Cookie Consent by Free Privacy Policy Generator
Studio Legale MP - Verona logo
Danno da mancato consenso informato: i nuovi orientamenti - Studio Legale MP - Verona

Le ultime pronunce delineano con chiarezza i confini del consenso informato in ambito sanitario: quando la carenza di informazioni al paziente può portare a un risarcimento e quali sono gli obblighi legali del medico

 

Intervento senza informazione: quando la scelta è negata
“Il buon medico cura la malattia; il grande medico cura il paziente che ha la malattia.” Questa celebre frase di Sir William Osler ricorda che al centro di ogni cura c’è la persona, con il suo diritto di essere informata e di scegliere consapevolmente. Immaginiamo un paziente che si sottopone a un intervento chirurgico senza essere stato adeguatamente informato dei rischi o delle alternative: se qualcosa va storto, oltre al danno fisico c’è anche la frustrazione di non aver potuto decidere con piena conoscenza di causa. Proprio per evitare che il paziente subisca decisioni altrui sulla propria salute, l’ordinamento giuridico italiano riconosce il principio del consenso informato. Nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà, salvo che per disposizione di legge (art. 32 Cost.): questo principio costituzionale si traduce nell’obbligo per medici e strutture sanitarie di informare in modo completo e chiaro il paziente su diagnosi, terapia e rischi, prima di ottenere il suo consenso a qualsiasi trattamento. Il diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica è oggi sancito anche dalla legge n. 219/2017, che ha consacrato a livello normativo prassi già affermate dalla giurisprudenza. Eppure, non tutti i casi di mancata informazione sono uguali: fin dove deve spingersi il medico nel dettagliare rischi e alternative? E quando la carenza di informazioni può comportare una responsabilità risarcitoria per il sanitario o la struttura? Nel 2025 la Corte di Cassazione è tornata più volte su questi temi, tracciando confini più nitidi sia sugli obblighi informativi del medico sia sul risarcimento del danno da mancato consenso informato. Vediamo quali insegnamenti emergono dalle sentenze più recenti.

L’obbligo di informare: completezza e limiti
Il medico ha il dovere legale (e deontologico) di informare il paziente in maniera esauriente, spiegando la natura della cura proposta, le possibili alternative e i rischi prevedibili. Ma ciò non significa dover elencare ogni minima eventualità catastrofica, soprattutto se estremamente rara o troppo tecnica da comprendere. Su questo punto è intervenuta la Cassazione civile (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 10189/2025), ribadendo che l’obbligo di informazione deve sì essere completo e specifico, ma non si estende fino al dovere di prospettare ogni possibile complicanza remota o altamente improbabile. In altre parole, il medico non è tenuto a terrorizzare il paziente con scenari eccezionalmente rari né a sommergerlo di dettagli iper-tecnici che rischierebbero solo di confondere. L’informazione deve essere adeguata e comprensibile: va calibrata sulle effettive esigenze decisionali del paziente medio, evitandogli sia lacune importanti sia un eccesso di particolari inutilmente allarmanti. Ad esempio, nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte, una paziente lamentava che nel modulo di consenso non fossero state descritte in dettaglio tutte le possibili varianti di embolia (gassosa, adiposa, etc.) conseguenti all’intervento, ma solo indicato genericamente il rischio di “embolie” come possibile complicanza. Ebbene, la Cassazione ha giudicato non necessaria una descrizione così analitica: approfondire distinzioni sottili tra tipi di embolia – di difficile comprensione per un profano – non avrebbe influenzato in modo significativo la decisione della paziente di operarsi, trattandosi di eventualità rare e tecnicismi di limitata utilità pratica. Ciò che conta è che il paziente sia messo in grado di formarsi un convincimento libero e informato, focalizzando i rischi più concreti e rilevanti. Dunque, l’obbligo informativo ha un limite di ragionevolezza: non vanno taciuti rischi seri sia pure infrequenti, ma nemmeno è richiesta una minuziosa catalogazione di esiti estremamente improbabili o dettagli iperspecialistici che non aggiungono sostanza alla decisione da prendere. Del resto, la logica del consenso informato riflette l’antico brocardo “volenti non fit iniuria”nessun torto è fatto a chi acconsente –: il paziente che accetta consapevolmente un certo rischio non potrà poi incolpare il medico per quell’esito avverso, a patto però che sia stato messo in condizione di comprendere e valutare quel rischio. Se invece alcune informazioni essenziali vengono omesse, il consenso prestato potrebbe non essere realmente libero e informato, aprendo la strada a possibili contestazioni e richieste di risarcimento.

Danno da mancata informazione: quando scatta il risarcimento
Non tutte le omissioni informative causano un danno risarcibile. Occorre distinguere cosa succede a valle della mancata informazione: il paziente avrebbe rifiutato la cura se avesse saputo ciò che gli è stato taciuto? E il fatto di non essere stato informato gli ha provocato un pregiudizio concreto, diverso o ulteriore rispetto all’eventuale danno alla salute? La Cassazione (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 15079/2025) ha affrontato proprio questi nodi, in un caso in cui una paziente lamentava di aver subito una lesione del proprio diritto all’autodeterminazione: sosteneva che, se correttamente informata sulle alternative e sui rischi di un intervento all’occhio, non si sarebbe sottoposta a quella specifica operazione. La Corte d’Appello le aveva dato torto, rilevando da un lato che l’informazione fornita era effettivamente carente, ma dall’altro che non vi era prova che la paziente, se ben informata, avrebbe davvero negato il consenso. Anzi, i giudici di merito avevano ipotizzato che, anche con informazioni complete, la signora avrebbe comunque acconsentito all’intervento (il cosiddetto “consenso presunto”). La Cassazione, nel decidere il ricorso, ha colto l’occasione per chiarire alcuni principi. Anzitutto, ha ricordato che in tema di consenso informato vige un orientamento consolidato secondo cui si presume che il paziente avrebbe detto di NO a qualunque trattamento per il quale non abbia espresso un consenso esplicito e informato. In altre parole, fuori dalle procedure autorizzate dal consenso effettivamente prestato, la regola generale è presumere il dissenso del paziente. Questa linea, favorevole alla tutela dell’autodeterminazione (in dubio pro patiente, potremmo dire), era stata recentemente ribadita dalla stessa Cassazione. Tuttavia, nel caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto che non fosse necessario esprimersi sulla correttezza del “consenso presunto” ammesso in Appello, perché la decisione poteva basarsi su un altro elemento assorbente: la paziente non aveva fornito prova sufficiente che, se adeguatamente informata, avrebbe davvero rifiutato quell’operazione. Il nesso causale tra deficit informativo e danno lamentato va dimostrato: spetta al paziente provare che l’omessa informazione gli ha fatto subire un pregiudizio, ad esempio inducendolo a sottoporsi a un trattamento che altrimenti avrebbe rifiutato. In assenza di questa prova, non può esserci risarcimento. La Cassazione ha quindi confermato il rigetto della domanda risarcitoria proprio per mancanza di dimostrazione sul punto decisivo: la signora asseriva che non si sarebbe operata se pienamente informata, ma non è riuscita a convincere i giudici di ciò.

Il verdetto della Cassazione si allinea a principi già affermati in passato, in particolare dalle famose sentenze di San Martino 2019 sulla responsabilità medica. In quell’occasione le Sezioni Unite tracciarono un vero e proprio decalogo in materia di consenso informato, chiarendo, tra l’altro, che il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione (cioè il danno morale derivante dall’essere stato tenuto all’oscuro di informazioni dovute) è risarcibile solo se consiste in un pregiudizio autonomo rispetto al danno alla salute. Ciò significa che il paziente può ottenere un indennizzo per la violazione del suo diritto a essere informato anche quando l’intervento ha avuto successo o era inevitabile, ma solo se da quella violazione gli è derivata ad esempio una sofferenza interiore, uno shock, una angoscia che altrimenti sarebbero stati evitati. Se invece la mancanza di informazioni non ha influito sul suo percorso di cura né gli ha causato un patema aggiuntivo – perché magari avrebbe fatto comunque la stessa scelta – allora non c’è spazio per un risarcimento separato. Nel nostro caso, la paziente lamentava il turbamento per il peggioramento della vista occorso dopo l’intervento, evento peraltro indipendente dall’operazione stessa: la Cassazione ha escluso il risarcimento proprio perché quel peggioramento non era riconducibile a una carenza informativa (era dovuto a fattori estranei, non prevedibili né evitabili con la scelta di un’alternativa). Non si trattava, dunque, di un danno causato dall’intervento non voluto, né di un trauma psicologico derivante dall’aver subito un trattamento indesiderato: la paziente aveva acconsentito all’operazione, sia pure senza informazioni complete, e l’esito sfavorevole rientrava tra i rischi non imputabili a colpa medica. In sintesi, non ogni omissione informativa “vale” un risarcimento: per ottenerlo occorre dimostrare che l’informazione negata avrebbe potuto cambiare la decisione del paziente o che la sua mancanza gli ha provocato un danno non patrimoniale specifico (ad esempio uno stress da sorpresa traumatica di fronte a esiti che, se fossero stati preannunciati, il paziente avrebbe affrontato con diversa consapevolezza). La giurisprudenza più recente tende quindi a evitare automatismi risarcitori, valutando caso per caso l’effettivo impatto del deficit di informazione sui diritti del paziente.

Modulo di consenso informato: forma o sostanza?
In molti casi giudiziari sulla responsabilità medica, grande importanza viene attribuita al “modulo” del consenso informato, cioè al documento cartaceo che il paziente firma prima di un intervento o trattamento. Cosa accade se questo modulo non è stato firmato dal medico, oppure risulta generico? È possibile sostenere che il consenso non sia valido solo per un vizio di forma? Su questo fronte la Cassazione ha assunto una posizione chiara (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 21845/2025), mettendo in guardia da un approccio eccessivamente formalistico. La Corte ha ricordato che, in base alla legge n. 219/2017, il modulo di consenso informato ha solo valore di documentazione del consenso prestato, ma non esaurisce di per sé la prova della reale consapevolezza e volontarietà di quel consenso. In pratica, la firma sul foglio non garantisce automaticamente che il paziente sia stato informato a dovere, così come la mancanza di una firma del medico non dimostra da sola che l’informazione sia mancata. Ciò che conta, ancora una volta, è la sostanza: il processo informativo effettivamente svolto. Se ad esempio il modulo fosse redatto in modo vago o incomprensibile, oppure fosse stato sottoposto al paziente in un momento in cui questi non era lucido (si pensi a un paziente sedato prima di firmare), allora la semplice esistenza del modulo firmato avrebbe scarso valore a dimostrare un consenso realmente informato. Allo stesso modo, la mancata controfirma del medico sul modulo non invalida automaticamente il consenso, se comunque il paziente ha ricevuto spiegazioni adeguate e la sua firma testimonia la volontà informata. La forma è strumentale alla sostanza: la scheda di consenso serve a cristallizzare per ispettiscritto il dialogo informativo avvenuto, ma non può sostituire quel dialogo. La Cassazione sottolinea che il rapporto medico-paziente non va equiparato a un normale contratto commerciale: il consenso informato non è una mera pratica burocratica da evadere con una firma, bensì l’espressione di una “alleanza terapeutica” in cui medico e paziente concordano il percorso di cura. In quest’ottica, farsi ossessionare da un dettaglio formale (una firma mancante, una casella non barrata) rischia di distogliere l’attenzione dal vero punto: il paziente ha capito ciò a cui andava incontro ed era nelle condizioni di scegliere liberamente? Se sì, difficilmente si potrà parlare di lesione del diritto, anche in presenza di qualche irregolarità nel modulo. Viceversa, se il modulo di consenso informato era troppo generico o lacunoso, oppure la procedura di acquisizione del consenso è stata frettolosa e superficiale, il medico e la struttura potrebbero essere chiamati a rispondere. Ad esempio, una scheda prestampata che elenchi rischi in modo sommario, senza un colloquio di approfondimento col paziente, non tutela adeguatamente il diritto all’informazione: in caso di complicanze non spiegate, il paziente potrebbe eccepire di aver firmato senza reale consapevolezza. L’indirizzo attuale della giurisprudenza, dunque, privilegia la sostanza sulla forma: il modulo è solo un mezzo di prova, ma quel che rileva in giudizio è la qualità dell’informazione fornita. Questa prospettiva stimola le strutture sanitarie a curare maggiormente la comunicazione con il malato, perché non basta archiviarci un foglio firmato per mettersi al riparo da responsabilità se poi emerge che il paziente non era stato davvero informato in modo chiaro e completo.

Verso un consenso davvero informato
Dalle pronunce più recenti emerge un quadro equilibrato, che rafforza la tutela del paziente senza imporre oneri impossibili ai medici. La Cassazione ha tracciato una linea di confine ragionevole: informazioni chiare e pertinenti sì, terrorismo sanitario no. Il paziente ha diritto di conoscere la natura della sua malattia, le cure proposte, i benefici sperati e i rischi significativi – anche quelli rari ma con possibili gravi conseguenze – perché solo così può decidere in modo realmente libero. Al tempo stesso, al medico non si chiede di prevedere l’imprevedibile né di trasformare il consenso in una lezione enciclopedica: l’obbligo è di mettere il paziente in condizione di capire ciò che è rilevante per lui. Sul versante del risarcimento, le sentenze del 2025 confermano che la violazione del diritto all’informazione può costare cara ai sanitari, ma solo se tale violazione ha inciso sui diritti del paziente in modo tangibile. In altri termini, i giudici tendono a risarcire non il fumus (la mera astratta lesione di un diritto), bensì il damnum concreto: se il paziente, privato di un’informazione dovuta, ha subito un intervento che avrebbe evitato o ha patito un trauma psicologico evitabile, allora merita un indennizzo per quel torto. Se invece la mancanza di informazioni non ha alterato in concreto il suo percorso di cura né gli ha provocato sofferenze aggiuntive, la violazione resta una censura deontologica ma senza effetti civili risarcitori. Questo approccio induce sia medici che pazienti a un maggiore senso di responsabilità: i primi sono spronati a comunicare in modo puntuale e comprensibile (per evitare contenziosi futuri), i secondi sono incentivati a partecipare attivamente al dialogo terapeutico e a porre domande, sapendo che la legge è dalla loro parte per proteggere le decisioni consapevoli. In definitiva, il consenso informato si consolida sempre più come pietra angolare del rapporto medico-paziente, uno strumento di alleanza e non di conflitto. Come recita un noto adagio latino del diritto, “ignorantia legis non excusat” – e potremmo parafrasarlo in ambito sanitario: l’ignoranza (del paziente) non protegge nessuno. Medico e struttura che “tengono all’oscuro” un malato rischiano non solo di tradire l’etica professionale, ma anche di incorrere in sanzioni e obblighi risarcitori. La strada tracciata dalla Cassazione è chiara: trasparenza, dialogo e rispetto della volontà informata del paziente sono i cardini di una buona pratica medica e la migliore prevenzione di controversie legali.

Hai bisogno di assistenza o di un preventivo?

  • 13 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


Redazione - Staff Studio Legale MP -

Redazione - Staff Studio Legale MP