Buoni pasto: benefit aziendale o parte della retribuzione?
I buoni pasto sono da anni uno strumento di welfare aziendale molto diffuso nel diritto del lavoro italiano. Si tratta di ticket dal valore economico che il datore di lavoro fornisce ai dipendenti per contribuire al costo del pranzo. Ma dal punto di vista giuridico, il buono pasto è considerato salario oppure no? Su questo aspetto la Corte di Cassazione ha una posizione chiara: il buono pasto non è un elemento della retribuzione, bensì un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso occasionale. In altre parole, la sua funzione è aiutare il lavoratore a sostenere il pasto quando l’orario di lavoro non gli consente di farlo a casa, non remunerare la prestazione lavorativa. Questa qualificazione comporta conseguenze importanti: ad esempio, i buoni pasto non rientrano nel calcolo del TFR o della tredicesima mensilità e non sono tutelati dal principio di irriducibilità della retribuzione (art. 2103 c.c.). Ciò significa che, in assenza di un vincolo contrattuale, l’azienda può sospendere o modificare l’erogazione dei buoni pasto senza infrangere il divieto di riduzione dello stipendio, proprio perché il ticket restaurant è formalmente un benefit e non parte dello stipendio.
Tuttavia, la distinzione tra elemento retributivo e benefit welfare non esaurisce la questione. I buoni pasto sono istituiti tipicamente dai CCNL (Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro) o da accordi aziendali: queste fonti negoziali stabiliscono chi ha diritto al ticket, in quali condizioni e con quali limiti. Ad esempio, alcuni contratti prevedono il buono pasto solo per chi osserva un orario giornaliero superiore a un certo numero di ore. In mancanza di una previsione contrattuale, l’erogazione del buono pasto potrebbe derivare da un uso aziendale consolidato: se il datore di lavoro per lungo tempo ha concesso i buoni pasto a tutti i dipendenti, questa prassi può divenire un obbligo implicito (inserendosi nei contratti individuali ai sensi dell’art. 1340 c.c.). In sintesi, la regola generale è che la spettanza del buono pasto dipende dalla volontà delle parti e dalla contrattazione collettiva, non essendovi (ad oggi) una legge che garantisca espressamente questo benefit a tutti i lavoratori.
Buoni pasto in ferie: retribuzione invariata per un riposo effettivo
Una prima novità importante arriva dalla Cassazione in tema di ferie annuali retribuite. Tradizionalmente, molte aziende non corrispondono i buoni pasto nei giorni di ferie o di permesso, ritenendo che il ticket sia legato solo ai giorni di effettiva presenza al lavoro. Questa prassi è stata messa in discussione dalla Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 25840/2024 (27 settembre 2024). Con questa pronuncia la Suprema Corte ha stabilito un principio chiave: il lavoratore in ferie ha diritto allo stesso trattamento economico che avrebbe lavorando, includendo quindi tutti i compensi e benefici di natura ordinaria, buoni pasto compresi. La decisione si fonda sui principi europei (art. 7 della direttiva 2003/88/CE) secondo cui il periodo di ferie annuali deve essere un periodo di riposo retribuito in modo effettivo. In altri termini, il dipendente non può “pagare due volte” le sue ferie, perdendo una parte del proprio trattamento economico solo perché si assenta dal lavoro. Se un dipendente normalmente riceve un buono pasto ogni giorno di lavoro, non percepirlo durante le ferie comporta una diminuzione indiretta della retribuzione proprio nel periodo di riposo. Questo potrebbe disincentivare il lavoratore dal fruire delle ferie maturate, vanificando la finalità di tutela della salute e del benessere del dipendente. La Cassazione ha quindi chiarito che il dipendente in ferie va posto in condizione di non perdere nulla dal punto di vista economico: l’azienda dovrà riconoscere i buoni pasto anche per i giorni di ferie (o un equivalente se l’organizzazione interna non consente di distribuirli). In caso contrario, il lavoratore potrebbe legittimamente rivendicare la differenza di trattamento come violazione del diritto alle ferie retribuite. Si tratta di una svolta significativa, destinata a incidere sulle politiche aziendali: datori di lavoro e uffici HR dovranno adeguarsi, prevenendo possibili contenziosi.
Buoni pasto e smart working: parità di trattamento o situazioni diverse?
Diverso è il discorso per il lavoro agile (o smart working). La legge italiana (L. n. 81/2017) prevede che il lavoratore agile abbia diritto allo stesso trattamento economico e normativo di chi lavora in azienda. Verrebbe naturale pensare che tale parità implichi anche l’erogazione dei buoni pasto a chi svolge attività da remoto. In realtà, proprio la natura non retributiva del buono pasto fa sì che la sua estensione automatica allo smart working non sia garantita. Se il presupposto del ticket è compensare il “disagio” del pasto consumato fuori casa, nel lavoro da remoto tale disagio viene meno (il dipendente lavora già da casa propria e può organizzarsi autonomamente per il pranzo). Su questo punto la giurisprudenza si è espressa in modo articolato. Una serie di pronunce ha confermato che il diritto al buono pasto in smart working sussiste solo se previsto da accordi o contratti: non è un obbligo universale. Ad esempio, la Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 16135/2020 ha ritenuto legittimo il comportamento di un’azienda che, in un caso specifico, aveva soppresso i buoni pasto per i dipendenti in lavoro agile, in assenza di un vincolo contrattuale che lo impedisse. In altre parole, se i CCNL applicabili o gli accordi individuali non contemplano espressamente il buono pasto per chi opera da remoto, il datore di lavoro può decidere di non erogarlo durante le giornate di smart working. Questa impostazione riflette la qualifica del buono pasto come benefit assistenziale: non essendo salario, non opera quell’uguaglianza automatica di trattamento economico. Come ammonisce Orwell nel suo romanzo La fattoria degli animali: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Un principio di parità solo formale rischia di tradursi, di fatto, in una disparità. Ecco perché è fondamentale leggere sempre quanto stabilito dal contratto collettivo: molti CCNL recenti (soprattutto nel settore pubblico) hanno specificato che il buono pasto non spetta durante lo svolgimento di lavoro agile, oppure lo riconoscono solo al ricorrere di determinate condizioni (ad esempio, presenza di una fascia di lavoro continuativo superiore a un certo numero di ore).
Va detto, però, che il tema è ancora in evoluzione e non mancano posizioni difformi. Alcune sentenze hanno evidenziato come la chiave sia nell’interpretazione del contratto collettivo di riferimento. Un esempio viene dal settore sanitario, dove gli orari di lavoro sono organizzati su turni e la fruizione della pausa mensa non è sempre scontata. La Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 16938/2025 (24 giugno 2025) ha affrontato il caso di una dipendente ospedaliera turnista a cui l’azienda negava sia la pausa mensa sia i buoni pasto durante certi turni (in particolare quelli antimeridiani, ritenendo che terminando il lavoro alle 13 la lavoratrice potesse mangiare a casa senza necessità del ticket). La Suprema Corte, interpretando il CCNL Sanità, ha affermato che il diritto alla pausa e al buono pasto non può essere limitato in base alla fascia oraria. Ciò che conta è la durata della prestazione: se il turno supera le sei ore (come stabilito dall’art. 8 del D.Lgs. 66/2003 per far scattare il diritto a una pausa), allora sorge il diritto a fruire del tempo di riposo per il pranzo e delle misure sostitutive, siano esse la mensa aziendale o il buono pasto. Non rileva se l’orario di lavoro copre o meno la fascia “canonica” del pranzo: imporre che solo chi lavora oltre una certa ora possa avere la mensa o il ticket costituirebbe una disparità ingiustificata. La Cassazione ha quindi respinto l’approccio formalistico dell’azienda. Del resto, summum ius, summa iniuria: applicare in modo troppo rigido una regola (in questo caso, negare il buono pasto in base all’ora del turno) rischia di produrre un’ingiustizia sostanziale. Il principio emerso è che la “particolare articolazione dell’orario” che, secondo il contratto, dà diritto al buono pasto va individuata nella necessità di una pausa all’interno dell’orario di lavoro – indipendentemente dall’ora del giorno in cui cade. Questo orientamento impone ai datori di lavoro maggiore attenzione: ogni volta che l’organizzazione del lavoro impedisce al dipendente di consumare il pasto al di fuori dell’orario (perché sta lavorando su un orario prolungato senza rientrare a casa), dev’essere garantita una soluzione (tempo per una pausa e ticket o mensa) per consentirgli il pranzo.
Conclusioni e consigli operativi
Le recenti pronunce in materia di buoni pasto delineano un quadro più tutelante per i lavoratori su alcuni fronti, ma lasciano margini di flessibilità su altri. In sintesi, possiamo affermare che:
Durante le ferie, i buoni pasto o equivalenti economici spettano al lavoratore, per assicurare che il suo trattamento economico resti invariato e conforme al diritto europeo sul riposo annuale retribuito.
Nel lavoro agile, non esiste (ancora) un diritto assoluto ai buoni pasto: tutto dipende da cosa prevedono i contratti collettivi o aziendali. Se questi tacciono, è legittimo che il datore non eroghi i ticket nelle giornate di smart working. È comunque buona prassi aziendale chiarire la politica sui buoni pasto in remoto, per evitare contenziosi e garantire trasparenza.
Laddove l’orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore senza possibilità di pausa fuori dall’orario (sia in presenza che in remoto), il lavoratore ha diritto a una pausa e alle relative agevolazioni (mensa o buono pasto). Le aziende devono quindi valutare caso per caso e rispettare le previsioni contrattuali: adottare regole uniformi, coerenti con la contrattazione, aiuta a prevenire discriminazioni tra i dipendenti su turni differenti o in diverse modalità di lavoro.
Per i lavoratori, il consiglio è di informarsi sempre su cosa stabilisce il proprio CCNL e gli eventuali accordi aziendali sul tema: conoscere i propri diritti è il primo passo per farli valere. Per le aziende, queste novità sono un invito a rivedere le proprie policy interne: il costo dei buoni pasto va bilanciato con il rischio di controversie legali e con il benessere del personale. Un clima di chiarezza e correttezza sui benefit contribuisce a migliorare le relazioni industriali e a motivare i dipendenti.
Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).
E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.