
In ambito giuridico italiano, caregiver familiare indica la persona che assiste in modo continuativo e volontario un familiare convivente con disabilità grave. Si tratta spesso di genitori, figli, coniugi, fratelli o altri parenti che dedicano tempo ed energie per garantire cure, supporto nelle attività quotidiane e vicinanza affettiva al proprio caro in condizioni di non autosufficienza. Il legislatore italiano ha definito formalmente questa figura: ad esempio, già la legge di bilancio 2018 (L. 205/2017) all’art. 1 comma 255 ne fornisce una definizione giuridica, riconoscendo il caregiver familiare come colui che assiste e si prende cura di un convivente di fatto con disabilità grave. La centralità sociale di questo ruolo è indubbia: la Corte Costituzionale stessa ha più volte sottolineato l’importanza dei caregiver, evidenziando come il dovere di solidarietà familiare sia un pilastro nel nostro ordinamento (Corte cost., sent. n. 42/2024). In altri termini, prendersi cura dei più fragili in famiglia è espressione concreta dei principi di solidarietà e dignità umana sanciti dalla Costituzione italiana. Non nobis solum nati sumus: “non siamo nati solo per noi stessi” dicevano i Latini, a ricordare che il valore della vita in comunità risiede anche nel farsi carico degli altri. Proprio in virtù di questa missione, il nostro ordinamento predispone una serie di tutele giuridiche a favore dei caregiver familiari.
Una delle sfide maggiori per un caregiver è conciliare l’attività lavorativa con le esigenze di assistenza. La normativa italiana, in primis la Legge 104/1992, prevede strumenti specifici per agevolare i lavoratori che assistono familiari disabili. Il diritto più noto sono i permessi retribuiti mensili: tre giorni al mese di assenza dal lavoro, coperti dall’INPS, garantiti al lavoratore dipendente che abbia un parente con handicap grave (art. 3 comma 3 L.104) da assistere. Questi permessi sono un diritto intoccabile: la Cassazione ha chiarito che essi possono essere fruiti con flessibilità, purché finalizzati all’assistenza. Ad esempio, non serve che il caregiver stia fisicamente accanto al familiare per tutte le ore di permesso, né che rinunci a qualsiasi attività personale, a patto che l’assistenza sia effettivamente prestata secondo le necessità (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 23185/2025). In tale ordinanza del 2025, la Suprema Corte ha ribadito che l’eventuale svolgimento di incombenze personali durante il permesso 104 non costituisce abuso, se nel periodo considerato il disabile ha comunque ricevuto le cure dovute. In pratica, conta la finalità di cura, non un controllo minuto per minuto sull’uso del tempo. È stato così ulteriormente specificato il principio per cui l’assenza dal lavoro deve avere come scopo l’assistenza, ma senza imporre al caregiver un onere impossibile di presenza continuativa 24 ore su 24.
Oltre ai permessi mensili, esiste il congedo straordinario retribuito per assistere familiari con handicap grave (disciplinato dal D.Lgs. 151/2001, art. 42). Si tratta di un congedo di durata massima biennale, fruibile in maniera continuativa o frazionata nell’arco della vita lavorativa, durante il quale il lavoratore percepisce un’indennità a carico dell’INPS commisurata alla retribuzione. Questo strumento consente al caregiver di sospendere del tutto l’attività lavorativa per un periodo prolungato, al fine di dedicarsi a tempo pieno all’assistenza del congiunto disabile, garantendogli nel contempo la conservazione del posto di lavoro. Tuttavia, per accedere al congedo straordinario retribuito vi sono requisiti stringenti (ad esempio il grado di parentela e la convivenza, secondo un ordine di priorità fissato dalla legge) e non sempre la sua durata risulta sufficiente rispetto alle esigenze di cura di situazioni gravissime.
Novità importante: nel 2025 il legislatore è intervenuto per ampliare ulteriormente le tutele. Con la Legge 18 luglio 2025, n. 106 (in vigore dal 9 agosto 2025), sono state introdotte nuove misure a beneficio sia dei lavoratori fragili sia dei loro familiari caregiver. In primo luogo, la legge 106/2025 ha previsto 10 ore aggiuntive di permessi retribuiti l’anno per effettuare visite mediche, terapie o esami. Queste 10 ore si sommano ai 3 giorni mensili già garantiti dalla L.104 e spettano sia ai lavoratori affetti da patologie oncologiche, croniche o invalidanti, sia ai lavoratori che assistono un familiare con disabilità grave (riconosciuta con invalidità almeno 74%). È una novità che mira a evitare che visite specialistiche o cicli di terapia si traducano in perdita di ore di lavoro: ora vi è un monte ore dedicato, coperto da contributi figurativi, che potrà essere utilizzato senza incidere su ferie o permessi ordinari.
In secondo luogo, la legge 106/2025 introduce un congedo straordinario “bis”: fino a 24 mesi di aspettativa non retribuita, con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Questo congedo ulteriore (privo di retribuzione e di copertura contributiva automatica) può essere richiesto dal lavoratore solo dopo aver esaurito ferie, permessi e altri istituti contrattuali, ed è finalizzato presumibilmente a quei casi in cui il caregiver necessiti di prolungare l’assenza dal lavoro oltre quanto coperto dal congedo retribuito. Pur non essendo indennizzato, costituisce un importante riconoscimento: l’azienda deve consentire fino a due anni di aspettativa garantendo che, al rientro, il dipendente ritroverà il proprio posto. Durante questo periodo il lavoratore non può svolgere altra attività lavorativa, e la norma prevede anche che al rientro abbia un canale preferenziale per l’accesso al lavoro agile (smart working), in modo da favorire ulteriormente la conciliazione tra assistenza e occupazione. Certo, l’assenza di retribuzione limita la fruibilità di questo istituto solo a chi abbia risorse economiche alternative o una rete familiare di supporto; tuttavia, dal punto di vista dei diritti, segna un passo avanti: lo Stato riconosce formalmente che può essere necessario sospendere il lavoro fino a due anni per assistere un familiare in situazioni di particolare gravità, senza perdere l’occupazione.
Va inoltre ricordato che, per evitare di aggravare la posizione del caregiver lavoratore, la legge già tutela la sua stabilità lavorativa. Ad esempio, chi assiste un familiare disabile ha in molti casi diritto a scegliere, ove possibile, una sede di lavoro vicina al domicilio dell’assistito e a rifiutare trasferimenti arbitrari che lo allontanerebbero (tutela prevista dall’art. 33, co.5 L.104/1992 per i dipendenti pubblici e riconosciuta anche in aziende private con alcuni adattamenti). In più, esistono disposizioni che esentano il caregiver da obblighi lavorativi incompatibili con il suo ruolo: un classico esempio è il diritto a non essere inserito nei turni di lavoro notturni per la madre o il padre di persona con disabilità grave (previsto dal D.Lgs. 66/2003, art. 11, applicabile per analogia al caregiver di familiare non autosufficiente). Tutte queste misure convergono su un principio: lo Stato e il datore di lavoro devono, per quanto possibile, adattare l’organizzazione del lavoro alle esigenze di chi si fa carico di un disabile, e non viceversa.
Oltre alle leggi, un contributo fondamentale a tutela dei caregiver familiari proviene dalla giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria. Nel 2025 si sono registrate sentenze storiche, destinate a incidere profondamente sui doveri dei datori di lavoro verso i dipendenti caregiver.
In settembre 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in risposta a un caso italiano, affermando un principio che rivoluziona la prospettiva: il divieto di discriminazione per motivi di disabilità si estende anche al lavoratore che non sia egli stesso disabile ma assiste un familiare disabile. Si tratta della sentenza dell’11 settembre 2025 (causa C-38/24), che ha riconosciuto esplicitamente la cosiddetta discriminazione per associazione. In pratica, un’azienda non può adottare misure che, seppur non dirette contro il lavoratore per una sua disabilità personale, finiscano per penalizzarlo a causa della disabilità del familiare di cui si prende cura. Il caso riguardava una dipendente della metropolitana di Roma con figlio disabile, alla quale era stata negata una variazione di orario di lavoro: la CJUE ha stabilito che il rifiuto dell’azienda costituiva potenzialmente una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità (del figlio), perché impediva alla madre-caregiver di conciliare lavoro e assistenza. Sulla scorta di questa pronuncia europea, i giudici italiani dovranno garantire che ai caregiver non vengano negati indebitamente accomodamenti ragionevoli. Cosa significa? Vuol dire che il datore di lavoro, di fronte a una richiesta del dipendente che assiste un disabile (ad esempio cambio turno, orario flessibile, part-time o smart working), ha l’obbligo di prenderla in considerazione seriamente e di attuarla se non comporta un onere sproporzionato per l’organizzazione. Non basta più opporre esigenze generiche di servizio: serve una motivazione oggettiva e rigorosa per rifiutare. Questa estensione delle tutele antidiscriminatorie ai caregiver segna un’evoluzione epocale, fondata sui principi della Direttiva UE 2000/78 e coerente con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. In Italia finora non esisteva una norma esplicita sulla discriminazione per associazione, ma la sentenza della Corte UE ora fa giurisprudenza vincolante: i tribunali dovranno applicarla nei casi concreti.
Anche la Corte di Cassazione italiana ha contribuito di recente a delineare una linea di maggiore tutela. Con una sentenza del 2025, la Suprema Corte ha imposto standard rigorosi al datore di lavoro prima di poter licenziare un dipendente divenuto fisicamente inidoneo al lavoro. Che c’entra questo con i caregiver? C’entra perché afferma il principio generale dell’obbligo di accomodamento: lo stesso che invocano i caregiver per sé vale in generale per i lavoratori con disabilità o problemi di salute. Nella sentenza n. 24994/2025 (Cass. civ., Sez. Lav.), la Cassazione ha stabilito che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore è legittimo solo se l’azienda prova di aver esplorato tutte le possibili soluzioni alternative. In altri termini, prima di poter allontanare un dipendente che per motivi fisici non riesce più a svolgere le mansioni originarie, il datore deve dimostrare di aver tentato di ricollocarlo in altre mansioni compatibili, eventualmente adattando l’organizzazione interna, modificando orari, assegnando compiti diversi, anche in via temporanea o parziale. È necessario coinvolgere il medico competente aziendale, aggiornare la valutazione dei rischi (DVR) e documentare in modo dettagliato perché nessuna soluzione organizzativa è praticabile. Solo se ogni accomodamento ragionevole è risultato impossibile o troppo gravoso, il licenziamento è consentito. Questa pronuncia, pur riguardando direttamente un lavoratore disabile, trasmette un messaggio chiaro anche per i caregiver: l’ordinamento spinge verso una gestione inclusiva e flessibile del personale, invitando le imprese a farsi carico delle situazioni di fragilità con soluzioni creative anziché scaricarle sul singolo (ad esempio licenziando o costringendo alle dimissioni).
Sempre in tema di protezioni, un altro fronte giurisprudenziale riguarda il controllo sull’uso corretto dei permessi 104. Alcune pronunce passate avevano confermato la legittimità del licenziamento in caso di abuso grave (ad esempio, chi usa i giorni di permesso per fini totalmente estranei all’assistenza commette un illecito disciplinare). Ma la giurisprudenza più recente tende a bilanciare il rigore con il buon senso. Come accennato sopra, la Cassazione nel 2025 (ord. n. 23185/2025) ha ritenuto non sanzionabile il comportamento del lavoratore caregiver che, durante il giorno di permesso, abbia dedicato parte del tempo ad attività proprie, purché l’assistenza al familiare disabile sia stata comunque garantita e il datore di lavoro non provi un uso fraudolento del permesso. Questa linea evita interpretazioni eccessivamente punitive e riconosce la realtà della vita del caregiver: spesso, mentre assiste, la persona può svolgere anche altre commissioni (fare la spesa per entrambi, sbrigare pratiche, o semplicemente riposarsi un paio d’ore). Non ogni deviazione dall’assistenza è di per sé un abuso: l’importante è che non venga tradito lo scopo principale del beneficio. Insomma, il diritto vive di concretezza e umanità: ai caregiver dev’essere data fiducia, salvo prova contraria, e il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare eventuali abusi con rigore, non potendo applicare sanzioni disciplinari sulla base di semplici sospetti o concezioni troppo rigide.
Oltre alle tutele sul lavoro, un aspetto cruciale è il sostegno economico e sociale al caregiver familiare. Per lungo tempo, in Italia, chi assisteva a tempo pieno un congiunto disabile gravissimo era tutelato solo indirettamente, ad esempio attraverso l’indennità di accompagnamento percepita dal disabile (un assegno mensile che però spetta alla persona con disabilità in quanto non autosufficiente, pari a €527 circa, indipendentemente dal reddito, destinato a coprire spese di assistenza). Non esisteva un’indennità specifica per il caregiver familiare. Tuttavia, le cose stanno cambiando: il legislatore ha finalmente posto le basi per un riconoscimento economico anche a chi presta cure in ambito familiare.
La Legge di Bilancio 2025, in parallelo con la legge 106/2025 citata, ha istituito un Fondo dedicato ai caregiver familiari, con una dotazione progressivamente crescente fino a 250 milioni di euro annui a partire dal 2027. L’obiettivo dichiarato è attivare un “reddito di cura” per i caregiver che svolgono assistenza di particolare intensità. In base alle anticipazioni normative, è in arrivo un contributo economico trimestrale di €1.200 (pari a €400 mensili) destinato al caregiver “familiare convivente prevalente”, ossia colui che assiste in via principale e continuativa un familiare con disabilità gravissima per almeno 91 ore settimanali (praticamente un impegno full-time). Questo contributo sarà però legato a limiti reddituali: si ipotizza l’accesso solo per nuclei con ISEE sotto una certa soglia (ad esempio €15.000 annui) e se il caregiver ha un reddito lavorativo molto basso (indicativamente non oltre €3.000 annui, il che significa che di fatto sta dedicando quasi tutto il tempo all’assistenza). Sono previste anche fasce di tutela differenziate: chi presta un monte ore di cura inferiore non riceverà contributi in denaro, ma potrebbe beneficiare di altre misure (ad esempio agevolazioni nei servizi sociali, supporto psicologico, formazione). Si tratta di un sistema graduale che mira a riconoscere prima di tutto chi è più caricato dal compito di cura.
Queste novità sono frutto di un lungo lavoro preparatorio: un tavolo tecnico con associazioni e parti sociali che ha portato alla predisposizione di un apposito Disegno di Legge sul caregiver familiare. Il DDL, approvato dal Governo a fine 2025 e in corso di discussione parlamentare nel 2026, disegnerà la cornice normativa definitiva. Ogni persona con disabilità avrà il diritto di designare uno o più caregiver familiari di riferimento (anche più d’uno, purché conviventi, salvo il caso dei genitori non conviventi). Il sistema di aiuti sarà modulare: solo al caregiver prevalente convivente (quello che di fatto dedica la vita all’assistenza) andrà il contributo economico diretto, mentre per gli altri caregiver (ad esempio parenti che aiutano in misura minore) saranno previste altre forme di riconoscimento non economico (come formazione, tutela della salute, inclusione in reti di sollievo). Si vuole in questo modo evitare di disperdere le risorse, concentrandole su chi più ne ha bisogno, pur riconoscendo in astratto il valore di tutti i caregiver familiari. Il dibattito non è privo di critiche: alcune organizzazioni, ad esempio sindacati come la CGIL, temono che limitare l’assegno solo ai casi di maggior bisogno economico e di massimo impegno di cura significhi non riconoscere pienamente il ruolo universale del caregiver, che meriterebbe tutela a prescindere dalle condizioni di reddito. I proponenti della legge replicano che si tratta di un primo passo realistico: dati i costi elevati, si parte aiutando i nuclei più fragili dal punto di vista socio-economico (“chi ama e cura giorno e notte” – come ha dichiarato il Ministro delegato – “merita un concreto sostegno, e lo Stato finalmente glielo vuole dare”). Una volta creata la struttura di base (registro dei caregiver, piattaforma INPS per le domande, criteri unificati nazionali), nulla vieta che in futuro si possano ampliare platee e importi, magari introducendo anche forme di contribuzione previdenziale figurativa per gli anni dedicati all’assistenza (ulteriore tema molto sentito: molti caregiver sacrificano la propria carriera e rischiano di trovarsi senza adeguata pensione).
In alcune realtà territoriali, intanto, esistono già misure di supporto: molte Regioni da anni erogano il cosiddetto assegno di cura o bonus caregiver, contributi economici periodici per le famiglie con disabili gravi, finanziati con fondi regionali o statali. Questi interventi locali, però, erano a macchia di leopardo e spesso insufficienti. L’auspicio è che la riforma nazionale in corso armonizzi e potenzi tali aiuti, inserendoli in un quadro di diritti esigibili su tutto il territorio.
Il quadro che emerge è quello di un graduale ma significativo avanzamento nella tutela giuridica del caregiver familiare in Italia. Finalmente il diritto riconosce che chi cura un familiare disabile svolge una funzione sociale di altissimo valore, e cerca di alleviarne il carico. Dai nuovi permessi e congedi previsti per bilanciare vita lavorativa e assistenza, fino al principio (sancito in sede europea) che vieta ogni discriminazione ai loro danni, il messaggio è chiaro: nessuno deve essere penalizzato per la scelta di amore e responsabilità di prendersi cura di un proprio caro fragile. Anche il sostegno economico, a lungo invocato come segno concreto di vicinanza, sta diventando realtà, sebbene con prudenza iniziale e per i casi più impegnativi. La società italiana, anche attraverso pronunce emblematiche dei giudici, sta evolvendo verso una maggiore inclusione: non solo della persona disabile, ma anche di chi le sta accanto quotidianamente. “Tu diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato”, scrive Antoine de Saint-Exupéry ne Il piccolo principe: questa frase poetica descrive bene il legame indissolubile che si crea nell’atto di cura. Ebbene, il legislatore e i tribunali stanno dicendo che di quella responsabilità non deve farsi carico il solo individuo, ma l’intera collettività, attraverso leggi giuste, servizi di supporto e un cambiamento culturale nei luoghi di lavoro.
Per tutti i caregiver familiari, conoscere i propri diritti è fondamentale. Sapere di poter chiedere permessi, congedi, adattamenti dell’orario di lavoro, o un aiuto economico, significa non sentirsi più soli in una missione così gravosa. Accedere a queste tutele può fare la differenza tra sopportare oltre le proprie forze o riuscire a continuare a dare il meglio ai propri cari senza rinunciare completamente alla propria vita. Il quadro normativo è in movimento e può risultare complesso: per questo è utile affidarsi a professionisti del diritto che abbiano esperienza in materia di disabilità e inclusione.
Redazione - Staff Studio Legale MP