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Licenziamento per chat WhatsApp: Cassazione e tutela privacy - Studio Legale MP - Verona

Insultare il capo in una chat privata non giustifica il licenziamento. La Corte di Cassazione conferma che le conversazioni su WhatsApp tra colleghi godono della tutela della corrispondenza: un messaggio offensivo nel gruppo non può costare il posto di lavoro se viene diffuso violando la riservatezza del dipendente

 

La chat privata è inviolabile: il caso che ha fatto discutere

“Tre persone possono mantenere un segreto, se due di esse sono morte.” – Questo celebre aforisma di Benjamin Franklin ricorda ironicamente quanto sia difficile mantenere privata una confidenza condivisa con altri. È quanto emerso in un caso reale: un operaio è stato licenziato dopo che alcuni messaggi vocali offensivi verso i superiori, inviati in un gruppo WhatsApp di soli colleghi, erano giunti all’orecchio dell’azienda. Uno dei partecipanti alla chat aveva infatti divulgato le conversazioni ai dirigenti. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento come illegittimo, invocando la violazione della propria riservatezza. La vicenda è giunta fino alla Corte di Cassazione, che gli ha dato ragione: il provvedimento espulsivo è stato annullato, segnando un importante precedente in tema di privacy del dipendente.

La Cassazione civile, Sez. Lavoro, sent. n. 5334/2025, ha stabilito che i messaggi scambiati in una chat riservata di WhatsApp sono protetti dal segreto di corrispondenza, al pari di una lettera chiusa o di una e-mail privata. Anche se il gruppo comprendeva ben 13 colleghi, gli utenti potevano aspettarsi che le comunicazioni restassero confidenziali. Di conseguenza, l’uso di quei contenuti contro l’autore è stato giudicato illegittimo: il licenziamento per giusta causa è stato revocato e il lavoratore reintegrato con diritto al risarcimento delle mensilità perdute durante l’allontanamento. La decisione si fonda sul principio che la corrispondenza privata è inviolabile (tutelata dall’art. 15 della Costituzione e dalle norme sulla privacy) e che non spetta al datore di lavoro farsi “giustiziere morale” violando diritti fondamentali del dipendente. In altre parole, il fine disciplinare non giustifica i mezzi se questi comportano una grave violazione della privacy. Come sintetizzato dagli “Ermellini” (così vengono chiamati i giudici di Cassazione), il monitoraggio sulle comunicazioni personali dei dipendenti non può superare i limiti della legge, neppure di fronte a espressioni ingiuriose: “Quis custodiet ipsos custodes?”chi sorveglia i sorveglianti? – viene da chiedersi, immaginando il potere dell’azienda di interferire nella sfera privata dei lavoratori.

Whatsapp vs Facebook: chat chiuse e social pubblici a confronto

La pronuncia della Cassazione richiama un precedente orientamento della Consulta, che già distingueva nettamente tra contenuti condivisi in spazi pubblici come i social network e comunicazioni in spazi privati come le chat. Nel caso in esame, i giudici supremi hanno sottolineato che WhatsApp (così come altre app di messaggistica istantanea) è un mezzo in cui l’utente ha una naturale aspettativa di riservatezza, diversamente da una bacheca Facebook o un forum pubblico. Pertanto, un messaggio scambiato in una conversazione privata rimane coperto da segreto, anche se un destinatario infedele lo rivela a terzi. Questa visione ha implicazioni pratiche importantissime: significa che il datore di lavoro non può licenziare un dipendente basandosi su frasi o sfoghi raccolti in chat private, poiché farlo equivarrebbe ad avallare una violazione della sfera personale del lavoratore.

Di contro, per le esternazioni rese su piattaforme aperte a un numero indeterminato di persone (come i social), l’aspettativa di privacy viene meno, e con essa si affievolisce la tutela. La giurisprudenza recente è chiara su questo punto: divulgare post offensivi su Facebook, visibili ad altri utenti, costituisce una condotta diffamatoria idonea a ledere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Ad esempio, la Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 12142/2024 ha confermato il licenziamento per giusta causa di una dipendente che aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook commenti gravemente denigratori verso l’azienda. I giudici hanno ritenuto quella condotta assimilabile alla diffamazione aggravata, poiché il messaggio su un social network – pur se inizialmente visibile solo agli “amici” – ha in sé la potenzialità di raggiungere un pubblico vasto e indeterminato, tramite condivisioni o screenshot incontrollabili. In tal caso, diversamente dalle chat chiuse, non c’è segreto di corrispondenza che tenga: la comunicazione è considerata pubblica e le relative conseguenze disciplinari (o addirittura penali) trovano fondamento. Come ha osservato la Cassazione, un post messo online può facilmente “sfuggire di mano” al suo autore, propagandosi ben oltre i confini immaginati: ciò giustifica una risposta rigorosa dell’ordinamento verso insulti e accuse lanciati in rete a platee indefinite.

Alla luce di questo confronto, emerge un principio duale: tolleranza zero per le offese rese in pubblico, massima cautela per quelle espresse in privato. Non significa, beninteso, che la legge incoraggi l’insulto nascosto: semplicemente, riconosce che uno sfogo confidenziale (per quanto biasimevole nei toni) non lede in modo apprezzabile l’immagine aziendale, a differenza di un attacco diffuso pubblicamente. Di conseguenza, il licenziamento disciplinare trova giustificazione nel secondo scenario (offesa pubblica), ma non nel primo (offesa privata divulgata abusivamente).

E-mail, telecamere e controlli: il filo rosso della privacy sul lavoro

La vicenda dei messaggi WhatsApp si inserisce in un filone giurisprudenziale più ampio, che negli ultimi anni sta rafforzando le garanzie di privacy dei lavoratori di fronte ai potenziali abusi dei controlli datoriali. La stessa Cassazione, con altre pronunce ravvicinate, ha tracciato limiti precisi: ad esempio, ha stabilito che anche le email aziendali dei dipendenti vanno considerate corrispondenza privata inviolabile, se protette da password personale e non liberamente accessibili【Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 24204/2025】. In quel caso, un’azienda era ricorsa a vecchi messaggi email (conservati sul server aziendale) per difendersi in giudizio contro ex dipendenti, sostenendo che – trattandosi di account aziendali – potesse leggerli liberamente. I giudici hanno invece confermato che il datore di lavoro che accede senza autorizzazione a caselle di posta protette viola l’art. 616 c.p. (violazione di corrispondenza) e, se l’accesso avviene tramite i sistemi informatici interni, incorre anche nel reato di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.). Tradotto in ambito disciplinare: le prove acquisite in modo illecito, violando la privacy del lavoratore, non possono giustificare sanzioni. Un procedimento disciplinare fondato su simili elementi è nullo in radice.

Analogamente, sono stati dichiarati illegittimi i controlli retroattivi e a tappeto sulle comunicazioni aziendali del personale, effettuati in assenza di sospetti specifici. Ad esempio, la Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 807/2025 ha annullato il licenziamento di un dirigente perché l’azienda, insospettita da un alert informatico, aveva passato al setaccio tutte le sue email pregresse, andando “a pesca” di irregolarità prima ancora di averne indizi concreti. Questo tipo di monitoraggio indiscriminato viola sia l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (che regola i controlli a distanza), sia i principi di proporzionalità e minimizzazione sanciti dal GDPR per il trattamento dei dati personali. Il risultato? Le informazioni raccolte in violazione di tali regole divengono inutilizzabili sul piano disciplinare, e il provvedimento punitivo adottato viene travolto.

Anche l’uso di strumenti di sorveglianza occulta sul luogo di lavoro è sottoposto a vincoli stringenti. Le telecamere nascoste, ad esempio, sono lecite solo per prevenire condotte illecite e previa autorizzazione sindacale o ispettiva; fuori da questi casi, le riprese ottenute all’insaputa dei dipendenti violano la loro privacy e non possono fungere da base per sanzioni. Significativo in proposito è un recente arresto in sede penale: la Cass. pen., Sez. V, sent. n. 28613/2025 ha riconosciuto configurabile il reato di interferenze illecite nella vita privata nel caso di microcamere installate senza consenso, ribadendo che la tutela della vita privata del lavoratore “vale” anche contro il datore di lavoro quando questi travalica i limiti consentiti.

In definitiva, dalle email alle chat, dalle postazioni PC alle videocamere, il filo rosso che unisce le ultime sentenze è la riaffermazione di un concetto basilare: la dignità e la riservatezza della persona precedono il potere di controllo dell’azienda. Il datore può certamente vigilare sul corretto adempimento della prestazione lavorativa e proteggere il patrimonio aziendale da comportamenti illeciti (i cosiddetti “controlli difensivi” sono ammessi), ma deve farlo nel rispetto delle garanzie di legge e senza travalicare nella sorveglianza arbitraria. Ogni eccesso – sia esso un monitoraggio informatico invasivo o l’utilizzo di confidenze private come arma disciplinare – viene oggi censurato dai giudici, a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore.

Cosa rischia chi insulta il capo… e cosa rischia l’azienda che spia

Viene spontaneo chiedersi: dopo questa pronuncia, i lavoratori sono “liberi” di sfogarsi in chat private denigrando superiori e colleghi? No di certo. Il fatto che un licenziamento basato su messaggi privati sia illegittimo non significa che tali condotte siano incoraggiate o prive di conseguenze. In primo luogo, resta intatta la possibilità di sanzioni disciplinari per vie legittime: ad esempio, se l’azienda viene a conoscenza del comportamento offensivo tramite una fonte lecita (non una violazione della privacy), potrebbe agire nei limiti del contratto e del codice disciplinare. Nel caso specifico, la particolarità è che l’unica prova degli insulti proveniva da una fonte vietata (violazione della corrispondenza), e dunque il licenziamento non poteva reggersi. Inoltre, frasi gravemente minacciose potrebbero, in teoria, far scattare conseguenze legali indipendenti dal rapporto di lavoro (denunce per molestie o minacce), ma si entra in un altro campo: qui parliamo della possibilità di licenziare sommariamente un dipendente per aver parlato male del capo in privato. La risposta della Cassazione è chiara: non si può.

D’altro canto, le aziende devono prestare la massima attenzione: l’uso di mezzi invasivi per stanare comportamenti scorretti può ritorcersi contro di loro. Se un datore di lavoro basa un provvedimento disciplinare su prove ottenute violando la privacy (ad esempio leggendo chat o email private, o ricorrendo a investigatori senza titolo su aspetti della vita personale del dipendente), rischia non solo di vedersi annullare il provvedimento, ma anche di incorrere in responsabilità ulteriori. Violare la corrispondenza altrui integra reati e obbliga al risarcimento dei danni morali. Senza contare il danno organizzativo: un licenziamento illegittimo comporta spesso l’ordine di reintegra, con obbligo per l’azienda di corrispondere tutte le retribuzioni arretrate (come avvenuto nel caso in esame). Ciò significa pagare un dipendente per mesi o anni di inattività forzata, solo perché si è agito in modo affrettato e fuori dalle regole nell’intento di punirlo.

In conclusione, lo scenario delineato dalle più recenti sentenze può essere così riassunto: un cortocircuito comunicativo avvenuto in uno spazio privato (la chat fra colleghi) non può legittimare un licenziamento per giusta causa, in nome del principio superiore della tutela della privacy e della corrispondenza; invece, un comportamento diffamatorio tenuto in pubblico (sui social o altri contesti aperti) resta fonte di responsabilità disciplinare e anche penale. Per i lavoratori, il messaggio è duplice: da un lato, hanno diritto a una sfera di sfogo privata che non diventi terreno di sorveglianza aziendale; dall’altro, devono comunque usare rispetto e buon senso, perché confidare ad altri un insulto o un segreto comporta sempre il rischio di diffusione (lo abbiamo visto: la privacy in ambiente digitale è preziosa ma fragile, e basta un tap sbagliato perché ciò che era privato diventi pubblico). Per le imprese, la lezione è altrettanto importante: meglio puntare sulla prevenzione e sul dialogo che sullo spionaggio informale. Gli strumenti legali per proteggere l’azienda esistono, ma vanno usati correttamente – accordi sindacali per i controlli, audit mirati in caso di illeciti, intervento dell’autorità giudiziaria quando serve – senza scavalcare le garanzie dell’individuo. In caso di dubbi sulla legittimità di un controllo o sulla gestione disciplinare di comunicazioni dei dipendenti, è fondamentale consultarsi con esperti di diritto del lavoro e privacy prima di agire.

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  • 03 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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