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Mobbing e straining: nuove sentenze a tutela dei lavoratori - Studio Legale MP - Verona

Le ultime pronunce della Cassazione delineano con precisione i confini del mobbing e del cosiddetto straining, imponendo maggiore tutela per la salute e la dignità del lavoratore in azienda

 

 

I confini del mobbing: comportamenti e prova

Il termine mobbing indica un insieme di comportamenti persecutori e reiterati messi in atto nell’ambiente di lavoro con l’intento di emarginare, umiliare o danneggiare un dipendente. Non esiste una legge che definisca formalmente il mobbing, ma la giurisprudenza ne ha tracciato i contorni. In particolare, si è stabilito che per configurare il mobbing devono ricorrere alcuni elementi fondamentali: una pluralità di atti ostili, protratti nel tempo, un effetto lesivo sulla salute psicofisica della vittima e – soprattutto – un intento persecutorio unitario da parte dell’autore (cioè i vari episodi sono tutti mirati a colpire la stessa persona). La Cassazione ha più volte ribadito che anche atti formalmente leciti (come continui richiami o trasferimenti di sede) possono costituire mobbing, se inseriti in un disegno mirato di vessazione. In altre parole, “le condotte anche di per sé legittime diventano illecite quando sono parte di un comportamento intenzionalmente persecutorio” (così riassume la Suprema Corte).

Dal punto di vista probatorio, è il lavoratore che deve dimostrare in giudizio sia il danno subito (ad esempio tramite certificati medici che attestino un disturbo d’ansia o una depressione reattiva), sia il nesso causale tra quel danno e le condotte subite sul lavoro, nonché naturalmente l’esistenza stessa di queste condotte. Non basta lamentare un clima spiacevole: vanno provati i singoli episodi e la loro natura persecutoria. La giurisprudenza recente conferma con fermezza questo principio: ad esempio, la Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 14890/2025 ha sottolineato che l’onere della prova del mobbing grava sul dipendente, il quale deve documentare il carattere mirato e continuativo delle vessazioni. In quella sentenza la Cassazione ha ribadito che non ogni conflitto o maleducazione sul luogo di lavoro equivale a mobbing: comportamenti sporadici o antipatie occasionali, per quanto sgradevoli, non integrano di per sé gli estremi del mobbing se manca la sistematicità e l’intento di nuocere. Allo stesso tempo, la sentenza n. 14890/2025 ha richiamato l’attenzione sul confine tra legittimo esercizio dei poteri datoriali e condotta vessatoria: rimproveri motivati o richieste lavorative nei limiti dei propri poteri non configurano mobbing, mentre l’abuso di tali poteri in modo da mortificare gratuitamente il dipendente può configurarlo. In sintesi, il mobbing richiede molteplici atti ostili, un fine persecutorio e un danno alla salute: senza questi requisiti, non si può parlare di mobbing in senso giuridico.

Lo straining: quando il clima è ostile ma gli atti sono isolati

Negli ultimi anni le corti italiane hanno riconosciuto una forma più attenuata di persecuzione lavorativa, denominata straining. Il termine deriva dall’inglese “to strain” (mettere sotto pressione) e indica una situazione di stress forzato sul lavoro causata anche da pochi episodi isolati, anziché da una lunga serie continuativa. Lo straining è stato in origine considerato una sorta di “mobbing attenuato”, tanto che inizialmente si riteneva necessario provare comunque un intento vessatorio. Ma l’evoluzione giurisprudenziale ha portato a individuare lo straining come fattispecie a sé, con caratteristiche proprie: non è indispensabile il disegno persecutorio né la continuità delle azioni. Conta che il lavoratore subisca una situazione lavorativa negativamente alterata e permanente nei suoi effetti, a causa anche di un solo atto o di pochi atti che lo abbiano messo in difficoltà. Un esempio tipico di straining è quando il dipendente viene esposto a un forte stress sul lavoro (ad es. privato immotivatamente di strumenti o mansioni, oppure isolato dai colleghi su ordine del capo) in modo non necessariamente deliberato per nuocere, ma comunque tollerato o causato dal datore di lavoro in violazione del dovere di tutela.

I giudici hanno chiarito che lo straining può configurarsi in due situazioni: (1) pochi episodi isolati, anche solo uno, ma tali da produrre un disagio duraturo per il dipendente; (2) un clima lavorativo oggettivamente ostile e stressante che il datore di lavoro permette che perduri (pur senza voler perseguitare qualcuno in particolare). In entrambe le ipotesi manca la serie prolungata di atti tipica del mobbing, ma gli effetti dannosi sono concreti. Significativa sul punto è la Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 123/2025: questa pronuncia ha affermato che anche una condotta episodica, se crea un effetto negativo permanente nella posizione del lavoratore, integra lo straining e fa scattare la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. (che obbliga l’imprenditore a tutelare l’integrità fisica e morale dei dipendenti). In altre parole, secondo la Cassazione lo straining si ha anche senza una pluralità di azioni vessatorie e perfino senza un preciso intento persecutorio, potendo consistere in comportamenti stressogeni consapevolmente attuati ai danni del dipendente, oppure nella colposa inerzia del datore di lavoro che lascia sussistere un ambiente di lavoro nocivo. Questa visione – già espressa in precedenza dalla Suprema Corte – è stata confermata e affinata dalle sentenze degli ultimi due anni, delineando un principio chiave: anche in assenza di mobbing conclamato, il datore può essere responsabile se non impedisce situazioni di stress lavorativo dannoso. Del resto, come insegna un antico detto latino, homo homini lupus: l’uomo può diventare un lupo per i suoi simili, e il diritto interviene per evitare che nell’ambiente di lavoro prevalga la legge del più forte. Proprio per questo il Codice Civile (art. 2087) impone al datore di assicurare condizioni di lavoro sicure e rispettose della dignità, e la giurisprudenza sullo straining riempie di contenuto concreto tale obbligo di protezione, sanzionando anche le forme di prevaricazione meno eclatanti ma comunque nocive.

Le indicazioni della Cassazione nelle sentenze più recenti

Le nuove pronunce della Corte di Cassazione offrono dunque una maggiore chiarezza e un orientamento coerente in materia di mobbing e straining. In particolare, la Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 12518/2025 ha svolto un’approfondita ricognizione dei principi applicabili, delineando con precisione la differenza tra le due fattispecie: il mobbing richiede pluralità di condotte e intento persecutorio unitario, mentre lo straining ricorre in presenza di anche un solo fatto lesivo che provoca un disagio lavorativo permanente, pure senza persecuzione deliberata. Nella sentenza n. 12518/2025, la Suprema Corte ha evidenziato come il giudice di merito debba valutare le caratteristiche, la gravità e le conseguenze frustanti della condotta denunciata, per capire se rientri nel concetto di straining. È stato ribadito che uno spostamento di mansioni isolato e non accompagnato da ulteriori abusi, se non comporta un intento di emarginare il lavoratore ma gli causa comunque un peggioramento stabile (ad esempio perdita di ruolo o di opportunità di carriera), può configurare straining e dare luogo a un risarcimento. Allo stesso modo, un ambiente lavorativo “velenoso” e insostenibile – magari per incuria del datore che lascia impunite prepotenze interne o sovraccarichi alcuni dipendenti di lavoro in modo cronico – viene considerato un illecito a sé, anche senza individuare uno specifico “mobber”. Questa evoluzione giurisprudenziale ha l’effetto di ampliare la tutela: oggi il lavoratore non deve più rassegnarsi se non riesce a dimostrare un vero e proprio mobbing lungo e pianificato, perché può trovare giustizia denunciando anche situazioni di stress lavorativo anomalo o condizioni degradanti tollerate dall’azienda (configurando appunto lo straining).

Le sentenze più recenti della Cassazione, inoltre, insistono sul fatto che il giudice deve valutare caso per caso se i comportamenti denunciati travalicano il normale esercizio dei poteri imprenditoriali. Per esempio, rimproveri giustificati o decisioni organizzative motivate non danno diritto a risarcimento; viceversa, provvedimenti disciplinari pretestuosi, dequalificazioni ingiustificate, isolamenti deliberati del dipendente o trasferimenti punitivi possono essere letti come tasselli di un mosaico persecutorio. In tal senso la Cassazione invita i tribunali a contestualizzare le prove: una serie di piccoli atti ostili, se collegati da un filo conduttore, vanno letti unitariamente come mobbing; un singolo atto grave con effetti duraturi va ricondotto allo schema dello straining. Questa impostazione garantisce maggiore efficacia nella tutela giudiziaria, evitando che comportamenti gravemente lesivi restino impuniti solo perché non se ne può provare un numero elevato. Le pronunce del 2024-2025 hanno anche chiarito che la violazione dell’art. 2087 c.c. può essere riconosciuta dal giudice persino quando il datore di lavoro non ha personalmente compiuto gli atti molesti, ma ha omesso di intervenire per fermare dinamiche persecutorie poste in essere da altri (ad esempio superiori intermedi o colleghi della vittima). L’inerzia di chi dirige l’azienda di fronte a segnalazioni di clima ostile costituisce infatti un comportamento omissivo colpevole, che può fondare la condanna risarcitoria. In sostanza, la Cassazione sta lanciando un messaggio chiaro: tollerare il mobbing equivale a cagionarlo, e rientra anch’esso nella responsabilità datoriale.

Un ulteriore aspetto toccato dalla giurisprudenza recente riguarda la tutela indennitaria e risarcitoria del lavoratore vittima. Le decisioni odierne confermano che il dipendente che ha subito mobbing ha diritto al risarcimento di tutti i danni patiti: non solo il danno biologico (cioè le conseguenze sulla salute, da valutare anche tramite consulenza medico-legale), ma anche il danno morale ed esistenziale, consistente nella sofferenza interiore e nella perdita di qualità della vita dovuta al clima persecutorio. Si riconosce che chi subisce sistematiche umiliazioni al lavoro può riportare ferite nella sfera della dignità personale, nelle relazioni sociali e familiari, e che tutto ciò merita un adeguato ristoro economico. In caso di straining, parimenti, spetta un risarcimento proporzionato alla gravità dello stress imposto e alle ripercussioni sul benessere psicofisico. Va ricordato che queste pretese risarcitorie si prescrivono in genere in 5 anni (trattandosi di illeciti di natura contrattuale o extracontrattuale, a seconda dei casi), quindi è importante muoversi per tempo se si intende agire legalmente.

Diritti del lavoratore e doveri del datore: verso un ambiente di lavoro sano

In definitiva, l’evoluzione giurisprudenziale su mobbing e straining sta rafforzando la cultura della legalità nei luoghi di lavoro. Il messaggio proveniente dalla Suprema Corte è che la dignità e la salute di ogni lavoratore vanno tutelate attivamente: non è più ammesso un atteggiamento passivo delle aziende di fronte a episodi di sopraffazione. Il datore di lavoro ha il dovere giuridico di prevenire e, se del caso, reprimere sul nascere comportamenti ostili tra le mura aziendali – siano essi posti in essere da superiori gerarchici o tra pari – adottando misure organizzative adeguate (codici etici, procedure disciplinari efficaci, sportelli di ascolto, formazione sul rispetto interpersonale). Inoltre, grazie alle nuove sentenze, il lavoratore ha a disposizione strumenti più efficaci per far valere i propri diritti: può denunciare subito anche situazioni di stress intenso o demansionamento isolato, senza dover attendere di accumulare anni di vessazioni, perché la legge (attraverso l’interpretazione dei giudici) riconosce dignità anche a questi “illeciti minori”. Naturalmente, ogni caso concreto avrà le sue peculiarità e spetterà al giudice valutare se si oltrepassa la soglia della tollerabilità. Ma il quadro che emerge è di maggiore severità verso qualunque forma di prevaricazione. Del resto, un ambiente di lavoro sereno e rispettoso non è solo un diritto del dipendente, ma giova anche all’azienda in termini di clima produttivo e performance complessiva. “Le buone aziende sanno che il capitale umano è il loro valore più prezioso e lo rispettano”, affermava un saggio manageriale. Oggi questo concetto trova sponda anche nel diritto: le ultime pronunce giurisprudenziali ci dicono che non ci può essere vero sviluppo economico senza il rispetto della persona che lavora.

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  • 17 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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