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Privacy e diritto di cronaca: nuove regole dalla Cassazione - Studio Legale MP - Verona

Le più recenti pronunce della Suprema Corte ridefiniscono il delicato equilibrio tra la riservatezza personale e l’interesse pubblico alla cronaca, dalla pubblicazione di foto di indagati alla deindicizzazione di notizie ormai superate

Introduzione. “Nomina sunt odiosa”, ammonivano i latini: a volte fare nomi può essere deteriore e alimentare pregiudizi duraturi. Nell’era digitale, infatti, ogni riferimento personale presente online può continuare a riecheggiare a lungo, anche quando ha perso attualità. Proteggere la propria reputazione diventa cruciale: “Chi mi ruba il buon nome mi priva di un tesoro”, scriveva Shakespeare per sottolineare come dal discredito non ci si riabilita facilmente. D’altro canto, una società aperta si nutre di libera informazione e cronaca, ponendo un dilemma: fino a che punto il passato di una persona deve rimanere accessibile a tutti? Recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali hanno rinnovato il bilanciamento tra diritto alla riservatezza del singolo e diritto di cronaca della collettività, ridefinendo i confini di ciò che può essere pubblicato e per quanto tempo.

Dalla cronaca nera all’oblio: un equilibrio in evoluzione. Tradizionalmente, la giurisprudenza italiana ha affrontato il conflitto tra privacy e cronaca caso per caso, cercando un equilibrio costituzionalmente orientato. Già le Sezioni Unite della Cassazione nel 2019 avevano fissato un principio cardine: il nome di una persona coinvolta in fatti remoti può essere diffuso solo se sussiste un interesse pubblico attuale e concreto verso quella persona (ad esempio per il ruolo pubblico ricoperto); diversamente, deve prevalere l’esigenza di non esporre il soggetto a una gogna mediatica perpetua. Da questo indirizzo si è sviluppata una tutela graduale del diritto all’oblio, ossia il diritto a veder affievolire nel tempo la notorietà di vicende personali passate. Nel 2022 il legislatore ha rafforzato tale diritto con la riforma Cartabia (D.lgs. 150/2022), introducendo specifiche previsioni per garantire l’anonimato di indagati e imputati a determinate condizioni. Ad esempio, la norma prevede che dopo l’archiviazione o l’assoluzione definitiva di un procedimento penale, l’interessato possa ottenere più facilmente la rimozione dei propri dati identificativi dagli atti pubblici e dai repertori online relativi al caso. Tuttavia, rimaneva aperta la questione: è necessario attendere sempre l’esito finale di un processo per invocare il diritto all’oblio, oppure questo può operare anche prima, in presenza di un pregiudizio evidente e di una cronaca non più attuale?

La svolta: si può dimenticare prima del verdetto finale. Una prima risposta è giunta con Cass. civ., Sez. I, sent. n. 31859/2024 (depositata a fine 2024), che ha segnato un importante cambio di rotta. In passato la prassi dominante riteneva che una richiesta di rimozione o deindicizzazione di notizie giudiziarie pregiudizievoli fosse accoglibile solo dopo una sentenza di assoluzione definitiva, conformemente alle allora vigenti disposizioni del codice privacy. La sentenza n. 31859/2024, invece, ha affermato che – grazie anche alla spinta innovativa della riforma Cartabia – non è sempre necessario attendere l’esito finale di un processo penale per ottenere tutela: se una notizia relativa a un procedimento in corso risulta manifestamente datata e potenzialmente lesiva della reputazione, il giudice può ordinare la rimozione o la deindicizzazione anche prima della definizione definitiva, soprattutto quando la lunga durata dei processi rischia di legare il nome di una persona a un fatto non accertato per un tempo irragionevole. Si tratta di un approccio più realistico e garantista verso l’individuo, che mira a evitare danni permanenti all’onorabilità in caso di estenuante lentezza giudiziaria. Ovviamente questa tutela anticipata richiede cautela: viene concessa solo se il fatto divulgato è obsoleto e privo di interesse attuale, e se la sua permanenza online arreca un pregiudizio sproporzionato alla persona rispetto al beneficio informativo pubblico.

Cassazione 2025: l’oblio di chi è stato assolto. Il tema del diritto all’oblio è esploso definitivamente con un caso emblematico deciso nel 2025. Un imprenditore era stato coinvolto in un’inchiesta penale di grande clamore pubblico oltre un decennio fa; nonostante fosse stato assolto con formula piena già nel 2015, il suo nome risultava ancora associato su Google a vecchi articoli che lo descrivevano come indagato per mafia, senza menzione dell’esito liberatorio. Di fatto, cercando il suo nome in rete, apparivano solo ombre sul suo passato e nessuna luce sull’epilogo favorevole. Davanti al rifiuto di Google di deindicizzare quei link, l’uomo ha adito le vie legali. La vicenda è giunta in Cassazione e la Suprema Corte gli ha dato ragione con la sentenza n. 14488/2025 (Cass. civ., Sez. I, 30 maggio 2025). Questa pronuncia ha ribadito con forza che il decorso del tempo muta la lecita diffusione delle notizie: quando un fatto perde attualità e rilevanza, e soprattutto quando la persona è uscita pulita dalla vicenda, il suo diritto a non restare esposta al pubblico ludibrio deve prevalere. Nel censurare la decisione di merito (che aveva negato l’oblio per alcuni articoli), la Cassazione ha chiarito due punti essenziali. Primo: il tempo rilevante ai fini dell’oblio decorre dalla data di pubblicazione originaria della notizia incriminata, non dall’ultimo sviluppo giudiziario. In altre parole, se un articolo accusatorio è del 2010, il trascorrere di 13-15 anni lo rende storicizzato e potenzialmente eliminabile dai risultati di ricerca, a prescindere da quando sia avvenuta l’assoluzione (2015 nel caso in esame). Secondo: va effettuato un bilanciamento rigoroso tra interessi contrapposti – la reputazione e identità personale da un lato, la libertà di stampa e il diritto all’informazione dall’altro. Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che non vi fosse più alcuna utilità sociale nel rendere immediatamente accessibili al pubblico quegli articoli vecchi e parziali (mancanti dell’aggiornamento sull’esito assolutorio); al contrario, la loro permanenza in bella vista su Google creava un danno grave e ingiustificato all’immagine dell’imprenditore. Pertanto, è stato riconosciuto il suo diritto alla deindicizzazione di quei contenuti: Google dovrà rimuovere i link indicati dalle ricerche effettuate a partire dal nome dell’interessato. La sentenza 14488/2025, oltre a dare sollievo al singolo caso, costituisce un tassello fondamentale verso un diritto all’oblio più effettivo, impedendo che la “memoria” digitale collettiva schiacci la dignità individuale oltre il necessario. Dura lex, sed lex? Sì, ma la legge dev’essere anche equa: quando la notorietà storica di un evento degenera in un marchio indelebile a discapito della verità giudiziaria (assoluzione), la legge ora offre uno scudo al cittadino.

Fotografie di indagati: quando la cronaca oltrepassa il limite? Sul versante opposto, la Cassazione ha affrontato anche il tema spinoso delle immagini di persone in manette o sotto processo diffuse dai media. Si pensi alle fotografie segnaletiche o agli scatti di arresti eccellenti pubblicati sui quotidiani e siti di news: tali immagini sollevano immediatamente dubbi di privacy e dignità personale, specie se il soggetto poi risulterà innocente o estraneo ai fatti. In passato, il Garante Privacy è più volte intervenuto sanzionando testate giornalistiche per l’uso disinvolto di foto di indagati, ritenendolo un illecito trattamento di dati personali quando le immagini ledono la rispettabilità della persona. È il caso, ad esempio, di foto che mostrano un arrestato in condizioni umilianti (ammaccato, piangente, ammanettato) e che vengono pubblicate senza reale necessità informativa. Proprio su una di queste vicende si è pronunciata la Cassazione con sent. n. 20387/2025 (Sez. I Civile, 21 luglio 2025). Il caso riguardava alcune fotografie di soggetti arrestati durante un’operazione di polizia, pubblicate nel 2015 su un noto quotidiano nazionale; il Garante Privacy aveva multato l’editore ritenendo violato il principio di liceità e correttezza nel trattamento dei dati personali, assimilando di fatto quelle immagini a foto segnaletiche divulgate senza consenso. L’editore però si era opposto in tribunale, sostenendo che la pubblicazione rientrava nel legittimo diritto di cronaca giudiziaria su un fatto di interesse pubblico. Ebbene, la Cassazione nel 2025 ha confermato l’annullamento della sanzione, delineando però criteri stringenti per l’uso di tali immagini. Innanzitutto, ha distinto le normali foto di arresti dalle vere fotografie segnaletiche di polizia: la mera presenza di uno sfondo neutro o di un logo “Polizia” non rende una foto automaticamente segnaletica, se mancano altri elementi tipici (numero di matricola, profilo, etc.). Una foto frontale di un indagato, scattata durante un’operazione ufficiale, può essere pubblicata se è funzionale alla notizia, senza bisogno di consenso, in forza del diritto di cronaca – ma solo a precise condizioni. Riprendendo le Regole deontologiche dei giornalisti e l’art. 137 del Codice Privacy, la Corte ha evidenziato che l’informazione divulgata deve essere sempre essenziale e di pubblico interesse: pubblicare l’immagine di una persona coinvolta è lecito solo se aggiunge effettivo valore informativo alla notizia. Inoltre, non si deve mai travalicare il limite della dignità: sono vietate foto inutilmente degradanti o umilianti (ad esempio, persone ammanettate in primo piano, immagini di sofferenza evidente, ecc.), a meno che ciò sia indispensabile per denunciare abusi. La ratio è evitare la spettacolarizzazione gratuita: il lettore ha diritto a essere informato, ma non c’è interesse pubblico nel vedere un indagato mortificato oltre quanto già non comporti la cronaca del fatto. In sintesi, la Cassazione con questa sentenza ha chiarito che non esiste un divieto assoluto di pubblicare foto di persone arrestate o imputate: tuttavia, la lecita pubblicazione richiede un attento giudizio di proporzionalità. Il bilanciamento va effettuato valutando caso per caso se l’immagine è davvero necessaria alla comprensione della vicenda e se non lede la dignità personale. Gli editori, da parte loro, non saranno ritenuti automaticamente responsabili solo per aver utilizzato immagini provenienti da fonti ufficiali, purché rispettino i criteri suddetti. Questa pronuncia ha il merito di fornire agli operatori dell’informazione una sorta di vademecum: via libera alla cronaca giudiziaria visiva quando è essenziale, ma tolleranza zero verso scivoloni sensazionalistici che trasformino la giustizia in un palcoscenico indecoroso.

Verso una memoria digitale “a misura d’uomo”. Dalle decisioni esaminate emerge un quadro coerente: la giurisprudenza più recente sta cercando di umanizzare la memoria digitale, impedendo che internet diventi un tribunale eterno e implacabile. Non si tratta di censura della stampa, bensì di civilizzazione della rete. Le notizie rimangono reperibili negli archivi dei giornali (che non vengono oscurati), ma strumenti come la deindicizzazione dai motori di ricerca offrono all’individuo la possibilità di non essere costantemente associato a vicende passate che oggi risultano irrilevanti o superate. Allo stesso tempo, viene lanciato un monito ai media: il diritto-dovere di cronaca non perde il suo valore, ma deve esercitarsi con discernimento. Come riconosciuto anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la privacy non è un diritto assoluto e può cedere il passo all’interesse pubblico su fatti e persone di attualità; però, quando l’onda mediatica si ritira, occorre restituire all’individuo il controllo sulla propria immagine. In definitiva, possiamo intravedere un principio di fondo: più il tempo passa, più cresce il diritto all’oblio – salvo eccezioni legate a personaggi di primo piano o a fatti storici di rilevanza permanente. Al contrario, più il fatto è recente e socialmente impattante, più forte sarà il diritto di cronaca, persino con immagini e dettagli, purché nel rispetto della dignità. La sfida per il futuro è dare concreta attuazione a questi principi. Tra motori di ricerca da sensibilizzare, testate online da responsabilizzare e cittadini da informare dei propri diritti, il cammino è ancora lungo. Ma le sentenze della Cassazione qui analizzate rappresentano tappe fondamentali di questo percorso, delineando una roadmap giuridica per un mondo digitale che non sia né smemorato né spietato, bensì equilibrato e rispettoso dell’umanità di ciascuno.

Conclusione. “Il Grande Fratello vi guarda”, scriveva Orwell immaginando una società senza privacy. Oggi, grazie anche agli interventi dei giudici, quel Grande Fratello tecnologico inizia ad avere qualche limite in più. Il messaggio è chiaro: la tutela della persona torna al centro, senza per questo oscurare la verità o frenare la libera stampa. Verba volant, scripta manent: ciò che è scritto (e pubblicato) rimane, ma non sempre dovrà rimanere visibile a tutti, per sempre. Il diritto all’oblio e le nuove regole sulla cronaca ci ricordano che anche la memoria digitale può aver bisogno di essere calibrata in nome della giustizia e della dignità. In un’epoca in cui una notizia dura online in eterno, il sistema giuridico italiano sta predisponendo antidoti per evitare che la reputazione di una persona venga condannata oltre la sentenza dei tribunali. In medio stat virtus: la virtù sta nel mezzo, nell’equilibrio. E proprio su questo sottile confine tra memoria e oblio, tra informazione e riserbo, si gioca una partita giuridica e culturale destinata a proseguire negli anni a venire.

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  • 03 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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