«Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali» ammoniva Don Lorenzo Milani. Questa celebre massima richiama un principio fondamentale: trattare allo stesso modo situazioni diverse può generare grave ingiustizia. Nel nostro ordinamento, del resto, il diritto allo studio ha rango costituzionale (art. 34 Cost.) e impone alle istituzioni di rimuovere gli ostacoli che impediscono ai cittadini – soprattutto se minorenni e in formazione – di sviluppare appieno le proprie capacità (artt. 3 e 38 Cost.). Per gli studenti con disabilità o altre difficoltà di apprendimento, ciò si traduce in uno specifico obbligo per la scuola: adattare la didattica ai bisogni educativi speciali (BES) di ciascuno, attraverso strumenti di supporto individualizzati.
Negli ultimi decenni il legislatore ha introdotto varie tutele in materia di inclusione scolastica. La legge 5 febbraio 1992 n. 104 garantisce agli alunni con disabilità certificata l’assegnazione di docenti di sostegno e la redazione di un Piano Educativo Individualizzato (PEI). La legge 170/2010 riconosce agli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) – ad esempio dislessia o disgrafia – il diritto a un Piano Didattico Personalizzato (PDP) che preveda misure compensative e dispensative su misura (come più tempo nelle verifiche, uso di computer, interrogazioni orali in luogo degli scritti, criteri di valutazione adeguati, ecc.). Dal 2012, una Direttiva ministeriale (27 dicembre 2012) ha esteso l’obbligo di predisporre PDP a tutti gli alunni con BES, anche temporanei o non certificati, qualora presentino bisogni particolari (difficoltà di apprendimento non diagnosticate, svantaggio linguistico o socio-culturale, alto potenziale cognitivo, problemi di salute, ecc.).
In altre parole, ogni studente che abbia una condizione ostativa al pieno rendimento scolastico ha diritto a un percorso formativo personalizzato. Tali strumenti non sono favori o concessioni, ma diritti esigibili a cui la famiglia può pretendere piena attuazione.
Se la scuola, pur in presenza di una diagnosi o di evidenti difficoltà, omette di attivare il sostegno previsto (ore di sostegno, PEI o PDP) o non applica le misure compensative durante le verifiche, l’alunno finisce per essere valutato ingiustamente. Immaginiamo uno studente dislessico a cui non vengano concessi tempi aggiuntivi o strumenti informatici: è probabile che riporti insufficienze non per scarso impegno, ma perché non sono state rispettate le sue necessità di apprendimento. Oppure un alunno con una grave patologia che causa lunghe assenze: senza un piano di istruzione domiciliare o adattamenti didattici, accumulerà lacune indipendenti dalla sua volontà. In situazioni del genere, un eventuale provvedimento di non ammissione alla classe successiva risulta viziato, perché contrario ai principi di correttezza e buon andamento e lesivo del diritto allo studio. La scuola infatti non può addebitare allo studente il mancato raggiungimento degli obiettivi se non gli ha fornito gli strumenti necessari per colmare le sue difficoltà. I giudici amministrativi stanno ribadendo con forza questo concetto: prima di bocciare un alunno fragile occorre aver fatto tutto il possibile per includerlo nel percorso formativo.
Numerose pronunce recenti confermano tale orientamento. Un caso emblematico è quello deciso dal T.A.R. Campania con sentenza n. 4895/2025. Protagonista, uno studente di scuola superiore con DSA (disturbo specifico dell’apprendimento) riconosciuto e relativo PDP. A fine anno scolastico il ragazzo aveva riportato tre materie insufficienti, ma dopo i corsi di recupero estivi ne rimaneva solo una non superata: Lingua Inglese. L’insegnante di inglese, tuttavia, durante l’anno e perfino nell’esame di riparazione non aveva mai applicato le misure previste dal PDP: allo studente non erano stati concessi gli strumenti compensativi stabiliti (come il PC con correttore ortografico) né tempi più lunghi per le prove, né la possibilità di svolgere interrogazioni orali integrative. Tale omissione ha inficiato la valutazione finale, rendendola inattendibile. Il T.A.R. ha accolto il ricorso dei genitori e annullato la bocciatura, riconoscendo che senza il dovuto supporto l’insufficienza in inglese non poteva essere imputata allo studente. Inoltre, il tribunale ha condannato l’Amministrazione scolastica a rifondere le spese legali sostenute dalla famiglia. In sostanza, è stato restituito al ragazzo l’anno scolastico perduto, perché l’esito negativo era dipeso non da sue carenze, ma dalle omissioni della scuola nel garantirgli un’adeguata didattica inclusiva.
Un analogo caso di mancato riconoscimento dei BES ha riguardato uno studente plusdotato (cioè ad alto potenziale cognitivo) della seconda media. Il T.A.R. Veneto, con sentenza n. 1530/2025, ha ritenuto illegittima la sua bocciatura inflitta unicamente per motivi disciplinari. Il tredicenne in questione, infatti, presentava sì comportamenti indisciplinati in classe, ma aveva ottenuto risultati scolastici complessivamente più che buoni, con diversi voti alti e nessuna insufficienza. Ciononostante, al termine dell’anno gli era stato assegnato sei in condotta per comportamenti inappropriati e reiterati e, sulla base di quel voto di condotta ritenuto insufficiente, il Consiglio di Classe lo aveva non ammesso alla classe successiva. Durante l’anno i genitori avevano ripetutamente sollecitato la scuola a riconoscere il figlio come alunno BES, attivando un PDP: le difficoltà comportamentali del ragazzo erano infatti ricondotte dagli specialisti a una plusdotazione cognitiva (QI molto alto unito a immaturità emotiva) che causava noia e comportamento di disturbo in classe. L’istituto, però, si era rifiutato di predisporre un piano personalizzato, ritenendo la documentazione presentata incompleta perché priva del dato numerico del quoziente intellettivo. Il T.A.R. ha censurato questa decisione, osservando che nessuna norma richiede di indicare il QI nelle certificazioni di plusdotazione per poter attivare un PDP. Di conseguenza, la mancata attivazione delle misure di supporto è stata giudicata una grave disparità di trattamento a danno dell’alunno. Nell’accogliere il ricorso, il tribunale ha evidenziato un ulteriore aspetto: bocciare un alunno plusdotato senza materie insufficienti comporta che debba ripetere un anno già svolto e già appreso, con l’effetto di aggravare la sua frustrazione e alimentare i comportamenti devianti che si volevano correggere. Una tale bocciatura, si legge nella sentenza, finirebbe per tradire la missione formativa della scuola, poiché non risolverebbe i problemi dell’alunno ma anzi li amplificherebbe. Anche in questo caso, dunque, la bocciatura è stata annullata e si è imposto all’amministrazione scolastica di riesaminare la situazione tenendo conto delle esigenze peculiari dello studente.
Un ulteriore fronte su cui i tribunali sono intervenuti è quello delle assenze scolastiche. Il T.A.R. Puglia, sede di Lecce, con sentenza n. 1122/2025, ha affermato che il superamento del limite massimo di assenze non può tradursi automaticamente in una bocciatura. Nel caso esaminato, una studentessa di seconda media – peraltro destinataria di un PDP dovuto a motivi di salute – era stata non ammessa agli scrutini finali in quanto aveva superato il tetto di assenze previsto dal regolamento (oltre novanta giorni fuori classe). La famiglia ha impugnato la decisione, sostenendo che il rendimento scolastico della ragazza fosse comunque positivo malgrado le molte assenze. I giudici amministrativi hanno dato ragione ai genitori, sottolineando che la promozione deve costituire la regola e la bocciatura l’eccezione, da giustificare con motivazioni ben circostanziate. Dalla documentazione è emerso che l’alunna, pur con qualche insufficienza isolata, aveva ottenuto voti generalmente buoni in quasi tutte le materie, con un profitto complessivo più che sufficiente. Il Consiglio di Classe, nell’irrogare la bocciatura, non aveva tenuto conto di questo andamento positivo né del comportamento diligente della studentessa, limitandosi a rilevare le numerose assenze. Una valutazione così incompleta è viziata da eccesso di rigidità: summum ius, summa iniuria, verrebbe da dire. Come spesso accade quando si applica in modo inflessibile una regola formale, in questo caso il limite di frequenza, senza valutare la situazione concreta, il rigorismo ha prodotto un’ingiustizia sostanziale. Il TAR ha quindi annullato gli atti di non ammissione, ordinando un nuovo scrutinio finale e disponendo che nel frattempo la studentessa fosse riammessa a frequentare la classe successiva.
Tutte queste pronunce convergono su un messaggio chiaro: non si può bocciare un alunno con disabilità o con BES se la scuola non ha prima messo in atto tutti gli interventi di supporto e personalizzazione necessari. Non conta quante insufficienze abbia lo studente in pagella; ciò che rileva è se quelle carenze sono almeno in parte dovute a omissioni dell’istituzione scolastica. In altre parole, la scuola deve fare la sua parte fino in fondo prima di emettere un verdetto così grave come la non promozione.
Attenzione però: riconoscere questi principi non significa affermare un diritto alla promozione automatica per gli alunni con BES. La garanzia offerta dall’ordinamento è quella di una valutazione equa e rispettosa delle specificità, non di un esito comunque indulgente. Lo ha ribadito anche il Consiglio di Stato in una recente decisione, chiarendo che la presenza di un PDP e di misure compensative non vincola la scuola a promuovere l’alunno ad ogni costo, purché il giudizio finale sia collegiale, motivato e conforme alla normativa di settore. Nella sentenza n. 4150/2025, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità della bocciatura di uno studente con DSA quando l’istituto aveva effettivamente attuato tutte le misure di supporto previste e l’insufficienza dell’alunno era comunque conclamata su più fronti. In quel caso, uno studente di liceo scientifico bocciato per la seconda volta, il PDP era stato applicato correttamente durante le prove di recupero e la valutazione finale, risultata gravemente insufficiente sia sul piano didattico sia sul comportamento, è stata ritenuta ampiamente motivata e non inficiata da alcuna violazione di legge. Dunque, se lo studente – pur adeguatamente supportato – non raggiunge gli obiettivi minimi, la non ammissione può considerarsi legittima.
In generale, quando una bocciatura appare ingiusta perché la scuola non ha garantito il sostegno dovuto a un alunno con BES, la famiglia ha la possibilità di reagire in sede legale. Il provvedimento di non ammissione può essere impugnato davanti al T.A.R. competente. La giustizia amministrativa, tra l’altro, è consapevole dei tempi ristretti del calendario scolastico e può intervenire con urgenza: in diversi casi i TAR hanno adottato decreti cautelari rapidi per consentire subito allo studente di proseguire gli studi in attesa della sentenza. Ciò evita che l’alunno subisca un danno irreparabile, come perdere un intero anno, durante lo svolgimento del processo. Le pronunce finali poi, laddove venga accertata un’effettiva omissione della scuola, confermano definitivamente il diritto dello studente a proseguire gli studi senza ripetere l’anno.
Questa recente giurisprudenza rappresenta un forte richiamo per le istituzioni scolastiche: il successo formativo di tutti gli alunni, anche di quelli con bisogni speciali, deve rimanere al centro della missione educativa. Prima di arrivare a una bocciatura, che dev’essere veramente l’ultima risorsa, la scuola è tenuta a mettere lo studente nelle condizioni di apprendere. I tribunali lo stanno dicendo a chiare lettere, annullando le decisioni punitive adottate senza aver fatto tutto il possibile. In un’ottica di inclusione, la speranza è che tali interventi della magistratura non siano più necessari in futuro: “chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”, diceva Victor Hugo. Una scuola attenta ai bisogni di ciascuno, infatti, non solo evita liti giudiziarie, ma soprattutto contribuisce a formare cittadini liberi, consapevoli e rispettosi delle altrui differenze.
Redazione - Staff Studio Legale MP