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Stress sul lavoro: risarcimento anche senza mobbing? - Studio Legale MP - Verona

Le più recenti sentenze ampliano (in parte) la tutela del lavoratore oltre il mobbing tradizionale, riconoscendo responsabilità del datore per ambienti di lavoro stressanti e nocivi

 

Mobbing e stress lavorativo: verso una tutela più ampia?

Il concetto di mobbing indica una serie sistematica di comportamenti ostili e vessatori sul luogo di lavoro, posti in essere con l’intento deliberato di emarginare o danneggiare il dipendente. È una forma di violenza psicologica reiterata, spesso difficile da dimostrare nel dettaglio perché composta da molteplici atti, ciascuno magari lecito se preso singolarmente. Come affermato provocatoriamente dal cantautore Morgan, «Il mobbing non è l’uccisione di una persona tramite il lavoro, è l’uccisione del lavoro in un uomo». Questa espressione rende bene l’idea: la vittima di mobbing subisce un lento logoramento della propria dignità e salute fino a “spegnersi” professionalmente.

Tuttavia, non tutte le situazioni di sofferenza sul lavoro rientrano nella definizione tecnica di mobbing. In passato la giurisprudenza è stata restrittiva: per configurare il mobbing si richiedono precisi elementi (pluralità continua di atti ostili e dolo persecutorio). Ad esempio, la Cassazione civile ha ribadito che un semplice clima teso o conflittuale non basta – occorre una condotta sistematicamente mirata a nuocere al lavoratore (Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 1778/2025 del 24 gennaio 2025). Di conseguenza, molte vittime di comportamenti stressanti ma non “persecutori” in senso stretto rischiavano di rimanere senza tutela, perché la loro situazione non integrava tutti i requisiti del mobbing classico.

Straining e costrittività organizzativa: oltre il mobbing classico

Per colmare questo vuoto, la giurisprudenza ha elaborato figure come lo straining (dall’inglese to strain, sforzare). Si parla di straining quando il lavoratore è sottoposto a situazioni lavorative stressogene anche tramite atti singoli o isolati, privi di reiterazione continua, ma comunque tali da provocare un significativo disagio psicofisico. In pratica è una forma attenuata di mobbing: manca la persecuzione intenzionale continua, ma c’è comunque un comportamento aziendale negligente o ostile che causa tensione e danno al dipendente. Ad esempio, può configurare straining l’assegnazione ingiustificata di compiti umilianti o carichi di lavoro eccessivi, pur in assenza di un disegno persecutorio. La Cassazione ha riconosciuto questa figura: Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 12518/2025 (12 maggio 2025) ha confermato che anche una condotta episodica può fondare responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., allorché produca un effetto permanente negativo nella posizione del lavoratore, pur senza prova di un intento mirato di persecuzione. In sostanza, viene tutelato il lavoratore sottoposto a condizioni lavorative insostenibili, anche se il datore non orchestrava un piano di mobbing vero e proprio.

Parallelamente, si parla di costrittività organizzativa quando le scelte aziendali di riorganizzazione (trasferimenti, demansionamenti, isolamento professionale, ecc.) creano una situazione invivibile per il dipendente, spingendolo magari alle dimissioni. Anche qui l’ordinamento interviene, pur mancando una legge specifica sul mobbing: il fondamento è sempre l’art. 2087 del Codice Civile, che impone al datore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

La Cassazione 2025: responsabilità del datore anche senza mobbing intenzionale

Mens sana in corpore sano dicevano i Latini: il benessere mentale è parte integrante della salute complessiva. Proprio su questa linea, la Corte di Cassazione nelle sue più recenti decisioni ha rafforzato la tutela della salute psicofisica del lavoratore, sganciandola dai formalismi del mobbing. In particolare, con ordinanza n. 27685/2025 depositata il 16 ottobre 2025, la Suprema Corte ha stabilito un principio innovativo: anche in assenza di un intento persecutorio sistematico, il datore di lavoro può essere dichiarato responsabile ex art. 2087 c.c. se non ha impedito un ambiente di lavoro nocivo e stressante. Nel caso esaminato, infatti, erano emersi comportamenti aziendali censurabili (turni e mansioni inadeguati, indifferenza verso i problemi di salute del dipendente, episodi di scherno da parte di colleghi) che però la Corte d’Appello aveva giudicato come mere negligenze prive di mobbing. La Cassazione ha cassato quella decisione, chiarendo che la tutela non può dipendere solo dall’etichetta “mobbing”. Ciò che conta è se l’insieme delle condizioni di lavoro ha leso la salute o la dignità del lavoratore: in tal caso, a prescindere dalla volontà persecutoria, scatta la responsabilità contrattuale del datore.

Questo orientamento è stato poi confermato ed ampliato con la sentenza n. 31367/2025 del 1° dicembre 2025 (Cass. civ., Sez. Lav.). In tale pronuncia, la Cassazione ha ribadito che l’obbligo di sicurezza aziendale opera in senso ampio: rientra nella violazione dell’art. 2087 c.c. non solo il classico mobbing, ma qualsiasi condotta o situazione organizzativa che – anche senza malizia intenzionale – risulti idonea a compromettere la salute psicofisica del dipendente. La Corte ha sottolineato che non bisogna “ingabbiare” la tutela dentro definizioni rigide: l’assenza di prove su un disegno persecutorio non esonera il datore dalle sue colpe se, di fatto, il lavoratore si è ammalato a causa del lavoro. In altre parole, si passa da una visione soggettiva (punire il datore mobber se animato da dolo) a una visione oggettiva: prevenire e sanzionare comunque le condizioni di lavoro patologiche, a prescindere dall’intenzione.

Obblighi datoriali, onere della prova e tutele per il lavoratore

Queste evoluzioni giurisprudenziali rafforzano l’applicazione dell’art. 2087 c.c., che è un potente strumento di tutela contrattuale. Vale la pena ricordare come funziona tale norma in giudizio: il lavoratore che agisce per il risarcimento del danno deve provare di aver subito un pregiudizio (ad esempio una lesione all’integrità psichica, uno stato di depressione o ansia clinicamente accertato) e deve allegare il nesso causale con l’ambiente lavorativo (cioè indicare le condizioni stressanti o i fatti che ritiene abbiano causato quel danno). Una volta forniti questi elementi, spetta poi al datore di lavoro dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire quel danno, adottando le cautele necessarie. È il cosiddetto regime della responsabilità contrattuale da inadempimento di sicurezza: l’azienda deve dimostrare di non aver violato i propri obblighi di protezione. In mancanza, sarà tenuta al risarcimento.

Nel valutare questi casi, i giudici oggi sono chiamati a una considerazione unitaria e complessiva del contesto lavorativo: devono guardare al quadro d’insieme. La Cassazione ha espresso chiaramente che concetti medico-legali come mobbing e straining sono utili descrizioni, ma non hanno autonoma rilevanza giuridica: ciò che rileva è sempre l’obbligo generale di prevenzione a carico del datore. Se quell’obbligo è stato violato – perché il datore ha tollerato un clima insano, non ha formato i capi, non ha gestito conflitti, ha ignorato segnalazioni di stress, ecc. – allora potrà esservi condanna al risarcimento, anche senza etichettare formalmente la vicenda come “mobbing”.

Va evidenziato che questa apertura non significa ammettere richieste di risarcimento per qualsiasi disagio o inconveniente sul lavoro: resta necessario provare un danno reale e una colpa (anche solo omissiva) del datore nel non aver garantito condizioni salubri. Non si tratta di far diventare il datore di lavoro un assicuratore contro ogni malessere, ma di ribadire che l’azienda deve prendersi cura dei propri dipendenti attivando tutte le misure organizzative, formative e disciplinari atte a evitare abusi, sovraccarichi inutili, discriminazioni e situazioni dannose. Del resto, la normativa sulla sicurezza (D.lgs. 81/2008) già impone di valutare anche i rischi da stress lavoro-correlato. Le sentenze del 2025 si muovono proprio in coerenza con questo principio, rafforzando l’idea che la salute mentale del lavoratore sia preziosa quanto quella fisica e che vada protetta in via preventiva e risarcitoria.

Implicazioni pratiche per lavoratori e aziende

Questa evoluzione offre ai lavoratori maggiori strumenti di tutela. Chi subisce situazioni di forte stress lavorativo (turni impossibili, pressioni indebite, isolamento professionale, demansionamento umiliante, ecc.) oggi può far valere i propri diritti senza dover necessariamente dimostrare di essere vittima di un complotto persecutorio. È sufficiente provare che l’azienda non ha mantenuto un ambiente di lavoro sicuro e rispettoso della dignità, causando un danno alla salute. In sede giudiziale, ciò può portare a ottenere il risarcimento dei danni biologici, morali ed esistenziali patiti (ad esempio spese mediche, invalidità per depressione o disturbo post-traumatico, danno alla vita di relazione, ecc.). Inoltre, il riconoscimento di tali diritti può spingere anche a soluzioni transattive: spesso il datore preferirà conciliare, risarcendo il dipendente, piuttosto che affrontare un giudizio dall’esito potenzialmente oneroso anche in termini reputazionali.

Dal lato delle aziende, le sentenze suonano come un monito e un invito all’azione: non basta evitare di compiere atti di mobbing in senso stretto (che ovviamente restano vietati); occorre attivamente monitorare il clima aziendale e prevenire situazioni lavorative logoranti. Ciò significa, ad esempio, formare i dirigenti alla gestione del personale senza abusi, dotarsi di procedure interne per raccogliere le lamentele dei dipendenti, intervenire prontamente se emergono segnali di burnout o disagio diffuso, bilanciare carichi di lavoro e turni in modo umano. Un’azienda attenta alla salute dei lavoratori svolge periodiche valutazioni del rischio stress, coinvolge eventualmente medici del lavoro o psicologi del lavoro, e promuove una cultura del rispetto. Oltre a evitare cause e sanzioni, ne guadagna la produttività stessa: un dipendente sereno e valorizzato lavora meglio.

In definitiva, il 2025 segna un ulteriore passo verso una visione moderna dei rapporti di lavoro, dove al centro c’è la persona con la sua dignità ed equilibrio. La giurisprudenza sta dicendo chiaramente che il lavoro non può e non deve “ammalare”: se ciò accade, il sistema giuridico offre rimedi. “Lasciate ogne speranza, voi ch’entrate” non deve essere la scritta ideale sopra l’ingresso di un ufficio; al contrario, un ambiente di lavoro sano è quello in cui ogni lavoratore può svolgere la propria attività senza paure, umiliazioni o stress eccessivi, sapendo che la legge – se necessario – lo proteggerà.

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  • 19 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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