
«Il ritardo nella giustizia è un’ingiustizia.» – Walter Savage Landor. Questa celebre citazione ben si adatta al tema dell’invalidità civile quando la burocrazia rallenta il riconoscimento di diritti fondamentali. Le persone con disabilità spesso affrontano iter amministrativi lunghi e complessi per vedersi riconosciuta una pensione di invalidità, un assegno mensile o altre provvidenze. La legge fissa termini precisi: 120 giorni è il tempo entro cui l’INPS dovrebbe concludere il procedimento di accertamento dall’invio della domanda. In pratica, però, le attese medie superano i 140 giorni, con punte di oltre 200 giorni nelle situazioni più critiche. Questa lentezza amministrativa non è solo un fatto tecnico: per chi attende significa mancati sostegni economici nei mesi di ritardo e aggravamento di situazioni di fragilità. La domanda sorge spontanea: è possibile ottenere un risarcimento per i ritardi nell’accertamento dell’invalidità civile? In altre parole, la legge tutela il cittadino disabile contro l’eccessiva lentezza dell’INPS? Nelle sezioni seguenti analizziamo cosa prevede la normativa e come si sono espresse le più recenti sentenze su questo delicato problema, cercando di capire in quali casi si possa ottenere un indennizzo o un vero e proprio risarcimento del danno subito.
Prima di parlare di risarcimento del danno in senso stretto, è importante ricordare che l’ordinamento già prevede alcuni rimedi automatici per chi riceve in ritardo le prestazioni di invalidità civile riconosciute. In caso di accertamento positivo tardivo, l’INPS corrisponde comunque tutti i ratei arretrati spettanti, generalmente a decorrere dalla data della domanda originaria (o dal momento in cui sussistevano i requisiti sanitari ed economici). Oltre agli arretrati, la legge impone il pagamento degli interessi legali dal momento in cui il beneficio avrebbe dovuto essere erogato. L’art. 16 comma 6 della legge n. 412/1991 stabilisce che gli enti previdenziali sono tenuti a versare gli interessi sulle somme dovute, decorrenti dalla scadenza del termine del procedimento. Inoltre, grazie all’art. 22 comma 36 della legge n. 724/1994, tale obbligo si estende anche alle prestazioni assistenziali come quelle di invalidità civile. In sostanza, se l’INPS paga con ritardo, al beneficiario spettano interessi di mora e anche l’eventuale maggior danno da svalutazione monetaria: ciò significa che, in periodi di alta inflazione, deve essere riconosciuta la rivalutazione monetaria qualora superi l’ammontare degli interessi maturati. Questo meccanismo tutela il valore reale degli arretrati, evitando che il ritardo procuri una perdita economica. Ad esempio, il Tribunale di Roma (Sez. Lavoro, sent. n. 8970/2023) ha ribadito che, nel caso di pagamento tardivo di una pensione o indennità, l’INPS deve corrispondere al beneficiario gli interessi legali e la rivalutazione su ogni rateo dal giorno in cui sarebbe spettato. È bene sottolineare che tali somme accessorie (interessi e adeguamento all’inflazione) sono un diritto automatico dell’assistito; tuttavia, nella prassi non sempre l’INPS le liquida spontaneamente in modo integrale, ed è quindi opportuno, all’atto del pagamento, verificare il conteggio ed eventualmente sollecitare gli importi dovuti. In definitiva, già per via ordinaria il cittadino non subisce un danno patrimoniale “da ritardo” sul piano strettamente pecuniario, perché ottiene gli arretrati con relativi interessi. Ma questo basta a compensare tutti i disagi subiti? Cosa accade per il danno non patrimoniale, cioè lo stress, le difficoltà e le conseguenze esistenziali di un’attesa prolungata? Per rispondere, dobbiamo esaminare l’orientamento della giurisprudenza sui cosiddetti danni ulteriori da ritardo.
Molti si chiedono se sia possibile ottenere un risarcimento per i danni morali o esistenziali causati dal ritardo nel riconoscimento dell’invalidità civile. Ad esempio, una persona con grave disabilità che rimane per mesi senza sostegni economici né assistenza potrebbe aver subito angoscia, peggioramento della qualità di vita, rinunce a cure o ulteriori difficoltà familiari. In termini giuridici, si tratta di danni non patrimoniali, la cui risarcibilità segue criteri piuttosto stringenti. La Corte di Cassazione ha più volte affermato che il semplice ritardo nell’adempimento di una prestazione non basta di per sé a generare un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a meno che non abbia leso in modo grave diritti fondamentali della persona. In altre parole, per ottenere il risarcimento non è sufficiente dimostrare di aver patito un generico disagio: occorre provare che quel ritardo ha inciso su interessi di rango costituzionale, causando una sofferenza seria e apprezzabile, oltre la soglia del normale disagio. “Bis dat qui cito dat” – recita un antico adagio latino: chi dà presto, dona due volte. Purtroppo, l’opposto non è automaticamente vero in diritto: chi dà tardi non sempre paga due volte. La Cassazione, infatti, esclude categorie generiche di “danno da ritardo” e richiede una rigorosa verifica caso per caso. Emblematica è la pronuncia Cass. civ., Sez. Lav., n. 2217/2016, in cui la Suprema Corte ha negato il risarcimento a una lavoratrice per il ritardo dell’INPS nel pagarle un’indennità di maternità, ritenendo che tale ritardo non avesse compromesso bisogni primari (come alimentazione, salute, casa, istruzione) ma avesse causato solo disagi temporanei. In quella decisione i giudici affermano che una lesione meritevole di ristoro deve configurare la violazione di un diritto inviolabile della persona, con un’offesa grave e intollerabile alla dignità umana. Allo stesso modo, Cass. civ., Sez. VI, ord. n. 32080/2019 ha escluso che il mero ritardo dell’INPS nell’eseguire una sentenza di riliquidazione pensionistica integri di per sé un danno risarcibile, soprattutto se il beneficiario nel frattempo continuava a percepire altri redditi pensionistici. In sintesi, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere non risarcibili i disagi ordinari derivanti dall’attesa di una prestazione assistenziale, mentre ammette la possibilità di risarcimento solo in presenza di conseguenze straordinarie e gravissime causate dal ritardo (ad esempio, l’impossibilità di far fronte a bisogni vitali, documentata in concreto). Chi intendesse agire contro l’INPS per ottenere un risarcimento dovrà dunque allegare e provare in giudizio il pregiudizio specifico subito a causa dell’attesa anomala: ad esempio, dimostrare di aver dovuto contrarre debiti onerosi per sopravvivere, di aver perso opportunità cruciali oppure di aver subito un rilevante aggravamento della propria condizione di salute per mancanza di assistenza. Senza questa prova rigorosa, il rischio è che il giudice rigetti la domanda risarcitoria, considerandola un tentativo di lucro cessante non contemplato dall’ordinamento.
Va osservato che in altri ambiti del diritto amministrativo il danno da ritardo è stato riconosciuto. Ad esempio, in tema di diritti delle persone con disabilità, il T.A.R. Calabria (Reggio Calabria) con sentenza n. 748/2023 ha condannato un Comune a risarcire i genitori di una minore disabile per il ritardo nel predisporre il progetto individuale previsto dall’art. 14 della legge 328/2000. In quel caso il giudice amministrativo ha ravvisato una lesione ingiusta, perché l’amministrazione aveva tardato nel fornire un servizio essenziale a cui la bambina aveva diritto (l’“bene della vita” richiesto), e ha liquidato un danno non patrimoniale per le ripercussioni negative subite dalla minore e dalla sua famiglia. Questa apertura, tuttavia, si basa sulla condizione che sia certo il diritto sostanziale del cittadino al beneficio poi ottenuto in ritardo. Nel nostro contesto, quello previdenziale-assistenziale, la giurisprudenza ordinaria è più restrittiva: il risarcimento del danno non patrimoniale da ritardo nell’accertamento dell’invalidità civile rimane eccezionale e subordinato a circostanze davvero eccezionali. Non va dimenticato, infatti, che al momento del riconoscimento tardivo l’INPS corrisponde gli arretrati dovuti, attenuando ex post gran parte del danno economico. In aggiunta, l’art. 2-bis della legge 241/1990 prevede un indennizzo forfettario (di importo limitato) per il ritardo della Pubblica Amministrazione, ma tale indennizzo – introdotto nel 2015 – non esclude la possibilità di chiedere un ulteriore risarcimento se il cittadino prova un danno più ampio. Nella pratica, tuttavia, ottenere un risarcimento significativo per il ritardo nell’accertamento dell’invalidità si è rivelato difficile, proprio alla luce dei rigorosi paletti giurisprudenziali sopra illustrati.
Un aspetto tecnico da tenere in considerazione è quale giudice sia competente a conoscere un’eventuale domanda di risarcimento per ritardato riconoscimento di prestazioni di invalidità. In generale, le controversie sulle provvidenze assistenziali (come pensioni e assegni di invalidità civile) spettano al Giudice ordinario – sezione lavoro del Tribunale, essendo materia di assistenza obbligatoria gestita dall’INPS. Sarà quindi davanti al Tribunale (lavoro) che il cittadino potrà sia impugnare un verbale medico negativo o insufficiente, sia – eventualmente – chiedere il ristoro di danni ulteriori dovuti a ritardi o inadempienze dell’ente previdenziale. Vi sono però casi particolari: se la prestazione riguarda un dipendente pubblico (ad esempio una pensione di inabilità per un lavoratore statale) la giurisdizione sulle conseguenze patrimoniali del ritardo spetta alla Corte dei Conti. Lo hanno chiarito le Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza n. 5236/2025, sancendo che la domanda di risarcimento del danno da ritardo nel pagamento di ratei pensionistici di dipendenti pubblici rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice contabile, in quanto accessoria al rapporto pensionistico pubblico. Al di fuori di questo ambito (pubblici dipendenti), invece, rimane fermo che competente è il giudice ordinario. Dal punto di vista procedurale, il cittadino dovrà agire con un atto di citazione o ricorso nei confronti dell’INPS. Spesso l’eventuale richiesta di risarcimento per ritardo viene formulata nell’ambito dello stesso ricorso con cui si impugna il verbale sanitario o si rivendica il diritto alla prestazione negata: il giudice del lavoro, in tal caso, deciderà sia sul diritto alla prestazione (ad esempio riconoscendo l’invalidità e condannando l’INPS a pagare gli arretrati), sia sulla domanda di risarcimento per il ritardo, valutando se vi siano gli estremi per accordarlo. In alternativa, nulla vieta di introdurre una causa separata esclusivamente per i danni da ritardo, ma questa via ha senso solo se il diritto principale è già stato riconosciuto (ad esempio con un decreto o sentenza favorevole) e si ritiene di avere solide prove di un danno ulteriore. È sempre consigliabile farsi assistere da un legale esperto in diritto previdenziale, per valutare la strategia più opportuna caso per caso. Spesso, la mera prospettazione di una richiesta di danni può indurre l’ente a velocizzare le procedure o a trovare soluzioni transattive, soprattutto quando il ritardo è davvero eclatante.
In conclusione, i ritardi nelle pratiche di invalidità civile rappresentano purtroppo un fenomeno diffuso, ma l’ordinamento predispone alcuni strumenti per mitigarne gli effetti. Da un lato, esiste una tutela automatica del credito del cittadino: grazie a interessi e rivalutazione, l’INPS deve indennizzare il beneficiario delle conseguenze finanziarie dell’attesa. Dall’altro lato, ottenere un risarcimento aggiuntivo per i disagi morali o esistenziali è possibile solo in situazioni estreme, quando il ritardo si traduce in un vero vulnus a diritti fondamentali. La giurisprudenza più recente conferma un approccio prudente: si risarcisce il ritardo solo se la “giustizia negata” dell’attesa ha prodotto un’ingiustizia sostanziale. È importante sottolineare che il modo migliore per tutelarsi resta quello di agire tempestivamente: ad esempio, sollecitando l’INPS trascorsi inutilmente i termini (anche mediante diffide formali) e, in caso di inerzia protratta, ricorrendo al giudice per ottenere quanto dovuto. Una buona notizia, guardando al futuro, è che il legislatore ha riconosciuto la necessità di snellire l’iter di accertamento. Con il Decreto Legislativo 3 maggio 2024 n. 62 è stata avviata una riforma che prevede l’istituzione di un “certificatore unico” nazionale (l’INPS) per tutte le procedure di accertamento dell’invalidità, eliminando le duplicazioni tra commissioni ASL e INPS. Dal settembre 2025 questa novità è in fase di sperimentazione in alcune province pilota, introducendo criteri valutativi uniformi e persino l’idea di un “progetto di vita” personalizzato per il disabile. Se tale riforma manterrà le promesse, si prospetta un significativo alleggerimento dei tempi burocratici, a beneficio di chi richiede il riconoscimento dell’invalidità. In ogni caso, resta fondamentale conoscere i propri diritti: la consapevolezza delle tutele esistenti (dagli arretrati con interessi alla possibilità, seppur circoscritta, di agire per danni) permette al cittadino di affrontare con più forza le lungaggini amministrative, evitando di subire passivamente le attese. Come diceva qualcuno, “la speranza non è un metodo”: per far valere i propri diritti occorrono azioni concrete e, quando necessario, il supporto di professionisti qualificati.
Redazione - Staff Studio Legale MP