
La pensione di inabilità è una prestazione economica riservata a chi si trova, a causa di infermità fisica o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa. Questo è il requisito sanitario fondamentale previsto dalla legge (art. 8, L. 222/1984, nonché art. 12, L. 118/1971 per l’invalidità civile) per ottenere la pensione di inabilità. In altre parole, occorre un’invalidità totale al 100%, tale da impedire al soggetto di esercitare alcun lavoro in modo proficuo e continuativo. Si tratta di un criterio molto stringente, più severo rispetto ad altre prestazioni come l’assegno ordinario di invalidità (che richiede una capacità lavorativa ridotta a meno di un terzo). La valutazione è svolta da una commissione medico-legale dell’INPS, che esamina la documentazione clinica e le capacità residue della persona. Oltre al requisito sanitario, sono previsti spesso limiti reddituali (per la pensione di inabilità civile, il richiedente deve avere redditi sotto una certa soglia annuale) e, nel caso di pensione di inabilità contributiva, un minimo di contributi versati.
È importante distinguere la pensione di inabilità civile (previdenza assistenziale) dalla pensione di inabilità lavorativa del sistema previdenziale: entrambe richiedono il 100% di inabilità, ma la prima è rivolta a chi non ha contributi sufficienti ed è subordinata al reddito, mentre la seconda è legata a un’infermità assoluta in ambito assicurativo, con almeno 5 anni di contributi (di cui 3 nell’ultimo quinquennio). In ogni caso, al di là dei tecnicismi, il concetto chiave è la totale incapacità lavorativa causata dalla malattia. Ciò deve risultare da certificazioni mediche specialistiche, relazioni di centri di salute mentale, eventuali ricoveri o trattamenti terapeutici documentati. Un disturbo lieve o moderato difficilmente darà diritto alla pensione; la normativa si rivolge a condizioni psichiatriche gravemente debilitanti, spesso croniche e resistenti alle cure, che rendono impossibile qualsiasi attività lavorativa, anche la più semplice.
Nel passato ottenere una pensione di inabilità per patologie psichiatriche era un percorso irto di difficoltà. I disturbi mentali, infatti, possono non manifestarsi in evidenze cliniche facilmente quantificabili come le malattie fisiche; spesso il soggetto è in grado di compiere gesti quotidiani semplici, almeno in apparenza, e questo portava alcuni valutatori a ritenere che non vi fosse un’invalidità “assoluta”. La giurisprudenza più datata della Cassazione manteneva un’interpretazione rigorosa: ad esempio, ha stabilito che semplici condizioni di apatia o depressione reattiva, senza episodi acuti o trattamenti intensivi, non bastano a integrare la totale inabilità richiesta. In una decisione emblematica, la Suprema Corte ha ribadito che l’inabilità, ai fini del diritto alla pensione ai superstiti o di inabilità, va intesa come assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi lavoro, determinata esclusivamente dall’infermità fisica o mentale, senza la necessità di ulteriori valutazioni sulla concreta collocabilità lavorativa (Cass. civ., Sez. VI-Lav., ord. n. 9500/2015). In quel caso – che riguardava una figlia affetta da depressione maggiore che chiedeva la reversibilità – i giudici esclusero il diritto perché la condizione clinica, sebbene caratterizzata da apatia e depressione, non aveva mai comportato ricoveri o terapie tali da configurare un’incapacità totale al lavoro. La ricorrente, infatti, pur con difficoltà, svolgeva ancora gli atti quotidiani essenziali e non risultava in uno stato di alienazione mentale tale da annullare ogni residua capacità.
Negli ultimi anni, tuttavia, la sensibilità giuridica verso le disabilità invisibili è molto aumentata. I disturbi mentali gravi – come schizofrenia, disturbo bipolare in forma acuta, depressione maggiore resistente, disturbo schizoaffettivo, disturbi cognitivi o di personalità gravemente invalidanti – sono stati oggetto di un riesame alla luce del principio di effettività della tutela. La Cassazione ha gradualmente ampliato la valutazione, affermando che la “totale inabilità” non va intesa solo in senso muscolare o strettamente fisico, ma occorre considerare se la persona, pur magari capace di svolgere materialmente alcuni compiti, non sia in grado di determinarsi autonomamente e adeguatamente nel compierli a causa della patologia mentale. In altre parole, l’incapacità va valutata anche sotto il profilo funzionale e cognitivo. Su questo punto si è espressa chiaramente la Suprema Corte, stabilendo un principio ormai consolidato: “L’incapacità richiesta per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento (e analogamente della pensione di inabilità) non va rapportata soltanto al numero di atti quotidiani che il richiedente può compiere fisicamente, ma soprattutto alla sua capacità di comprenderne significato, portata ed importanza, salvaguardando la propria persona”. Ciò significa, ad esempio, che un malato psichiatrico che sappia vestirsi e nutrirsi da solo potrebbe comunque necessitare di assistenza continua se non riconosce il senso delle proprie azioni o non percepisce il pericolo (si pensi a chi esce di casa e compie gesti inconsulti senza rendersi conto delle conseguenze).
Questo orientamento, affermatosi in più pronunce, segna un cambiamento importante. Finalmente – scrive la Cassazione – si supera la mera idoneità materiale a compiere gli atti quotidiani, richiedendo di valutare se il soggetto sia capace di autogestirsi in modo sicuro e con giudizio. Già nel 2003 la Corte aveva riconosciuto il diritto all’assegno di invalidità a un’impiegata affetta da sindrome ansioso-depressiva, pur se formalmente capace di lavorare, proprio considerando che il suo rendimento era drasticamente ridotto dalla patologia (Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 12256/2003). Oggi questo approccio è diventato sistematico. Una pronuncia recente ha sottolineato che, in caso di disturbi mentali, il requisito sanitario deve comprendere l’incapacità di intendere il significato degli atti quotidiani e di relazionarsi in modo adeguato con la realtà, elemento imprescindibile per riconoscere la totale inabilità (Cass. civ., Sez. VI-Lav., ord. n. 10633/2021). In sintesi, la presenza di una grave compromissione psichica che impedisca alla persona di gestirsi autonomamente in maniera sicura e di lavorare in qualsiasi contesto va equiparata alla totale incapacità lavorativa richiesta per la pensione di inabilità.
Gli ultimi due anni hanno visto importanti conferme e novità sul tema. In particolare, il 2025 si è aperto con una pronuncia di rilievo della Corte di Cassazione che ha fatto il punto sui disturbi psichiatrici nel contesto del diritto alle prestazioni previdenziali. Si tratta dell’ordinanza n. 29271/2025 della Suprema Corte (Sezione Lavoro), che ha esaminato il caso di un figlio maggiorenne affetto da grave patologia psichiatrica, il quale richiedeva la pensione di reversibilità del padre deceduto come inabile a lavoro. I primi giudici avevano negato il beneficio, sostenendo che il giovane non fosse totalmente inabile poiché dotato di una certa capacità lavorativa residua. La Cassazione, investita della questione, ha cassato la decisione di appello, ritenendo che era stata male valutata la situazione: la Corte ha evidenziato che la residua capacità di cui si parlava era in realtà non concretamente utilizzabile in alcuna occupazione, dati i gravi disturbi psichici del ricorrente. La sentenza sottolinea che, nella valutazione dell’inabilità, bisogna tener conto della reale collocabilità del soggetto nel mondo del lavoro: se la patologia mentale di fatto impedisce qualsiasi inserimento lavorativo effettivo, il requisito dell’assoluta impossibilità lavorativa è soddisfatto, anche se astrattamente il soggetto conserva qualche abilità. In questo caso la Cassazione ha riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità come inabile, ribadendo che la connotazione psichiatrica della malattia va ponderata con attenzione. Non solo: ha anche chiarito l’altro requisito richiesto per la reversibilità, cioè lo stato di vivenza a carico del genitore defunto. Infatti, spesso i figli disabili psichici non svolgendo attività lavorativa vivono a carico dei genitori; la Corte ha ritenuto che tale condizione debba essere interpretata con flessibilità quando la mancata autosufficienza economica deriva direttamente dalla malattia invalidante. In definitiva, l’ordinanza n. 29271/2025 costituisce un precedente importante, perché conferma un approccio sostanzialistico: contano le effettive limitazioni psico-sociali del disabile e non meri dati astratti.
Un’altra novità di grande rilievo proviene dalla Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 94/2025, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che impediva l’integrazione al minimo dell’assegno ordinario di invalidità per alcuni invalidi civili nel sistema contributivo. In parole semplici, i titolari di assegno di invalidità con contributi successivi al 1995 finora non potevano godere dell’aumento alla pensione minima previsto per gli altri; la Corte ha rimosso questa discriminazione, riconoscendo anche a loro il diritto ad avere assegni non inferiori al trattamento minimo sociale. Sebbene questa pronuncia riguardi l’assegno ordinario (invalidità parziale) e non direttamente la pensione di inabilità, è indicativa di una tendenza: il sistema si sta muovendo verso una maggiore tutela economica delle persone con disabilità, comprese quelle con disturbi mentali. La motivazione della sentenza insiste sul principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e sulla necessità di garantire ai disabili mezzi adeguati per vivere dignitosamente, evitando che restino privi di sostegno economico. Si tratta di un segnale importante, perché molte persone con patologie psichiatriche gravi percepiscono proprio l’assegno ordinario o la pensione di inabilità come unico reddito, spesso di importo basso: poter beneficiare dell’integrazione al minimo significa arrivare a circa 538 euro mensili (soglia 2025), importo modesto ma fondamentale per la sopravvivenza. È un altro tassello nel mosaico di rafforzamento dei diritti sociali dei disabili, che va a beneficio anche di chi soffre di malattie mentali invalidanti.
Infine, non possiamo non menzionare il ruolo dei giudici di merito in tempi recenti. Numerose Corti d’Appello e Tribunali del lavoro hanno recepito gli indirizzi della Cassazione, adottando decisioni favorevoli ai malati psichici. Ad esempio, il Tribunale di Bari (sent. n. 3693/2025) ha rigettato il ricorso di una donna con disturbo d’ansia e patologie organiche concomitanti riconoscendole “solo” un’invalidità del 74%; ma contestualmente ha chiarito che se la componente psichiatrica fosse stata più grave fino a impedire alla ricorrente di autodeterminarsi, il diritto alla pensione di inabilità sarebbe stato configurabile. In altri casi, i giudici hanno direttamente accolto le domande: si pensi al Tribunale di Firenze che ha riconosciuto la pensione di inabilità a un paziente schizofrenico in trattamento da anni, ritenendo assorbente la relazione dello specialista che attestava l’incapacità totale a intraprendere qualsiasi lavoro in un ambiente ordinario. Questi esempi mostrano che la cultura giudiziaria sta cambiando: oggi c’è maggiore consapevolezza di cosa significhi convivere con un disturbo mentale grave e di come il diritto debba intervenire per non lasciare queste persone prive di tutela.
Un capitolo a parte, ma strettamente collegato, riguarda l’indennità di accompagnamento. Questo beneficio spetta – a prescindere dal reddito – agli invalidi civili al 100% che si trovino nell’impossibilità di deambulare senza aiuto permanente oppure non riescano a compiere gli atti quotidiani della vita senza assistenza continua (L. 18/1980). Tradizionalmente si pensava a invalidità di tipo motorio o comunque fisico. Ma ormai è acquisito che anche le patologie psichiatriche possono dare diritto all’accompagnamento, pur se il malato è autosufficiente nei movimenti. Come mai? Proprio in base al ragionamento sopra illustrato: non conta solo la capacità motoria, ma la capacità di autodeterminazione e cura di sé in modo sicuro. La Cassazione ha affermato che l’indennità va concessa anche a chi, pur sapendo camminare e compiere semplici gesti, non sia in grado – per disturbo mentale – di comprendere il significato delle proprie azioni e di mantenere comportamenti adeguati per la propria incolumità. Ad esempio, una persona con psicosi grave potrebbe uscire di casa e perdersi, o compiere azioni pericolose per sé e per gli altri senza rendersene conto. In tali casi, serve la presenza vigile di un accompagnatore, esattamente come serve il supporto fisico a chi non può camminare. Già nel 2001 la Cassazione aveva aperto la strada (sent. n. 4389/2001), riconoscendo l’accompagnamento a un paziente con deficit mentale organico che, nonostante l’apparente capacità di muoversi, mostrava un’“incapacità funzionale” a compiere atti quotidiani senza mettere in pericolo sé o altri. Da allora, la giurisprudenza è costante: condizioni come schizofrenia con deliri, demenza, disturbo neurocognitivo grave, autismo a basso funzionamento, depressione maggiore con idee suicidarie non controllabili, rientrano tra quelle che possono integrare il diritto all’accompagnamento. Naturalmente serve una valutazione medico-legale accurata: devono emergere comportamenti disorganizzati, necessità di supervisione continua, incapacità di gestire la propria persona in sicurezza. Ma una volta provato questo, il giudice non può limitarsi a dire “il soggetto sa camminare, quindi non spetta”; deve piuttosto concludere che l’atto del camminare autonomamente è vuoto di significato se la persona non sa dove andare né cosa sta facendo. Emblematica è un’immagine citata in dottrina: una persona psicotica che, pur vestendosi e uscendo di casa da sola, urina in mezzo alla strada o aggredisce i passanti – è evidente che tale individuo, senza assistenza, non può condurre una vita normale. “Non puoi davvero capire una persona finché non ti metti nei suoi panni e percorri il suo cammino”, scriveva Harper Lee ne Il buio oltre la siepe. Ed è proprio ciò che i giudici stanno facendo: mettersi nei panni delle persone con disabilità psichica per comprendere le loro reali necessità quotidiane. Oggi dunque l’accompagnamento è riconosciuto anche per patologie mentali, purché gravi: un importante strumento di sostegno economico (circa 527 euro al mese nel 2025) che aiuta la famiglia o chi assiste il malato a garantirgli sorveglianza e aiuto costanti.
Alla luce di quanto esposto, chi soffre di un grave disturbo psichiatrico (o i suoi familiari) dovrebbe seguire alcuni passi fondamentali per vedersi riconosciuti i propri diritti previdenziali. In primo luogo, curare attentamente la documentazione medica: è essenziale raccogliere certificati specialistici aggiornati (psichiatri, neurologi, centri di salute mentale), che descrivano dettagliatamente la patologia, i sintomi, e soprattutto il grado di compromissione funzionale. Non bastano diagnosi generiche (“disturbo depressivo” o “schizofrenia”); occorre che il medico specifichi se e perché la persona non è in grado di lavorare, magari con esempi concreti (es. “persistente delirio paranoide che impedisce qualsiasi inserimento in ambiente di lavoro”; “marcata disorganizzazione cognitiva e comportamentale che richiede supervisione continua”). Relazioni di ricovero in reparti psichiatrici, certificazioni di invalidità precedenti, verbali di legge 104/1992 (handicap grave) sono tutti elementi utili che vanno prodotti.
Una volta presentata domanda all’INPS (invalidità civile o inabilità previdenziale), si verrà sottoposti a visita della commissione medica. È importante farsi assistere, se possibile, da un medico di fiducia durante la visita, o quantomeno presentare una memoria scritta con i punti chiave della propria condizione. Se l’esito è negativo o riconosce solo un’invalidità parziale (es. 80%), è fondamentale presentare ricorso nei termini di legge (in genere 6 mesi dalla notifica del verbale) al Tribunale competente. La fase giudiziaria inizia ora sempre con un accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c., cioè una perizia medico-legale disposta dal giudice. Qui si gioca spesso la partita decisiva: il perito nominato dal Tribunale esaminerà di nuovo la persona e la sua documentazione. È ammesso nominare un proprio medico legale di parte (consulente tecnico di parte) che partecipi alla visita e difenda le ragioni del malato, evidenziando gli aspetti magari trascurati dall’INPS. Ad esempio, se nelle tabelle percentuali dell’invalidità civile i disturbi mentali hanno punteggi variabili, il consulente potrà argomentare per l’attribuzione del punteggio massimo in base al concreto funzionamento sociale e lavorativo del soggetto. Se la CTU (consulenza tecnica d’ufficio) del tribunale conclude per la totale inabilità, il giudice omologherà l’esito e l’INPS dovrà concedere la pensione. In caso contrario (CTU sfavorevole), è possibile formulare osservazioni e, all’occorrenza, opporre il risultato richiedendo un giudizio di merito. Le recenti sentenze ci mostrano che i giudici del merito, se ben informati, accolgono le tesi a favore del riconoscimento quando esse sono supportate da solidi elementi clinici. Non bisogna scoraggiarsi di fronte a un primo rifiuto amministrativo: molte volte il diritto viene affermato in sede giudiziaria, dove c’è più tempo e attenzione per valutare la complessità del quadro psichico del ricorrente.
In conclusione, ottenere una pensione di inabilità per patologie psichiatriche non è semplice, ma oggi è certamente possibile grazie a un’evoluzione positiva della normativa e della giurisprudenza. Il diritto sta diventando più inclusivo: riconosce che le fragilità mentali possono essere invalidanti quanto (e talora più) di quelle fisiche, e che chi ne è affetto merita uguale protezione. La Cassazione e la Corte Costituzionale, con pronunce coraggiose e orientate alla dignità della persona, hanno aperto la strada: da un lato ribadendo criteri di valutazione più aderenti alla realtà delle malattie mentali (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 29271/2025; Cass. civ., ord. n. 10633/2021), dall’altro rimuovendo ostacoli economici che penalizzavano i disabili (Corte Cost., sent. n. 94/2025). Tocca ora agli operatori – medici legali, INPS e avvocati – applicare concretamente questi principi.
Per le famiglie e le persone interessate, il messaggio è chiaro: non arrendersi. Se un grave disturbo psichico impedisce di lavorare e di condurre una vita autonoma, lo Stato offre strumenti di sostegno: pensione di inabilità, assegno di invalidità, indennità di accompagnamento. Far valere i propri diritti è possibile, anche davanti ai tribunali se necessario. In un’epoca in cui si parla tanto di salute mentale, è fondamentale tradurre la sensibilità sociale in tutele effettive: “Una società si misura da come tratta i più deboli”, e le istituzioni stanno mostrando di voler colmare le lacune del passato. Il percorso resta complesso, ma la giurisprudenza recente rappresenta un faro di speranza per chi lotta ogni giorno contro il buio della malattia mentale, indicando che nessuno dev’essere lasciato indietro.
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Redazione - Staff Studio Legale MP