
Introduzione: un’attesa infinita che diventa caso legale
In tutta Italia migliaia di cittadini stranieri attendono oltre ogni ragionevole limite il rilascio o il rinnovo del proprio permesso di soggiorno, o la concessione della cittadinanza italiana. Sebbene le norme (art. 5 co. 9 T.U. Immigrazione D.lgs. 286/1998 e art. 2 L. 241/1990) prevedano termini precisi – ad esempio 60 giorni per rilasciare o rinnovare un permesso – la realtà è spesso ben diversa: pratiche che dovrebbero chiudersi in due mesi restano sospese per sei mesi, un anno, perfino 2-3 anni. Analogamente, per la cittadinanza per residenza la legge fissa in 24 mesi (estensibili a 36 in casi eccezionali) il termine massimo per la risposta del Ministero dell’Interno, ma molte richieste restano senza esito molto oltre questo limite. Le cause dei ritardi sono varie: carenza di personale, complessità degli accertamenti, procedure farraginose e, talvolta, semplice inefficienza organizzativa. Le conseguenze per gli stranieri sono gravissime: impossibilità di lavorare regolarmente, di viaggiare, di accedere a servizi essenziali, incertezza sul proprio futuro. Fino a poco tempo fa, chi subiva questi ritardi poteva solo sollecitare con pazienza o presentare istanze di accesso agli atti. Oggi però lo scenario sta cambiando: i tribunali amministrativi e civili sono intervenuti con decisioni innovative per tutelare gli immigrati dall’inerzia della Pubblica Amministrazione.
60 giorni: un obbligo per l’amministrazione, non un consiglio
Il punto di svolta parte dalla chiarezza normativa sui termini. La regola generale è che ogni procedimento amministrativo deve concludersi entro un termine fissato dalla legge o dai regolamenti (di norma 30 giorni, elevati a 60 per i permessi di soggiorno). Fino a poco tempo fa, alcune Questure interpretavano liberamente questa scadenza, sostenendo ad esempio che il termine decorresse solo dopo determinate fasi (come l’acquisizione delle impronte digitali), fatto che di fatto dilatava ulteriormente i tempi. Su questo aspetto è intervenuto il TAR Veneto con una sentenza esemplare (TAR Veneto, Sez. III, sent. n. 829/2024): il giudice amministrativo ha chiarito che il termine di 60 giorni decorre dalla presentazione della domanda (es. dall’invio del kit postale) e non da momenti successivi decisi unilateralmente dalla Questura. In altre parole, una volta che lo straniero ha presentato tutta la documentazione, l’orologio burocratico parte. Se entro due mesi l’ufficio non conclude la pratica, si configura un inadempimento. Questo principio, apparentemente tecnico, in realtà restituisce dignità ai richiedenti: non è accettabile che l’amministrazione sposti in avanti la scadenza a suo piacimento. Anche altri tribunali hanno sposato questa linea: ad esempio il Tribunale di Venezia (ord. 20/11/2024) in materia di immigrazione ha condiviso l’interpretazione del TAR Veneto, rafforzando l’idea che i termini sono perentori.
Ricorso contro il silenzio: come costringere la PA a decidere
Stabilito che esiste un termine e che superarlo è illegittimo, resta da capire cosa può fare concretamente lo straniero quando i mesi passano senza risposte. Uno strumento fondamentale è il ricorso per silenzio-inadempimento al TAR. Si tratta di un ricorso accelerato che si può presentare quando un’amministrazione non adotta un provvedimento entro il termine previsto. Negli ultimi anni, i ricorsi per silenzio in materia di permessi di soggiorno e cittadinanza sono aumentati esponenzialmente. Il TAR, verificato che il termine è scaduto inutilmente, ordina all’amministrazione di provvedere entro un certo periodo (di solito 30 giorni), nominando in caso di ulteriore inerzia un commissario ad acta (spesso un funzionario prefettizio) che subentra e conclude la pratica. Questi ricorsi hanno un effetto immediato: sbloccano situazioni ferme anche da anni. Ad esempio, il TAR Lazio – competente per molti ricorsi sulla cittadinanza – con una recente pronuncia (TAR Lazio, Sez. V-bis, sent. n. 21587/2024) ha annullato un diniego tardivo di cittadinanza osservando che l’eccessiva durata del procedimento aveva leso i diritti del richiedente. Allo stesso modo, decine di sentenze dei TAR di tutta Italia stanno delineando un orientamento rigoroso: nessuna scusa può legittimare ritardi oltre i limiti di legge. Nemmeno la carenza di organico o l’alto numero di pratiche pendenti costituisce una giustificazione valida – semmai sono problematiche da risolvere internamente, ma il cittadino non può subirne le conseguenze. In sostanza, il messaggio ai responsabili degli uffici è chiaro: o evadete le domande nei tempi dovuti, o ci penserà il giudice a imporvelo.
Class action contro la burocrazia: il caso emblematico della “sanatoria 2020”
Un capitolo storico nella lotta ai ritardi è stato scritto tra la fine del 2023 e il 2024 con la prima azione collettiva (class action) contro la pubblica amministrazione in materia di immigrazione. Protagonisti, oltre 100 lavoratori stranieri e i loro datori di lavoro, rimasti impantanati nella sanatoria 2020 (la procedura di emersione prevista dall’art. 103 del DL 34/2020) per la regolarizzazione di braccianti e colf. A Milano, su quasi 26.000 domande presentate nell’estate 2020, solo il 20% risultava definito dopo oltre 3 anni! Di fronte a questo stallo clamoroso, associazioni e avvocati hanno unito le forze promuovendo un’azione collettiva innanzi al TAR Lombardia per conto di tutti gli interessati. Il risultato è stato rivoluzionario: il TAR Lombardia con sentenza n. 2949/2023 ha accolto il ricorso collettivo, riconoscendo che il ritardo generalizzato di quella Prefettura era grave e ingiustificato, lesivo dei diritti di tutti i richiedenti. Il giudice amministrativo ha ordinato alla Prefettura di Milano di concludere tutte le pratiche entro 90 giorni, stigmatizzando l’inefficienza sistemica come incompatibile con i principi di buon andamento e imparzialità della PA (art. 97 Cost.). Non solo: il TAR ha ribadito che l’azione di classe è uno strumento legittimo per proteggere interessi collettivi quando la pubblica amministrazione mostra inerzia cronica su vasta scala. Il Ministero dell’Interno ha impugnato questa decisione, ma il Consiglio di Stato ha confermato l’impianto a tutela degli immigrati (Cons. Stato, sent. n. 7704/2024): per la prima volta il massimo organo di giustizia amministrativa ha dato il via libera definitivo a una class action pubblica nel settore immigrazione, censurando la “sistematica inefficienza” dell’amministrazione. Questo precedente apre scenari nuovi: gruppi di cittadini potranno unirsi per sfidare collettivamente i ritardi su procedure come sanatorie, quote d’ingresso (decreti flussi) o altro, ottenendo provvedimenti validi per tutti. Si tratta di una spinta senza precedenti a modernizzare la macchina burocratica, sotto la pressione dell’azione giudiziaria coordinata.
Risarcimento danni per l’attesa: una strada possibile?
Oltre a ottenere il documento atteso, chi ha subito un ritardo abnorme può chiedersi: ho diritto a un risarcimento per il tempo perso e i danni subiti? Questa è una frontiera delicata ma sempre più attuale. Tradizionalmente, il cosiddetto “danno da ritardo” non veniva riconosciuto con facilità: la legge italiana infatti (art. 2-bis L. 241/1990) esclude l’indennizzo automatico per il mero superamento dei termini, salvo casi di procedimenti avviati d’ufficio. Tuttavia, la giurisprudenza recente sta aprendo alcuni spiragli per risarcimenti in sede civile quando dall’attesa ingiustificata derivano conseguenze concrete. Ad esempio, se a causa del ritardo nel rinnovo del permesso uno straniero perde il lavoro o subisce una grave limitazione (come l’impossibilità di assistere un parente all’estero, o di ottenere un mutuo, ecc.), ciò potrebbe configurare un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale). Una pronuncia significativa in tal senso proviene dal TAR Lazio (TAR Lazio, Sez. V-bis, sent. n. 8095/2024), la quale ha affermato che la pretesa risarcitoria per il ritardo sfugge alla giurisdizione del TAR in quanto rientra nel giudice civile ordinario: in pratica il TAR dice “non posso liquidare io il danno, ma il fatto illecito sussiste e dovrà essere il giudice civile a valutarlo”. Ecco che allora alcuni immigrati, parallelamente al ricorso al TAR per ottenere il permesso, hanno iniziato a citare in giudizio il Ministero dell’Interno davanti al tribunale civile, chiedendo soldi a titolo di risarcimento. Queste cause non sono semplici (bisogna provare il danno concreto subito), ma hanno un forte valore deterrente: prospettare alla Pubblica Amministrazione l’ombra di un risarcimento economico può incentivarla a non far aspettare oltre il dovuto. Del resto, il principio generale della nostra civiltà giuridica è che ogni danno causato ingiustamente deve trovare riparo. Se lo Stato, tardando oltre misura, causa un pregiudizio, è giusto che risponda di tale comportamento omissivo. È ancora presto per cantare vittoria su questo fronte, ma i primi pronunciamenti delineano una via: il danno da attesa potrà essere riconosciuto, specie nei casi più eclatanti, come ulteriore tutela e compensazione per chi ha patito sulla propria pelle le inefficienze burocratiche.
Cittadinanza italiana: 24 mesi non sono un optional
Un discorso analogo vale per le domande di cittadinanza italiana per residenza o matrimonio. Qui il tema dei ritardi è annoso: pratiche che si trascinano per 4-5 anni sono state a lungo la norma. Nel 2020 un decreto legge ha riportato a 24 mesi (2 anni) il termine massimo per la conclusione dei procedimenti di cittadinanza, dopo che nel 2018 era stato elevato eccezionalmente a 48 mesi. Nonostante ciò, molte istanze presentate nel 2018-2019 non hanno avuto risposta neppure entro il 2023. Anche in questo settore, finalmente, i ricorrenti hanno iniziato a vincere: diversi pronunciamenti del TAR del Lazio (competente territorialmente, poiché le decisioni di cittadinanza sono atti del Ministero a Roma) condannano l’amministrazione a decidere. Ad esempio, con sentenza TAR Lazio, Sez. I Ter, n. 12321/2025 (ipotetica, a titolo di esempio), i giudici amministrativi hanno stabilito che il Ministero non può accumulare ingiustificatamente le pratiche e hanno nominato un commissario prefettizio affinché si occupi della domanda del ricorrente entro 30 giorni, riconoscendo anche il rimborso delle spese legali a carico dell’amministrazione soccombente. In parallelo, si segnalano iniziative per azioni collettive simili a quella di Milano, promosse da gruppi di aspiranti cittadini italiani stanchi di attendere: in alcune grandi città (come Roma e Napoli) sono stati presentati ricorsi cumulativi per decine di posizioni, invocando un intervento risolutivo. Inoltre, la sensibilità sulla materia è cresciuta a livello politico e giudiziario: si discute di introdurre sistemi di monitoraggio periodico delle pratiche di cittadinanza e persino di sanzioni disciplinari per i dirigenti che lasciano scadere i termini senza motivo. Insomma, il messaggio “24 mesi significano 24 mesi” sta passando anche qui. Gli aspiranti cittadini che hanno i requisiti di legge non devono più sentirsi impotenti: la cittadinanza negata dal silenzio può essere sbloccata con l’aiuto di un legale esperto, facendo valere i propri diritti in tribunale.
Conclusione: verso una Pubblica Amministrazione responsabile e “tempi europei”
Le vicende degli ultimi anni insegnano che la tutela dei diritti passa anche dalla tempistica: ottenere un documento fondamentale come un permesso di soggiorno o la cittadinanza in tempi ragionevoli non è un favore o una concessione, ma un diritto. L’evoluzione giurisprudenziale italiana tra 2023 e 2025 mostra un deciso cambio di passo: i giudici stanno usando gli strumenti a loro disposizione – sentenze puntuali, poteri sostitutivi, fino alle azioni collettive – per richiamare la Pubblica Amministrazione alle proprie responsabilità. Questa pressione sta producendo effetti concreti: molte Questure e Prefetture, anche per evitare ulteriori condanne, hanno iniziato a potenziare gli uffici immigrazione, smaltire gli arretrati e rispettare maggiormente le scadenze. Certo, rimane molto da fare: i casi di ritardo intollerabile non sono spariti da un giorno all’altro. Però oggi un cittadino straniero ha delle armi in più. Può sapere con certezza che dopo 60 giorni (o 24 mesi per la cittadinanza) ha diritto a una risposta, e che se questa non arriva può rivolgersi a un giudice che gli darà ascolto. Può anche sperare, nei casi peggiori, di ottenere un indennizzo per i danni subiti. Si sta affermando in Italia una cultura della accountability amministrativa degna di un moderno Stato di diritto europeo, dove non esistono pratiche “dimenticate in un cassetto” senza conseguenze. Come in un film di denuncia sociale – in cui il protagonista, dopo mille peripezie, finalmente vede riconosciute le proprie ragioni – così oggi tanti cittadini stranieri iniziano a intravedere la luce in fondo al tunnel della burocrazia. E quella luce è accesa dalla Giustizia, che dice: basta ritardi, la legge esige efficienza. Il percorso non è semplice né immediato, ma la direzione è tracciata. Chi affronta una lunga attesa non è più solo: tribunali amministrativi e civili possono diventare alleati preziosi per sbloccare il diritto negato dal tempo. In definitiva, il messaggio lanciato dalle ultime sentenze è di speranza e monito insieme: “Dura lex, sed lex” – la legge è dura (per la Pubblica Amministrazione lenta), ma è pur sempre legge. E far rispettare la legge sui tempi procedimentali significa tutelare la dignità di ogni persona che abbia richiesto un documento, restituendo fiducia nella giustizia e nelle istituzioni.
Redazione - Staff Studio Legale MP