
Le cooperative sociali (disciplinate dalla L. 381/1991) sono entità del Terzo Settore nate per gestire servizi assistenziali, educativi e socio-sanitari. Nell’ambito dell’assistenza domiciliare, esse affiancano o sostituiscono gli enti pubblici nel fornire cure a persone con disabilità, anziani non autosufficienti e soggetti fragili direttamente nelle loro case. La pianificazione dei servizi sociali (secondo la L. 328/2000) incentiva infatti il coinvolgimento di cooperative qualificate per garantire supporto capillare sul territorio. Affidare a una cooperativa esterna l’assistenza a domicilio permette alle famiglie di ricevere aiuto professionale per i propri cari, ma apre anche la questione degli obblighi e delle responsabilità legali che gravano su tali enti. Chi assiste quotidianamente una persona in condizioni di fragilità assume un impegno di grande rilievo etico e giuridico: «Homo, res sacra homini» – l’essere umano è cosa sacra per l’uomo – ammoniva Seneca, ricordando il dovere di massimo rispetto verso ogni vita umana. Nel contesto delle cure domiciliari, questo principio si traduce nell’aspettativa che la cooperativa sociale operi con diligenza, professionalità e nel pieno interesse dell’assistito, evitando qualunque comportamento negligente o imprudente che possa mettere a rischio la salute e la dignità della persona fragile affidata alle sue cure.
Quando una cooperativa sociale accetta l’incarico di gestire l’assistenza domiciliare di un individuo, instaura con l’ente pubblico (ASL o Comune) un rapporto contrattuale di appalto di servizi e contemporaneamente assume verso l’assistito un preciso dovere di diligenza. Dal punto di vista civilistico, pur non esistendo un contratto diretto con il paziente, quest’ultimo è il beneficiario finale delle prestazioni: la cooperativa deve quindi operare “a regola d’arte” e con la prudenza e perizia richieste dalla natura delicata del servizio. Ogni inadempimento può generare una responsabilità contrattuale indiretta (verso l’ente appaltante) e una responsabilità extracontrattuale (verso l’assistito) per eventuali danni causati. In concreto, gli obblighi delle cooperative comprendono: selezionare personale qualificato e affidabile, formarlo adeguatamente, fornire mezzi e attrezzature idonee (es. sollevatori, ausili per mobilitare pazienti non deambulanti), organizzare il servizio in modo continuo e rispondente ai bisogni individuali, sorvegliare sull’operato dei propri operatori domiciliari e intervenire tempestivamente in caso di criticità. Nessuna negligenza o superficialità è ammessa: chi eroga cure a domicilio deve applicare standard elevati, analoghi a quelli richiesti a strutture sanitarie o socio-assistenziali. La legge e i principi elaborati dai giudici convergono su questo punto: affidare un soggetto debole a professionisti esterni non significa “abbassare l’asticella” della qualità, anzi implica responsabilità ancora maggiori, dovendo operare nell’ambiente domestico senza la supervisione costante di un presidio sanitario. Come ricorda Antoine de Saint-Exupéry ne Il Piccolo Principe: «Diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato». In altre parole, chi si prende cura di una persona fragile (sia pure per ragioni professionali) ne assume una responsabilità duratura e non può sottrarsi ai doveri che questo comporta.
Se durante il servizio domiciliare si verifica un danno a carico dell’assistito – ad esempio un infortunio, un aggravamento evitabile della malattia, o una lesione causata da manovre errate – la cooperativa sociale incaricata può essere chiamata a risponderne civilmente. Il nostro ordinamento prevede che la cooperativa debba risarcire i pregiudizi subìti dal paziente (e, in caso di decesso o lesioni gravi, anche dai familiari aventi diritto) qualora il fatto sia conseguenza di condotte colpose del personale o di carenze organizzative. Si può agire in giudizio sia invocando la responsabilità aquiliana per fatto illecito (art. 2043 c.c.), sia facendo valere la responsabilità indiretta del datore di lavoro per gli atti dei dipendenti (art. 2049 c.c.). In molte situazioni pratiche, l’assistito danneggiato o i suoi parenti promuovono una causa civile nei confronti della cooperativa (spesso chiamando in causa anche l’ente pubblico appaltante e la compagnia assicurativa dell’ente/cooperativa), per ottenere un giusto risarcimento. Le più recenti sentenze confermano un orientamento rigoroso: le cooperative devono adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute dei loro assistiti, tenendo conto delle specifiche condizioni di ciascuno, altrimenti saranno ritenute responsabili dei danni. Emblematico è il caso affrontato dalla Cassazione civile, Sez. III, sent. n. 7922/2023, relativo alla caduta di una donna con disabilità grave mentre scendeva dal pulmino che la trasportava al centro di terapia. In quel frangente, il Tribunale di primo grado aveva condannato la cooperativa affidataria del servizio di trasporto per omessa adozione delle cautele necessarie a prevenire la caduta, considerando la condizione di invalidità al 100% dell’assistita (incapace di muoversi autonomamente). La Corte d’Appello, in un primo momento, aveva escluso la responsabilità della cooperativa e dell’ASL committente, ma la Cassazione ha successivamente annullato quella decisione, richiamando principi fondamentali: anche in assenza di un rapporto contrattuale diretto con il paziente, la cooperativa ha il dovere di proteggerlo da prevedibili situazioni di pericolo durante il servizio. Nel caso di specie, far scendere una persona totalmente invalida da un mezzo richiede un grado di diligenza particolarmente elevato; se l’operatore non presta l’assistenza necessaria e l’utente cade e si ferisce, la cooperativa risponde in base all’art. 2043 c.c. per non aver impedito un evento dannoso che era ragionevolmente evitabile con le giuste precauzioni. Questa pronuncia rafforza il concetto che le cooperative sociali devono operare con “diligenza qualificata”: più è vulnerabile la persona assistita, maggiori sono gli obblighi di attenzione. In altre parole, nessuna scusante può giustificare errori grossolani o omissioni nell’accudimento: se un disabile subisce un danno perché non è stato sorretto, sorvegliato o trattato con la necessaria prudenza, la cooperativa (in solido con il proprio assicuratore) dovrà farsi carico di risarcire tutte le conseguenze negative patite dall’assistito e dai suoi cari. I risarcimenti possono coprire sia i danni patrimoniali (spese mediche aggiuntive, costi di degenze, ecc.) sia i danni non patrimoniali (dolore fisico, sofferenza morale, perdita di chance di una vita migliore per il paziente, danno esistenziale per i familiari costretti ad assistere a un peggioramento evitabile). I giudici valutano con rigore tali vicende: quando l’inclusione sociale e la tutela della persona fragile sono compromesse da chi doveva prendersene cura, la risposta dell’ordinamento è netta nell’affermare il diritto al risarcimento, ribadendo che il diritto alla dignità e all’integrità fisica del disabile prevale su qualsiasi giustificazione organizzativa o economica avanzata dall’ente gestore.
Le conseguenze giuridiche per una cooperativa sociale e i suoi operatori non si esauriscono nell’obbligo di risarcimento civile. In situazioni gravi, infatti, scattano anche responsabilità in sede penale. Quando una condotta gravemente imprudente, negligente o imperita del personale di assistenza provoca lesioni personali o, peggio, la morte dell’assistito, possono configurarsi reati come le lesioni colpose (art. 590 c.p.) o l’omicidio colposo (art. 589 c.p.). In tali casi, l’operatore direttamente coinvolto e i dirigenti responsabili dell’organizzazione del servizio possono essere chiamati a rispondere penalmente. Un importante precedente è dato dalla Cassazione penale, Sez. IV, sent. n. 6274/2025, in cui la Suprema Corte ha confermato la condanna per omicidio colposo a carico di un’operatrice socio-sanitaria dipendente di una cooperativa. Il fatto drammatico riguardava un’anziana paziente non autosufficiente, deceduta in conseguenza di una rovinosa caduta durante le manovre di igiene personale a domicilio: l’operatrice, dovendo spostare la signora dal letto, aveva tentato di sollevarla manualmente senza utilizzare un apposito sollevatore meccanico, perché tale attrezzatura non era stata fornita dal datore di lavoro. La paziente era caduta a terra riportando la frattura del femore e di altre ossa, un trauma dal quale non si è più ripresa, portandola al decesso. I giudici hanno ritenuto l’operatrice colpevole di negligenza e imprudenza: pur in presenza di carenze organizzative (mancata dotazione del sollevatore da parte della cooperativa), l’addetta avrebbe dovuto astenersi dal compiere da sola una manovra così rischiosa, attendendo magari l’ausilio di un collega o pretendendo gli strumenti idonei. Invece, procedendo ugualmente al sollevamento “a braccio” dell’assistita, l’operatrice ha violato le più basilari regole di prudenza, finendo per causare involontariamente la morte della paziente: un evento che la Corte ha ritenuto prevedibile ed evitabile. Questa sentenza lancia un chiaro monito: “primum non nocere” – anzitutto, non nuocere. Chi opera nell’assistenza domiciliare ha il dovere di non esporre mai l’assistito a pericoli ingiustificati; se lo fa, ne risponde anche penalmente. Non solo il singolo operatore, ma anche i vertici della cooperativa possono essere coinvolti: ad esempio, se viene accertato che la mancanza di ausili o di formazione è dovuta a scelte organizzative, anche i dirigenti potrebbero essere incriminati per cooperazione nel reato colposo o per omessa formazione/sorveglianza. Inoltre, gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro trovano applicazione estesa in questi contesti: la giurisprudenza ha affermato che le tutele previste per i lavoratori dalle norme antinfortunistiche (D.Lgs. 81/2008) vanno applicate per quanto compatibile anche agli utenti dei servizi socio-sanitari, quando essi sono esposti a rischi ambientali analoghi. Così, in una vicenda riguardante un istituto per anziani gestito in appalto, la Cassazione ha esteso i doveri di prevenzione all’appaltatore dei servizi assistenziali: nella Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 26552/2024, relativa alla caduta mortale di un ospite affetto da Parkinson e demenza precipitato da una scala di emergenza lasciata accessibile, la Corte ha confermato le responsabilità penali a carico del direttore della struttura e dei referenti della cooperativa appaltatrice. È emerso che non erano state adottate misure semplici ma fondamentali (come un allarme o un cancello sicuro) per impedire ai pazienti cognitivamente confusi di uscire indisturbati verso zone pericolose. La conseguenza di tale omissione di sorveglianza è stata tragica e i responsabili sono stati condannati: non aver predisposto un ambiente sicuro per una persona incapace di badare a sé stessa costituisce colpa grave, perché equivale a lasciare una persona vulnerabile in balìa dei pericoli. La dimensione penale di queste vicende evidenzia dunque un punto cruciale: nell’assistenza ai più deboli, non basta l’adempimento formale, ma serve un impegno sostanziale a garantire sicurezza e cura. Ogni cooperativa deve dotarsi di protocolli interni rigorosi, rispettare le normative di settore e vigilare attivamente, altrimenti i suoi responsabili potranno dover rispondere davanti al giudice penale oltre che civile. Del resto, la sfera penale svolge una funzione di deterrenza e di tutela ultima: sanzionare le condotte più gravi serve a ribadire che la vita e la salute dei fragili non sono “secondarie” ma beni primari che l’ordinamento protegge senza compromessi.
Un aspetto complementare riguarda la possibile corresponsabilità dell’ente pubblico (Comune, ASL o altro) che affida il servizio alla cooperativa. Le famiglie spesso si chiedono se, in caso di danni, possano chiamare in causa anche l’ente committente, sostenendo magari che abbia scelto male la cooperativa o non abbia vigilato sul suo operato. Giuridicamente, questo tema si ricollega ai concetti di culpa in eligendo (colpa nella scelta del contraente) e culpa in vigilando (colpa nella sorveglianza). In linea generale, quando un ente pubblico affida tramite appalto esterno l’assistenza domiciliare, trasferisce alla cooperativa obblighi e responsabilità operative: la cooperativa agisce come soggetto autonomo e risponde direttamente dei propri errori. L’ente committente mantiene però un dovere di controllo sul corretto andamento del servizio, almeno sotto il profilo amministrativo e contrattuale. Affinché l’ASL o il Comune siano ritenuti civilmente responsabili in solido con la cooperativa, occorre provare che abbiano commesso una grave negligenza nella fase di scelta o di controllo: ad esempio, affidando il servizio a una cooperativa notoriamente inaffidabile o priva di requisiti, oppure omettendo completamente di monitorare la qualità delle prestazioni erogate. Nella pratica, una culpa in eligendo/vigilando dell’ente non è facile da dimostrare, specie se l’appalto è stato assegnato con regolare gara e se nel capitolato sono previste clausole di verifica del servizio. Il caso del pulmino citato in precedenza è illuminante: in primo grado l’ASL era stata convenuta in giudizio insieme alla cooperativa, ma Cass. civ. n. 7922/2023 ha escluso la responsabilità dell’azienda sanitaria, non ravvisando né una scelta inadeguata (la cooperativa era stata selezionata con procedura corretta) né un’ingerenza tale da ridurre la cooperativa a “mera esecutrice”. In sintesi, i giudici hanno ritenuto che la colpa fosse esclusivamente dell’ente gestore (cooperativa) e non anche dell’ente pubblico, in assenza di specifiche mancanze di quest’ultimo. Questo non significa che l’ente committente possa disinteressarsi: al contrario, deve predisporre tutti gli strumenti contrattuali per assicurare un servizio di qualità (indicatori di performance, report periodici, penali per inadempimenti, ecc.) e intervenire se emergono criticità. Tuttavia, in caso di incidente, la regola generale è che risponde chi ha in concreto causato il danno con la propria condotta colposa. Una cooperativa realmente autonoma nell’esecuzione dell’appalto ne sopporta anche i rischi: il Comune o la ASL potranno essere chiamati a rispondere solo in situazioni eccezionali di concorso di colpa gestionale. Per le famiglie, dunque, l’interlocutore principale da citare in giudizio resta la cooperativa (e la sua assicurazione), salvo valutare attentamente con un legale se esistano elementi per coinvolgere anche l’ente pubblico per difetti macroscopici di vigilanza.
Cosa può fare, in concreto, una famiglia o un assistito vittima di un’assistenza domiciliare inadeguata? Anzitutto, è fondamentale raccogliere prove dell’accaduto: referti medici che documentino le lesioni o i peggioramenti, testimonianze di eventuali badanti private o vicini di casa che abbiano osservato le mancanze, fotografie o video (se disponibili) delle condizioni pericolose, copie di reclami già fatti alla cooperativa o all’ente pubblico. Parallelamente, è consigliabile rivolgersi a un legale esperto in materia di responsabilità civile e diritti dei disabili, per valutare la fattibilità di un’azione risarcitoria. In molti casi si potrà tentare inizialmente una soluzione stragiudiziale: una diffida ben circostanziata inviata dallo studio legale alla cooperativa (e per conoscenza all’ente pubblico) potrebbe indurre l’assicurazione della cooperativa a proporre un indennizzo. Se ciò non avviene, si procederà con una causa civile in tribunale: sarà il giudice, eventualmente assistito da una consulenza tecnica medico-legale, a stabilire se vi sia stata colpa nell’operato degli assistenti domiciliari e a quantificare il risarcimento dovuto. Le sentenze recenti sono un importante precedente e alleato per le vittime: sapere che “le ultime pronunce tutelano gli assistiti fragili” dà forza alle rivendicazioni. Ad esempio, se un disabile non autosufficiente viene lasciato solo e cade in casa riportando una frattura, oggi possiamo citare casi analoghi in cui i giudici hanno affermato la responsabilità di chi doveva sorvegliarlo. Allo stesso modo, se un familiare muore a causa di omissioni nella sua cura (come nelle vicende di cronaca analizzate), i congiunti possono costituirsi parte civile nell’eventuale processo penale a carico degli operatori coinvolti, ottenendo in quella sede una provvisionale sul danno, oppure agire direttamente in sede civile. In ogni situazione, l’obiettivo del diritto è rimettere la persona danneggiata (o i suoi cari) nella situazione più vicina possibile a quella in cui si sarebbe trovata se tutto fosse andato per il meglio: attraverso il risarcimento monetario, certo, ma anche tramite provvedimenti riparatori (come imporre alla cooperativa di adottare misure correttive, cambiare personale, garantire in futuro standard più elevati). Va sottolineato che la tutela legale non ha solo funzione compensativa, ma anche preventiva: la consapevolezza di dover rispondere dei propri errori stimola gli enti a migliorare i servizi. Ogni vertenza vinta da un paziente fragile è un messaggio chiaro a tutte le cooperative sociali: la qualità dell’assistenza domiciliare non è materia su cui transigere. La giustizia conferma che le persone più deboli hanno gli stessi diritti degli altri cittadini, e anzi meritano una protezione speciale. Le famiglie non devono sentirsi in balìa degli eventi: se qualcosa va storto nell’assistenza domiciliare, esistono strumenti giuridici efficaci per reagire. “La civiltà di un popolo si misura da come tratta i più deboli”, recita un noto principio: proprio per questo, il nostro ordinamento offre alle vittime di negligenze un percorso per ottenere giustizia, che sia attraverso un accordo transattivo o una sentenza in tribunale. L’importante è non rassegnarsi e far valere i propri diritti.
Hai vissuto un caso di negligenza o carenze nell’assistenza domiciliare di un tuo caro? Vuoi capire come ottenere giustizia e un risarcimento per i danni subiti? Contatta subito lo Studio Legale MP
Redazione - Staff Studio Legale MP