi, a determinate condizioni, e inquadrandolo come diritto di natura patrimoniale. Actio personalis moritur cum persona, recita un antico brocardo: l’azione di carattere personale si estingue con la morte della persona. Ebbene, la Suprema Corte ha stabilito che questo principio non impedisce agli eredi di far valere il diritto in questione, perché esso non è un diritto personalissimo dell’ex coniuge, bensì un diritto economico che entra nel patrimonio e, quindi, nell’asse ereditario.
Per comprendere la portata di questa pronuncia, occorre ricordare il quadro normativo di riferimento e l’evoluzione giurisprudenziale recente (2024–2025) in materia. L’ordinamento italiano prevede da tempo alcuni importanti diritti in favore del coniuge divorziato. In particolare, la Legge 1 dicembre 1970 n. 898 (legge sul divorzio), come modificata nel 1987, sancisce due aspetti cruciali: da un lato, il diritto dell’ex coniuge a un assegno divorzile ove ne ricorrano i presupposti (art. 5), dall’altro, alcune provvidenze previdenziali e di fine rapporto in suo favore. Tra queste troviamo la pensione di reversibilità (o una quota di essa) e, appunto, la quota del trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge lavoratore. L’art. 12-bis della legge sul divorzio – introdotto nel 1987 – stabilisce che al coniuge divorziato cui spetta l’assegno divorzile e che non sia passato a nuove nozze spetta una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. In pratica, se Tizio e Caia divorziano e Caia ha diritto a un assegno divorzile, quando Tizio lascia il lavoro ed ottiene il TFR/TFS, Caia ha diritto a una quota di quella somma (generalmente il 40% dell’indennità maturata negli anni in cui il matrimonio è coinciso con il lavoro di Tizio). Analogamente, l’art. 9 della stessa legge prevede che, in caso di morte di Tizio, Caia possa aver diritto a una quota della pensione di reversibilità di Tizio, proporzionalmente alla durata del matrimonio e alle sue condizioni economiche, purché anche qui Caia sia titolare di assegno divorzile e non si sia risposata. Queste norme perseguono finalità di solidarietà post-coniugale, riconoscendo che il vincolo matrimoniale – pur sciolto sul piano personale – lascia tracce sul piano economico, soprattutto a tutela del coniuge “debole” (tipicamente quello che ha sacrificato carriera e reddito per la famiglia).
Negli ultimi anni la giurisprudenza ha più volte chiarito e affinato i criteri applicativi di tali disposizioni, in un quadro socio-economico mutato (si pensi alle nuove forme di previdenza complementare, ai pensionamenti anticipati, etc.). Nel 2024 la Cassazione si è pronunciata sui criteri di ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge divorziato e coniuge superstite, confermando un approccio equitativo. Ad esempio, con ordinanza 10 giugno 2024 n. 16053 (Sez. I Civ.) la Suprema Corte ha ribadito che la durata del matrimonio, pur rimanendo criterio centrale, non è l’unico parametro per attribuire la quota di reversibilità all’ex coniuge. Vanno considerati anche l’entità dell’assegno divorzile di cui l’ex coniuge godeva, le condizioni economiche delle parti e persino elementi come eventuali convivenze prematrimoniali tra il defunto e il coniuge superstite. In tale decisione, la Corte ha sottolineato che l’ammontare dell’assegno divorzile non costituisce un tetto massimo alla quota di pensione spettante all’ex coniuge: se, ad esempio, l’ex coniuge percepiva un modesto assegno mensile, egli non è automaticamente limitato a quella cifra sulla reversibilità, potendo aspirare a una quota maggiore se i parametri di equità lo giustificano. Questo orientamento, confermato poi da altre pronunce nel 2025 (cfr. Cass. Civ. Sez. I, ord. 5 marzo 2025 n. 5839), evidenzia la tendenza dei giudici a privilegiare una valutazione caso per caso, improntata alla funzione solidaristica dell’istituto della reversibilità, più che a rigidi calcoli matematici. Del resto, la giustizia familiare richiede bilanciamento: «La giustizia è la costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo», diceva Ulpiano, e nel distribuire una pensione tra ex coniuge e coniuge attuale, la volontà della legge è proprio quella di dare a ciascuno ciò che gli spetta in modo proporzionato e giusto.
Parallelamente, la Cassazione nel biennio 2024–2025 ha affrontato nodi interpretativi riguardanti la quota di TFR/TFS spettante all’ex coniuge. Un problema inedito è sorto con la diffusione dei fondi pensione integrativi: cosa accade se il lavoratore, prima del divorzio, trasferisce il proprio TFR in un fondo pensione? In tal caso all’atto della cessazione del rapporto di lavoro non si genera un “TFR” liquidato dal datore di lavoro, bensì una prestazione pensionistica integrativa futura. La Cassazione, Sez. I, sent. n. 20132/2025, ha stabilito che l’ex coniuge non ha diritto a una quota di TFR che sia già stato destinato a un fondo di previdenza complementare prima della domanda di divorzio. In quella vicenda, l’ex moglie divorzianda aveva chiesto il 40% del TFR dell’ex marito, salvo scoprire che egli aveva già conferito anni prima l’intero TFR maturato in un fondo Previndai. Ebbene, dopo alterne soluzioni nei gradi di merito, la Suprema Corte ha confermato che l’art. 12-bis L. 898/1970 si applica solo alle somme effettivamente percepite come TFR al momento della cessazione del rapporto di lavoro, escludendo quelle che il lavoratore, legittimamente, abbia trasformato in una diversa prestazione previdenziale (mediante conferimento a un fondo) prima del divorzio. La logica è chiara: il legislatore nel 1987, introducendo tale norma, presupponeva che il TFR restasse accantonato e venisse corrisposto in un’unica soluzione; se invece il TFR è stato tramutato in una rendita pensionistica complementare, esso perde la natura di trattamento di fine rapporto e diventa altro (patrimonio segregato nel fondo, destinato a future pensioni integrative). In tal caso, l’ex coniuge potrà semmai chiedere un adeguamento dell’assegno divorzile in funzione di quella maggiore disponibilità pensionistica dell’obbligato, ma non una quota diretta del fondo. Questo principio, enunciato nel 2025 e preceduto da un’ordinanza interlocutoria (Cass. ord. 30 marzo 2025 n. 8375) che aveva rimesso la questione alla pubblica udienza, è destinato a guidare i casi futuri: la quota di TFR spetta all’ex coniuge solo entro i limiti in cui quel TFR sia effettivamente liquidato al lavoratore, restando invece esclusi dal computo eventuali importi già usciti dalla disponibilità del datore di lavoro prima del divorzio per scelte previdenziali legittime.
Su questo sfondo di principi consolidati, arriva la sentenza Cass. n. 24289/2025 qui in esame, che compone un ulteriore tassello nel mosaico: la trasmissibilità agli eredi del diritto alla quota di TFS dell’ex coniuge divorziato. Il caso concreto vedeva un ex marito lavoratore andato in pensione anticipata con il regime “Quota 100” e successivamente deceduto; la ex moglie divorziata (beneficiaria di assegno divorzile e mai risposatasi) aveva maturato il diritto a una quota del suo TFS al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma anch’ella era deceduta prima di poter ottenere concretamente la liquidazione di tale somma. I figli di lei, in qualità di eredi, hanno proseguito l’azione per vedersi riconosciuta la quota di indennità di fine servizio che sarebbe spettata alla madre. La questione era intricata perché il pagamento del TFS, nel frattempo, risultava differito: nel sistema “Quota 100” – come previsto dall’art. 23 del D.L. 4/2019 – il dipendente pubblico che va in pensione anticipata ottiene l’indennità di fine servizio solo dopo un differimento di 2-3 anni (ossia al raggiungimento teorico della pensione di vecchiaia). Si era dunque creato un lasso temporale tra la maturazione del diritto (fine lavoro del pensionato) e l’esigibilità effettiva del TFS, durante il quale è intervenuto il decesso dell’ex coniuge avente diritto. La Corte di Cassazione ha colto l’occasione per fissare dei principi di diritto chiari, superando ogni dubbio: innanzitutto, il diritto dell’ex coniuge alla quota di TFS sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro dell’obbligato, anche se il pagamento materiale dell’indennità è posticipato per legge. Dunque, nel caso in esame, la ex moglie aveva acquisito il diritto alla sua quota appena l’ex marito era andato in pensione (sebbene né lui né lei avessero ancora incassato nulla, per via del differimento). In secondo luogo, la Corte ha ribadito che l’effettiva percezione dell’indennità da parte del lavoratore costituisce una “condizione dell’azione” per l’ex coniuge. In altri termini, l’ex coniuge può agire giudizialmente per la propria quota di TFS solo quando il lavoratore ha effettivamente ricevuto (o sta per ricevere) il TFS: se il pagamento non è stato ancora effettuato, la domanda giudiziale risulta prematura. Tuttavia – ed ecco il punto nodale – si tratta di una condizione dell’azione che può venire meno anche in corso di causa: è sufficiente, dice la Cassazione, che il pagamento al lavoratore avvenga prima della decisione giudiziale, anche se dopo l’introduzione della domanda. Questa elasticità evita ingiustificate perdite di diritti per meri fattori temporali.
Conseguentemente, la Corte ha sancito che il diritto alla quota di TFS ha natura patrimoniale e, se il decesso dell’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile interviene dopo la cessazione del rapporto di lavoro dell’altro ex coniuge, tale diritto può essere esercitato dagli eredi del defunto.
In altri termini, una volta che il rapporto di lavoro dell’obbligato è terminato e l’ex coniuge avente diritto ha visto sorgere (in potenza) il proprio credito sul TFS, la successiva morte di quest’ultimo non estingue il credito, che entra nel suo patrimonio e quindi si trasmette mortis causa. Gli eredi subentrano nella posizione del de cuius e possono esigere la somma dovuta. La sentenza sottolinea che ciò vale anche se il pagamento dell’indennità da parte dell’ente datore di lavoro avviene in un momento successivo (per ragioni di finanza pubblica, come nel caso dei pensionamenti anticipati che posticipano il TFS): ciò che rileva è che la cessazione del lavoro si sia verificata e che, entro la conclusione del giudizio, l’indennità venga effettivamente liquidata. Si tratta, come evidente, di una soluzione improntata a equità e tutela sostanziale dei diritti: sarebbe infatti irragionevole privare gli eredi di una somma che era già nel patrimonio (sia pur condizionato) dell’ex coniuge al momento della sua morte. La Cassazione ha dunque composto il delicato bilanciamento tra il principio per cui “morte dissolve il matrimonio e i relativi obblighi” (mors omnia solvit, come si suol dire) e l’esigenza di assicurare continuità ai diritti economici già maturati. Ne risulta un quadro coerente: l’obbligo di corrispondere la quota di TFS all’ex coniuge permane anche dopo la morte di quest’ultimo, dovendosi versare agli eredi quella stessa “quota di liquidazione” che il coniuge divorziato avrebbe percepito se fosse rimasto in vita.
Questa pronuncia conferma come, nel biennio 2024–2025, la Suprema Corte abbia rafforzato l’idea dell’assegno divorzile non solo come strumento assistenziale “in vita”, ma anche come fonte di diritti post mortem di carattere patrimoniale. L’ex coniuge divorziato viene così equiparato in parte a un coniuge superstite (pur dovendo concorrere con esso in caso di pensione di reversibilità, o restando escluso se si è risposato, ecc.), nel riconoscimento di una continuazione della solidarietà anche dopo la scomparsa dell’obbligato. Questa evoluzione giurisprudenziale si muove nel solco tracciato già da alcune Sezioni Unite negli anni precedenti sul ruolo “compensativo-perequativo” dell’assegno divorzile, e aggiunge un tassello ulteriore: il diritto dell’ex coniuge è un vero e proprio diritto di credito, che come tale si trasferisce agli eredi secondo le normali regole successorie, se già sorto nel patrimonio del titolare. In definitiva, il messaggio lanciato dalla Cassazione è chiaro: la giustizia post-coniugale non lascia zone d’ombra – ciò che spetta all’ex coniuge deve essere riconosciuto, e nemmeno la morte può ingiustamente interrompere questo circuito di tutela. «Nessuna eredità è così ricca come l’onestà», scriveva Shakespeare: in questo contesto, onestà significa anche correttezza e trasparenza nel riconoscere agli aventi diritto (in vita o per successione) ciò che è loro dovuto, evitando che manovre elusive o cavilli temporali impediscano il realizzarsi della giustizia sostanziale. Chi si trova ad affrontare questioni di successione legate a ex coniugi divorziati – si pensi alla ripartizione di una pensione di reversibilità tra ex coniuge e nuova famiglia, o alla rivendicazione di un TFR non percepito – dovrà quindi tenere conto di questi principi. La Cassazione del 2025 offre una bussola: tutela dell’ex coniuge e dei suoi eredi, nel rispetto delle condizioni di legge, e visione del diritto di famiglia che abbraccia anche il momento successorio e previdenziale, in un’ottica di continuità e giustizia.
Le tematiche qui trattate dimostrano quanto sia complesso il punto di incontro tra diritto di famiglia, previdenza e successioni. Se state affrontando questioni relative ad assegni divorzili, pensioni di reversibilità o diritti successori dell’ex coniuge, non esitate a contattare lo Studio Legale MP. Il nostro team di professionisti, costantemente aggiornato sulle più recenti evoluzioni giurisprudenziali, potrà offrirvi consulenza qualificata e assistenza personalizzata per tutelare al meglio i vostri diritti e quelli dei vostri cari. Contattaci oggi stesso per una consulenza: siamo al vostro fianco per fare in modo che la giustizia e l’equità prevalgano in ogni fase della vostra vicenda familiare.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.