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Assegno di mantenimento dei figli: la Cassazione “impone” la proporzionalità ai redditi attuali  Ordinanza n. 19288/2025 – Mantenimento dei figli calibrato sulle risorse reali dei genitori? - Studio Legale MP - Verona

Assegno di mantenimento dei figli: la Cassazione “impone” la proporzionalità ai redditi attuali

Ordinanza n. 19288/2025 – Mantenimento dei figli calibrato sulle risorse reali dei genitori?

Introduzione: Può un padre separato essere costretto a vivere con soli 800 euro al mese dopo aver versato l’assegno di mantenimento? La Corte di Cassazione, con una recentissima ordinanza del 14 luglio 2025 (n. 19288), ha stabilito che situazioni del genere violano il principio di proporzionalità. L’assegno per i figli va infatti commisurato alle effettive capacità economiche attuali di entrambi i genitori, evitando che si trasformi in una “punizione” o in una condanna che leda la dignità del genitore obbligato. In altre parole, l’importo del contributo deve essere sostenibile e giusto, tenuto conto della realtà economica del momento: summum ius, summa iniuria – la massima applicazione del diritto può tradursi in massima ingiustizia – quando non si considera l’equità del caso concreto.

Nel solco di una giurisprudenza familiare sempre più attenta ai mutamenti delle condizioni reddituali, la Cassazione ribadisce un principio fondamentale ma talvolta dimenticato: il mantenimento dei figli non è fisso, bensì variabile in base alla situazione economica reale di genitori e prole. Già l’art. 337-ter del codice civile sancisce che ogni genitore deve contribuire in misura proporzionale al proprio reddito al mantenimento dei figli. Tale proporzionalità richiede di valutare comparativamente i redditi di entrambi i genitori, le esigenze attuali del figlio e il tenore di vita goduto in passato. Rebus sic stantibus – stando così le cose – la regola impone di aggiornare l’assegno al mutare delle circostanze, senza ancorarsi a dati superati o a redditi presunti. L’ordinanza n. 19288/2025 mette un punto fermo su questo concetto, affermando che il giudice deve basarsi sui redditi attuali e concreti di entrambi i genitori, e non su parametri superati o presunti, quando determina o modifica l’assegno.

 

Il principio di proporzionalità nel mantenimento dei figli

Il principio di proporzionalità è cardine nel diritto di famiglia italiano e trova espresso riconoscimento normativo. L’art. 337-ter, comma 4, c.c. stabilisce infatti che «ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito», e che il giudice può imporre un assegno periodico proprio per realizzare tale proporzionalità. In particolare, nel determinare l’assegno il giudice deve considerare:

Le esigenze attuali del figlio, ossia i bisogni concreti del minore (vitto, alloggio, istruzione, salute, attività, ecc.) in rapporto alla sua età e sviluppo;

Il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori, per garantire una continuità e non penalizzare il minore a causa della separazione;

I tempi di permanenza presso ciascun genitore, tenendo conto di quanto il figlio è affidato all’uno o all’altro e delle spese dirette sostenute da ciascun genitore nei periodi di convivenza;

Le risorse economiche di entrambi i genitori, cioè i redditi effettivi e il patrimonio disponibile di madre e padre al momento della decisione;

Il valore economico dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore, poiché il tempo dedicato alla cura dei figli e della casa ha un rilievo economico indiretto (ad esempio, un genitore che rinuncia in parte al lavoro per accudire i figli contribuisce in natura).

Questi criteri normativi mirano a garantire che tutti i figli – di genitori uniti o separati – abbiano uguale diritto ad essere mantenuti, educati e assistiti, nel rispetto delle capacità e delle inclinazioni di ciascuno (come ricorda anche l’art. 315-bis c.c.). In sostanza, i figli di genitori separati non devono subire un trattamento deteriore rispetto a quelli nati e cresciuti in famiglie unite. La comparazione dei redditi dei genitori è dunque indispensabile per modulare un assegno equo. Ciò vale a maggior ragione quando uno dei genitori non ha redditi propri oppure quando vi sono disparità economiche marcate: il principio di uguaglianza impone di assicurare ai figli la medesima tutela, a prescindere dalle vicende familiari.

 

Il caso concreto: un padre “con il portafoglio vuoto”

Un padre separato che vede drasticamente ridotto il proprio reddito – e di conseguenza la propria capacità di mantenere i figli – non può essere ignorato dal giudice. La vicenda che ha condotto all’ordinanza Cass. civ. Sez. I n. 19288/2025 è esemplare. Un padre emiliano, in seguito alla separazione, era tenuto a versare €600 al mese per il mantenimento della figlia minorenne. Inizialmente la somma era stata fissata dal Tribunale di Piacenza, contestualmente all’affidamento condiviso della bambina (collocata presso la madre). Tuttavia, nel corso del tempo la situazione finanziaria dell’uomo era cambiata: egli aveva lasciato la posizione di socio nell’azienda di famiglia per diventare un dipendente della stessa ditta, scelta che gli garantiva maggiore stabilità lavorativa ma comportava una significativa diminuzione dello stipendio mensile. Il suo reddito netto era sceso intorno ai €1.400 mensili, come riportato anche dalla cronaca, mentre il contributo di €600 rappresentava ormai quasi la metà delle sue entrate. Ciò significava che al padre restavano soltanto circa €800 per far fronte alle proprie necessità di vita (affitto, bollette, cibo, spese dell’auto, ecc.) – una situazione economica al limite, tale da mettere in discussione la sostenibilità dell’assegno.

Di fronte a questo peggioramento, l’uomo si era rivolto al giudice chiedendo una riduzione dell’assegno. La Corte d’Appello di Bologna, però, aveva rigettato la sua domanda: secondo i giudici di secondo grado, il fatto che il padre avesse scelto volontariamente di cambiare ruolo nell’azienda rinunciando a una parte del reddito impediva di accogliere la richiesta di diminuzione. In altre parole, il calo delle risorse economiche era frutto di una “scelta unilaterale” dell’obbligato, e come tale non giustificava – a parere della Corte d’Appello – un alleggerimento del contributo dovuto alla figlia. Questo approccio, purtroppo, non era nuovo nella prassi: in molti casi, infatti, i tribunali hanno negato modifiche dell’assegno quando il genitore obbligato si trova in difficoltà economiche a causa di decisioni personali, sospettando magari che dietro vi sia un intento di sottrarsi ai propri doveri verso i figli. Dura lex sed lex, verrebbe da dire secondo una vecchia logica: hai deciso di guadagnare meno? Il figlio non può rimetterci e tu devi comunque pagare quanto stabilito, stringendo la cinghia.

E così è accaduto in Appello: l’assegno di €600 mensili è rimasto invariato, nonostante rappresentasse un onere sproporzionato rispetto al reddito attuale del padre. Ridurre la somma, per i giudici d’appello, avrebbe significato far subire alla figlia un ingiusto decremento del tenore di vita, imputabile solo ad una scelta discutibile del padre.

 

La decisione della Cassazione: redditi attuali e scelte di vita non abusive

La Suprema Corte ha ribaltato questo verdetto, cassando la decisione dei giudici bolognesi. Con l’ordinanza 19288/2025, la Cassazione ha affermato in modo chiaro che in tema di contributo al mantenimento dei figli il giudice deve fotografare la realtà economica attuale delle parti e su quella base applicare la legge. Non conta più, quindi, la situazione reddituale passata né eventuali valutazioni morali sulle cause delle variazioni di reddito. È anzi errato confermare un assegno di mantenimento senza una verifica attuale e comparativa delle condizioni economiche delle parti. Il fulcro della pronuncia sta nel riconoscere il principio del rebus sic stantibus: le decisioni precedenti circa l’assegno possono (anzi, devono) essere riviste se le circostanze sono cambiate, indipendentemente da come o perché siano cambiate.

Nessun giudizio morale sulle scelte dei genitori. La Cassazione, in questa ordinanza, sottolinea che il compito del giudice non è punire le scelte di vita o di lavoro di un genitore, ma garantire il rispetto della legge e dell’equità nella situazione data. Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva bollato come “irrilevante” il peggioramento delle finanze paterne perché frutto di una decisione volontaria (lasciare l’azienda di famiglia). Ma la Cassazione obietta che le cause dei mutamenti economici non vanno esaminate in chiave punitiva, salvo che tali scelte nascondano intenti fraudolenti. Solo se vi è prova che il genitore abbia ridotto apposta il proprio reddito per sfuggire agli obblighi di mantenimento, allora il giudice potrà discostarsi dal principio di proporzionalità. In assenza di comportamenti abusivi o maliziosi, invece, ogni cambiamento oggettivo delle risorse – anche se legato a scelte personali – deve essere considerato. La Corte evidenzia infatti che ciò che rileva ai fini di una eventuale diminuzione dell’assegno non è la volontarietà in sé delle scelte economiche, bensì la loro effettiva incidenza sulle entrate dell’obbligato. Se il reddito dell’obbligato è calato in modo significativo e documentabile, ignorarlo significa violare la regola della proporzionalità.

Applicazione rigorosa del principio di attualità. Con un richiamo puntuale all’art. 337-ter c.c., la Cassazione ribadisce che la valutazione va fatta sul “momento presente”, ovvero sulle risorse disponibili al momento della richiesta di revisione, senza ancorarsi all’epoca in cui l’assegno fu stabilito. Il criterio dell’attualità esige di considerare la situazione reddituale attuale di entrambi i genitori in concreto, e non quella storica o ideale. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Bologna non aveva adeguatamente valutato in comparazione le risorse economiche di entrambi, ignorando il peggioramento intervenuto per l’uomo. Ciò ha portato la Cassazione a giudicare la decisione impugnata come non proporzionata rispetto ai redditi attuali delle parti, disponendo quindi il rinvio ai giudici di merito per rideterminare al ribasso l’assegno in favore della figlia. In pratica, il padre otterrà una revisione (verosimilmente una riduzione sensibile) della somma mensile da corrispondere, alla luce delle sue condizioni economiche attuali.

Tutela del figlio ma anche dignità del genitore: la Cassazione tiene a precisare che adeguare l’assegno alle possibilità economiche non significa venire meno ai doveri verso i figli, bensì garantirne un adempimento equo. L’assegno di mantenimento non è immutabile né una forma di castigo per il genitore non collocatario; è invece un mezzo attraverso cui entrambi i genitori contribuiscono al benessere del figlio in modo proporzionato alle proprie sostanze. Se un genitore versa in condizioni più difficili rispetto al passato, continuare a pretendere lo stesso importo sarebbe ingiusto e in ultima analisi controproducente anche per il figlio, perché metterebbe a repentaglio la capacità del padre di provvedere, se non addirittura la sua stabilità economica e psicologica. Al riguardo, calza a pennello l’aforisma di William Shakespeare: «È un padre saggio quello che conosce il proprio figlio». In questo contesto, potremmo dire che è saggio anche il giudice che riconosce le reali possibilità del padre, evitando di imporgli oneri insostenibili che rischiano di compromettere la sua serenità e, indirettamente, il rapporto col figlio. Del resto, come ammonisce un noto detto latino, summum ius, summa iniuria: applicare rigidamente una regola senza guardarne la sostanza può generare la massima ingiustizia.

 

Implicazioni della pronuncia e sviluppi giurisprudenziali recenti

L’ordinanza n. 19288/2025 rappresenta un richiamo importante per tutti i tribunali: nell’ambito del diritto di famiglia, l’equilibrio tra la tutela del minore e i diritti (e doveri) dei genitori va basato su dati concreti e aggiornati, non su valutazioni astratte o punitive. Questa pronuncia si inserisce in un filone giurisprudenziale che sta progressivamente riconoscendo maggiore flessibilità nella modifica degli assegni di mantenimento quando intervengono cambiamenti significativi nelle condizioni economiche. In passato, gli orientamenti erano spesso più rigidi: ad esempio, la Cassazione (ord. n. 5241) aveva confermato che non spettava alcuna riduzione all’ex coniuge che volontariamente avesse ridotto i propri guadagni (in quel caso cedendo le quote societarie e rinunciando alla carica di amministratore). Il messaggio allora era chiaro: se la tua “contrazione patrimoniale” dipende da scelte personali, ciò non rileva ai fini dell’assegno, che resta invariato. Analogamente, per molto tempo si è ritenuto che la nascita di ulteriori figli da un nuovo legame fosse una circostanza irrilevante, in quanto frutto di una decisione privata che non doveva peggiorare la condizione dei figli avuti in precedenza.

Tale visione però sta evolvendo. Recenti arresti giurisprudenziali hanno introdotto maggiore considerazione per i diritti e le scelte di vita dei genitori, bilanciandoli con l’interesse dei figli. Ad esempio, si è affermato che la formazione di una nuova famiglia e la nascita di altri figli, pur non riducendo automaticamente gli obblighi di mantenimento verso i figli avuti da precedenti relazioni, costituiscono comunque una circostanza sopravvenuta significativa, da valutare caso per caso ai fini di una possibile revisione degli accordi economici. In altre parole, il diritto fondamentale di rifarsi una vita affettiva (tutelato dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali) deve trovare un contemperamento con il dovere di mantenimento: nuovi carichi familiari possono giustificare un riequilibrio dei contributi, se altrimenti il genitore non sarebbe in grado di far fronte a tutto. Questa sensibilità emerge ora con forza anche nella pronuncia in esame: la Cassazione mostra di voler correggere gli eccessi di rigore, privilegiando un approccio più realistico e umano.

Va da sé che ogni situazione va valutata attentamente: il principio di proporzionalità non è un “via libera” per i genitori che scelgono deliberatamente di impoverirsi allo scopo di pagare meno (comportamento che sarebbe contrario sia alla legge sia alla morale). I giudici potranno e dovranno vigilare su eventuali abusi – ad esempio, cambi di lavoro fittizi, dimissioni strategiche, o occultamento di redditi – e in tali casi negare la revisione dell’assegno, o addirittura, nei casi più gravi, ravvisare un inadempimento sanzionabile. Ma fuori da queste ipotesi estreme, il messaggio lanciato dall’ordinanza 19288/2025 è uno di fiducia e di buon senso: fiducia nel fatto che i genitori, anche dopo la separazione, mantengono l’intento di supportare la prole al meglio delle proprie possibilità; buon senso nel capire che tali possibilità possono mutare col tempo e che il diritto deve tenere il passo della vita reale.

In definitiva, la Cassazione torna a umanizzare il diritto di famiglia, riconoscendo che dietro le cifre di un assegno ci sono persone in carne ed ossa, con le loro difficoltà, responsabilità e sentimenti. Un padre che si trova in momentanea difficoltà economica non viene meno al suo ruolo genitoriale, né perde l’amore per i propri figli – piuttosto, spesso soffre doppiamente, sia per la condizione di disagio in cui versa, sia per il timore di non riuscire a garantire ai figli quanto vorrebbe. Come scriveva George Herbert, «Un padre è meglio di cento maestri»: il valore di un padre (o di una madre) nella vita di un figlio non si misura solo dalla somma di denaro che versa ogni mese, ma anche dalla presenza, dall’affetto e dall’esempio che sa dare. Garantire la sostenibilità dell’assegno di mantenimento significa permettere a quel genitore di vivere dignitosamente e di continuare a svolgere il suo insostituibile ruolo educativo ed affettivo. È interesse dei figli, oltre che dovere del sistema, fare in modo che l’assegno sia equo: né troppo esiguo (a scapito del minore), né eccessivo al punto da mettere in ginocchio il genitore obbligato. In tal senso, la pronuncia in esame contribuisce a delineare un diritto di famiglia più giusto e bilanciato, dove la giustizia sostanziale prevale sul formalismo e dove ogni decisione si fonda su dati attuali, verificabili e documentati, non su ipotesi o su situazioni passate.

In conclusione, l’ordinanza 19288/2025 della Cassazione rappresenta una novità di rilievo nel panorama giuridico italiano: conferma ed esplicita il dovere di rideterminare l’assegno di mantenimento dei figli in base ai redditi reali del momento, facendo prevalere la realtà economica sulle presunzioni e sulle rigidità. È un passo avanti verso una giustizia più vicina alla vita reale delle famiglie, nella consapevolezza che il diritto – per dirla con le parole di Piero Calamandrei – non deve essere “un ostacolo alla felicità degli uomini”, ma uno strumento per conciliarla con l’ordine sociale. In un periodo storico in cui le condizioni lavorative ed economiche possono cambiare repentinamente, questa sentenza offre un orientamento chiaro: flessibilità e proporzionalità sono le chiavi per tutelare davvero l’interesse del minore, che è quello di avere genitori in grado di mantenerlo, ma anche genitori messi in condizione di vivere dignitosamente.

Fonti e riferimenti:

ordinanza Cass. civ. Sez. I, 14/07/2025, n. 19288

 

  • 29 luglio 2025
  • Marco Panato

Autore: Avv. Marco Panato


Avv. Marco Panato -

Avv. Marco Panato, avvocato del Foro di Verona e Dottore di Ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa – Discipline Interne ed Internazionali - Curriculum Diritto Amministrativo (Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Verona).

E' autore di pubblicazioni scientifiche in materia giuridica, in particolare nel ramo del diritto amministrativo. Si occupa anche di docenza ed alta formazione.