
Fino a poco tempo fa, ottenere il riconoscimento dell’invalidità civile o di una invalidità lavorativa comportava un lungo percorso amministrativo. Il cittadino doveva presentare domanda alla ASL, sottoporsi a visite presso commissioni medico-legali locali, attendere la validazione finale dell’INPS e, in caso di esito negativo o percentuale troppo bassa, valutare un ricorso in sede giudiziaria. Nel 2024 è però arrivata una piccola rivoluzione destinata a semplificare questo iter: il decreto legislativo 3 maggio 2024 n. 62 (attuativo della Legge Delega n. 227/2021) ha riformato profondamente la procedura di accertamento della disabilità. La novità principale è l’istituzione di un “certificatore unico” nazionale – l’INPS – quale ente pubblico competente a gestire l’intero procedimento di riconoscimento. In pratica, oggi la domanda di invalidità civile (o di handicap ex Legge 104/1992) si presenta direttamente all’INPS, che cura tutte le fasi della valutazione medico-legale, evitando duplicazioni tra enti diversi. L’obiettivo dichiarato è rendere la procedura uniforme, rapida e meno gravosa: un solo accertamento valido su tutto il territorio, criteri valutativi standardizzati e tempi più brevi per ottenere il verbale. La riforma prevede un’implementazione graduale: alcune disposizioni sono entrate in vigore dal 30 giugno 2024, con una sperimentazione iniziale in alcune province pilota a partire dall’inizio del 2025, prima di estendersi a regime nell’intero Paese. Tra gli strumenti innovativi introdotti vi sono la valutazione di base uniforme e il “progetto di vita” personalizzato, che mira a inquadrare la persona con disabilità non solo in base alla patologia, ma anche considerando le sue esigenze di inclusione sociale, lavorativa e relazionale. Significativo anche l’abbandono di termini superati: nel linguaggio normativo si sostituiscono espressioni come “invalidità” e “handicap” con la formula “persona con disabilità”, in linea con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Queste innovazioni segnalano un cambio di paradigma culturale, riconoscendo che la condizione di disabilità non è più vista solo come parametro medico-percentuale, ma come situazione che il sistema deve prendere in carico offrendo accomodamenti e sostegni adeguati.
Nonostante la semplificazione amministrativa, non tutti i problemi scompaiono con il “certificatore unico”. Può capitare che l’INPS – pur in buona fede – neghi l’invalidità oppure riconosca una percentuale inferiore a quella attesa (ad esempio attestando un 60% invece del 80%, facendo così perdere il diritto a una prestazione economica o all’iscrizione alle categorie protette). In simili frangenti resta fondamentale la tutela giurisdizionale, cioè la possibilità di impugnare il verbale sanitario ritenuto ingiusto. Da tempo il nostro ordinamento prevede una procedura ad hoc, pensata per bilanciare rigore tecnico e celerità: prima di instaurare un vero e proprio processo, il cittadino deve promuovere un accertamento tecnico preventivo obbligatorio davanti al Tribunale (sezione Lavoro). In questa fase preliminare, un perito medico nominato dal giudice (CTU) riesamina la documentazione clinica e visita l’interessato, pronunciandosi sul requisito sanitario (gravità dell’invalidità e corrispondente percentuale). L’idea è che, chiarendo rapidamente il dato tecnico, si possa evitare un lungo contenzioso: se la perizia conferma il diritto del ricorrente (ad esempio riconosce una percentuale superiore al minimo per la pensione o l’accompagnamento), l’INPS potrebbe prendere atto dell’esito e concedere il beneficio già in questa fase, senza attendere la sentenza finale. In caso di disaccordo, si prosegue invece con la causa, ma avendo già a disposizione il parere del perito del tribunale. Su questo meccanismo, apparentemente macchinoso, la Corte di Cassazione è intervenuta più volte per chiarirne i limiti e garantire che la tutela del disabile non sia frustrata da cavilli procedurali. Ad esempio, la Suprema Corte ha ribadito che il giudice deve esaminare tutte le domande connesse alla disabilità avanzate dal cittadino (pensione, indennità, ecc.), evitando di spezzettare il contenzioso in più fasi separate; inoltre, il termine di decadenza per agire in giudizio va calcolato con attenzione, considerando le peculiarità dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio e assicurando che il ricorso del disabile non sia rigettato per mere questioni formali. Si cerca insomma di dare sostanza al principio per cui i diritti sociali vanno garantiti pienamente, senza intrappolare il cittadino in un labirinto burocratico-giudiziario. Emblematico in tal senso un recente pronunciamento del Consiglio di Stato, che ha sottolineato come annullare un atto senza rimuovere anche i suoi effetti a cascata significherebbe costringere le famiglie a molteplici ricorsi: con la sentenza n. 7027/2025 (Sez. III, decisione del 12 agosto 2025) il massimo organo della giustizia amministrativa ha affermato che quando un regolamento viene annullato, tutti gli atti applicativi decadono automaticamente, senza bisogno di impugnarli uno ad uno. Questo principio, sebbene espresso in un giudizio amministrativo riguardante prestazioni sociali, ha un enorme rilievo pratico: significa meno oneri e meno lungaggini per le persone con disabilità e i loro familiari, che vedono finalmente riconosciuti i propri diritti senza dover combattere ogni singolo diniego derivante da una norma illegittima. In sintesi, l’accesso alla giustizia diventa più effettivo, in linea con l’idea che il sistema deve adattarsi alle esigenze del cittadino fragile e non viceversa.
Ottenere il riconoscimento formale di una percentuale di invalidità non serve solo ad accedere a pensioni o indennità: ha importanti ricadute anche sul piano lavorativo. In Italia, le persone con una capacità lavorativa ridotta o appartenenti alle categorie protette godono di specifiche misure di tutela nell’impiego. Una delle più rilevanti è il collocamento mirato previsto dalla Legge 68/1999, che impone ai datori di lavoro (pubblici e privati) di assumere una quota di lavoratori con disabilità in proporzione alle dimensioni dell’azienda, pena sanzioni. Tuttavia, l’inclusione lavorativa non si esaurisce con l’assunzione obbligatoria. Un concetto chiave emerso negli ultimi anni è quello di accomodamento ragionevole, sancito a livello internazionale dalla Convenzione ONU sui diritti dei disabili (ratificata dall’Italia con Legge 18/2009) e recepito dal diritto europeo (Direttiva 2000/78/CE) nonché dalla normativa nazionale. In base all’art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. 216/2003, i datori di lavoro hanno l’obbligo di adottare misure organizzative e tecniche ragionevoli per garantire alle persone con disabilità la piena parità di condizioni nell’accesso e nello svolgimento del lavoro, purché tali misure non comportino un onere finanziario sproporzionato. Si tratta, in concreto, di adattamenti che permettono al dipendente disabile di lavorare efficacemente: ad esempio modifica delle mansioni non essenziali, orari flessibili, postazione ergonomica, strumenti assistivi o tecnologie adeguate, possibilità di smart working in caso di particolari esigenze di salute, fino alla ridistribuzione dei compiti tra il personale per sollevare il lavoratore dalle attività incompatibili con la sua condizione. Questa prospettiva mira a superare l’approccio pietistico o assistenzialistico: la persona con disabilità non dev’essere tollerata ai margini dell’azienda, ma messa in condizione di esprimere il proprio potenziale, a vantaggio suo e dell’organizzazione. Sul piano culturale, rappresenta un cambiamento importante: il focus si sposta dal deficit della persona ai doveri di adattamento dell’ambiente lavorativo. Non a caso, i giudici hanno iniziato a censurare con sempre maggior fermezza le situazioni in cui il datore di lavoro resta passivo di fronte alle esigenze del dipendente disabile, applicando in modo cieco le regole ordinarie come se tutti i lavoratori avessero le stesse condizioni.
Un campo in cui l’evoluzione giurisprudenziale è stata particolarmente incisiva è quello dei licenziamenti per superamento del periodo di comporto. Il “comporto” indica il periodo massimo di assenze per malattia consentito in base al contratto: superato tale limite (ad esempio 180 giorni in un anno, o 12 mesi in un triennio, a seconda del CCNL applicato), l’azienda può legittimamente interrompere il rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione. Si tratta di una norma pensata per tutelare l’organizzazione aziendale, che non può restare scoperta oltre un certo tempo. Tuttavia, applicare questa regola in modo identico a tutti i dipendenti può creare un effetto discriminatorio verso chi è portatore di patologie invalidanti. Un lavoratore con disabilità grave potrebbe infatti avere necessità di cure, controlli o periodi di convalescenza più frequenti di un collega sano, rischiando così di maturare assenze prolungate proprio a causa della sua condizione. In passato la giurisprudenza tendeva a considerare legittimo il licenziamento, purché fosse superato il limite di comporto previsto dal contratto, senza ulteriori distinzioni. Oggi questo approccio è cambiato radicalmente. La Corte di Cassazione, in una serie di decisioni innovative, ha sancito che il licenziamento intimato a un disabile per aver superato il periodo di comporto può risultare nullo per discriminazione indiretta, se le assenze prolungate dipendono direttamente dalla sua disabilità. In particolare, con la sentenza n. 11731/2024 (Sez. Lav., pronuncia del 28 maggio 2024), la Suprema Corte ha affermato che l’applicazione pedissequa di un periodo massimo di malattia uguale per tutti i lavoratori finisce per penalizzare in modo sproporzionato i lavoratori disabili, i quali presentano un rischio di morbilità più elevato. Si configura così una discriminazione indiretta, in violazione dell’art. 2, comma 3, lett. b) del D.Lgs. 216/2003, perché una regola solo apparentemente neutra (il comporto standard) ha un impatto sfavorevole proprio su un gruppo protetto (le persone con handicap). Per evitare tale effetto distorsivo, i contratti e i datori di lavoro devono prevedere criteri differenziati: ad esempio un prolungamento del comporto per i dipendenti disabili, oppure la non computabilità (in tutto o in parte) delle assenze riconducibili direttamente alla disabilità nel calcolo del periodo. Queste misure non sono una concessione di benevolenza, ma costituiscono un vero e proprio accomodamento ragionevole imposto dalla legge a tutela del lavoratore in situazione di svantaggio. La Cassazione ha precisato inoltre che il datore di lavoro è tenuto ad attivarsi in modo proattivo prima di procedere al licenziamento: deve verificare, mediante adeguata interlocuzione, se le assenze prolungate del dipendente siano dovute alla sua condizione invalidante. Già con la sentenza n. 9095/2023, la Corte aveva chiarito che grava sul datore l’onere di informarsi e collaborare con il lavoratore (ad esempio tramite il medico competente aziendale) per raccogliere elementi sull’eventuale origine patologica delle assenze. Non è il lavoratore a dover “elemosinare” comprensione, semmai l’azienda che, in ossequio ai doveri di buona fede e correttezza, deve fare la propria parte diligente prima di decidere un recesso. Questo orientamento si è andato consolidando: Cassazione Civile, Sez. Lav., ord. n. 14402/2024 e n. 14316/2024 del 2024 hanno confermato la nullità del licenziamento per superamento del comporto quando il datore non abbia tenuto conto della particolare situazione del disabile. Da ultimo, con ordinanza n. 170/2025 (depositata il 7 gennaio 2025), la Cassazione ha cassato una sentenza della Corte d’Appello che aveva ignorato tali principi, ribadendo in apertura d’anno il concetto: il recesso è discriminatorio e dunque nullo se avviene senza aver adottato accomodamenti ragionevoli per il lavoratore disabile. In pratica, al dipendente licenziato illegittimamente spetta la reintegrazione sul posto di lavoro e il risarcimento integrale delle retribuzioni perdute, come previsto dall’art. 18, co. 1, Statuto dei Lavoratori (in quanto si tratta di un licenziamento nullo per motivo discriminatorio). Queste pronunce rappresentano un segnale forte: la disabilità non può essere trattata dall’ordinamento come un “peso” da scaricare appena possibile, ma impone una personalizzazione dei rapporti di lavoro in nome del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Il tema degli adattamenti dovuti al lavoratore disabile si estende anche ad altri aspetti del rapporto di lavoro, come la mobilità e i trasferimenti di sede. La Legge 104/1992 già riconosce alcuni diritti di precedenza nelle procedure di trasferimento: ad esempio, l’art. 33, co. 6 garantisce al lavoratore portatore di handicap grave la possibilità di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio e la non trasferibilità senza consenso; inoltre l’art. 21 della stessa legge prevede che il dipendente pubblico con un’invalidità superiore ai due terzi ha diritto a preferenza nella scelta tra le sedi disponibili. Tuttavia, possono sorgere conflitti con le regole generali di mobilità del personale. Un caso emblematico ha riguardato il comparto scuola, dove i trasferimenti interprovinciali dei docenti disabili venivano spesso bloccati dalla precedenza accordata ai trasferimenti all’interno della stessa provincia. In altri termini, un insegnante con grave disabilità che chiedeva il trasferimento in una provincia diversa per avvicinarsi alla famiglia rischiava di non trovare posto, perché tutti i posti venivano occupati da movimenti provinciali (anche di colleghi senza disabilità), a cui il contratto collettivo dava priorità. Questa situazione è stata portata all’attenzione dei giudici e ha condotto la Corte di Cassazione a sollevare il dubbio di contrasto con il diritto dell’Unione Europea. Con ordinanza n. 24336/2024 (Sez. Lav., 10 settembre 2024), la Cassazione ha sospeso il giudizio su un caso di docente disabile non trasferita e ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia UE, chiedendo se la disciplina italiana – laddove non riconosce una precedenza effettiva alle persone con disabilità nei trasferimenti tra province – sia compatibile con il divieto di discriminazioni indirette sancito dalla Direttiva 2000/78/CE. In particolare, i giudici italiani dubitano che sia giustificato un sistema in cui il criterio apparentemente neutro della priorità della mobilità provinciale penalizza di fatto i lavoratori con handicap grave che aspirano a spostarsi presso sedi più adatte alle proprie esigenze familiari o di salute. La parola passa dunque ai giudici europei, ma il solo fatto che la Cassazione abbia attivato la Corte di Lussemburgo su questo tema è indicativo di una crescente sensibilità: le norme contrattuali o regolamentari che ostacolano senza motivo l’esercizio dei diritti dei disabili vengono sottoposte a un attento scrutinio di legittimità e proporzionalità. Nel frattempo, anche la giustizia amministrativa continua a garantire tutele parallele: si pensi ai casi in cui un genitore di figlio disabile ottiene dall’autorità giudiziaria il trasferimento vicino a casa per poter prestare assistenza, oppure alle pronunce che hanno riconosciuto il diritto ad un numero adeguato di ore di assistente educativo o insegnante di sostegno per gli alunni con disabilità nelle scuole (evitando che tagli di bilancio ledano il diritto allo studio di studenti fragili). In tutte queste vicende, il filo conduttore è la necessità di adattare il sistema alle situazioni di particolare fragilità: la legge predispone strumenti (permessi lavorativi mensili ex art. 33 L. 104/1992, congedi straordinari retribuiti fino a due anni per l’assistenza ai familiari disabili, esonero dai turni notturni, ecc.), ma quando ciò non basta intervengono i giudici, caso per caso, per assicurare che il principio di pari dignità non resti sulla carta.
Dal potenziamento delle garanzie nel riconoscimento amministrativo dell’invalidità alle svolte giurisprudenziali in materia di lavoro e disabilità, il trend è chiaro: il nostro ordinamento sta evolvendo verso un modello di tutela sempre più personale e inclusivo, in cui le norme si piegano alle esigenze della vita reale e non il contrario. Questa trasformazione non riguarda solo le persone con disabilità, ma indirettamente tutti noi. Una celebre massima latina recita: “Hominum causa omne ius constitutum est”, tutto il diritto è stato creato per la persona. Garantire diritti effettivi ai cittadini più deboli significa rafforzare lo Stato di diritto nel suo complesso, perché una società che non lascia indietro nessuno è una società in cui ciascun individuo può sentirsi più sicuro e valorizzato. Naturalmente, molto resta da fare: dall’attuazione pratica della riforma degli accertamenti sanitari (che andrà monitorata nei suoi effetti concreti) all’impegno delle aziende nel tradurre in azioni gli obblighi di accomodamento, fino alla sensibilizzazione culturale per superare stereotipi e barriere invisibili. Ma le basi giuridiche gettate in questo ultimo periodo sono promettenti. Chi si trova a combattere con la burocrazia per un verbale di invalidità, chi teme di perdere il lavoro a causa di una lunga malattia, chi ogni giorno affronta ostacoli aggiuntivi sul posto di lavoro a motivo della propria disabilità, oggi ha a disposizione strumenti normativi e giurisprudenziali più robusti di ieri. In caso di difficoltà, vale la pena ricordare le parole di un grande della letteratura: “Molte delle cose che oggi sono impossibili domani non lo saranno più” (Jules Verne). La strada verso l’inclusione è in continua costruzione, ma con l’aiuto della legge e una rinnovata consapevolezza collettiva, ciò che ieri sembrava irraggiungibile diventa passo dopo passo realtà. Non bisogna arrendersi: i diritti dei lavoratori con disabilità esistono e possono essere fatti valere, quando necessario anche in sede legale, per trasformare i principi in risultati tangibili nella vita delle persone.
Redazione - Staff Studio Legale MP