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Responsabilità medica: prove e linee guida sotto esame - Studio Legale MP - Verona

Sguardo alle più recenti sentenze sulla colpa medica: il ruolo delle linee guida cliniche, l’onere della prova del nesso causale e le garanzie processuali a tutela del paziente

 

"La medicina consiste nell'introdurre droghe che non si conoscono in un corpo che si conosce ancor meno." – Voltaire. Questa frase provocatoria sottolinea quanta incertezza vi sia nell’arte medica: incertezza che, quando sfocia in errore, può causare gravi conseguenze. Primum non nocere (anzitutto, non nuocere) recita un antico principio ippocratico che ogni medico dovrebbe seguire. Eppure gli errori sanitari accadono. Quando un paziente subisce un danno da errore medico, il diritto interviene per accertare le responsabilità e garantire un risarcimento. Negli ultimi tempi, la giurisprudenza italiana ha affrontato in modo innovativo alcuni aspetti chiave della responsabilità medica: l’uso delle linee guida come possibile scudo per il medico, le regole sul nesso causale e sull’onere della prova, l’importanza di perizie mediche collegiali e il valore del consenso informato. Vediamo come le sentenze più recenti stanno ridisegnando questi profili, offrendo nuove tutele ai pazienti e delineando con maggior precisione i doveri dei sanitari.

Linee guida mediche e colpa del medico

Le linee guida cliniche sono protocolli ufficiali che orientano i medici nelle scelte terapeutiche. Dopo la legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), il rispetto delle linee guida appropriate può, in ambito penale, esimere il medico dalla responsabilità per colpa lieve (imperizia lieve). Tuttavia, la Corte di Cassazione ha chiarito che le linee guida non sono un salvacondotto assoluto. In una recente pronuncia penale (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 40316/2024 del 4 novembre 2024), la Suprema Corte ha confermato la condanna di un medico nonostante questi avesse seguito le raccomandazioni previste. Il caso riguardava la tragica morte di un neonato durante il parto: il medico non aveva effettuato un monitoraggio aggiuntivo (cardiotocografia e controllo del travaglio) perché le linee guida lo indicavano come non obbligatorio in assenza di travaglio attivo. La Cassazione ha ritenuto che, data la complessità del quadro clinico (pregressi tagli cesarei e altri fattori di rischio), il medico avrebbe dovuto adottare quelle cautele aggiuntive. Conclusione: il rispetto formale delle linee guida non esonera dalla colpa grave se il sanitario omette prudenza in presenza di rischi specifici evidenti. In altre parole, il medico deve sempre contestualizzare le linee guida al caso concreto: se la situazione richiede più cautela rispetto allo standard, il medico ha il dovere di andare oltre le raccomandazioni minime. Una condotta conforme alle linee guida, ma imprudente rispetto alle condizioni del paziente, può comunque costituire imperizia grave o negligenza, quindi fonte di responsabilità. La Cassazione, in questa e altre pronunce, sta quindi tracciando un nuovo equilibrio: le linee guida aiutano ma non “salvano” il medico che sbaglia grossolanamente; la sicurezza del paziente resta prioritaria rispetto alla pedissequa aderenza ai protocolli.

Va ricordato che la stessa legge Gelli prevede l’esonero penale solo per l’imperizia lieve in aderenza alle linee guida. Quando l’errore è macroscopico, come non considerare fattori di rischio rilevanti, non si parla più di colpa lieve. Ad esempio, la Cassazione ha distinto nettamente i casi di errore tecnico-scientifico (imperizia) da quelli di trascuratezza o negligenza pura: solo nel primo caso può operare l’esimente di legge se sono rispettate linee guida adeguate (cfr. Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 32359/2025 del 1° ottobre 2025). In questa sentenza, relativa a un’omessa diagnosi di una grave patologia (una perforazione intestinale non rilevata da una radiologa), la Corte ha escluso l’applicabilità dell’art. 590-sexies c.p. (la clausola di non punibilità introdotta dalla legge Gelli) perché la condotta era qualificabile come negligenza macroscopica e non semplice imperizia tecnica. In sintesi, la giurisprudenza attuale ricorda che prima si accerta se vi è un nesso di causa tra la condotta del medico e il danno (cioè se l’omissione o l’errore ha contribuito a causare l’evento); poi si valuta la colpa in concreto; e soltanto se si tratta di imperizia (errore tecnico) conforme a linee guida si potrà escludere la punibilità penale. Un errore grave dovuto a disattenzione o sottovalutazione dei rischi resta invece pienamente punibile. Sul piano civilistico, inoltre, anche il rispetto delle linee guida non solleva il medico o la struttura dall’obbligo di risarcire il paziente se viene accertato che un diverso comportamento avrebbe evitato il danno.

Nesso causale e onere della prova a favore del paziente

Un aspetto cruciale nei giudizi di malasanità è la dimostrazione del nesso causale, ossia il legame tra la condotta del medico e il danno subito dal paziente. Chi deve provare cosa? Su questo punto la giurisprudenza civile ha recentemente rafforzato la posizione del paziente. La regola generale, infatti, considera la responsabilità medica nell’ambito contrattuale (quanto meno per le strutture sanitarie e per il medico dipendente): il paziente deve provare di aver subìto un danno durante il trattamento sanitario e indicare in cosa consisterebbe la colpa del medico, mentre il medico o la struttura devono provare di aver adempiuto correttamente o che, pur essendovi stato un errore, questo non è stato la causa del danno. La Corte di Cassazione ha ribadito questo principio in maniera molto chiara con l’ordinanza n. 5922/2024 (Sez. III civ., dep. 5 marzo 2024). In tale pronuncia, riguardante un paziente rimasto lesionato dopo un intervento con complicanze da anestesia, la Cassazione ha censurato la sentenza di appello perché aveva addossato al paziente un onere probatorio eccessivo. Principio affermato: il paziente deve provare solo di aver riportato un danno e il nesso di causa tra la condotta sanitaria e il danno stesso, secondo il criterio del “più probabile che non” (ossia che l’errore medico abbia con probabilità prevalente causato l’evento). Non spetta invece al paziente dimostrare in dettaglio quale regola di buona pratica (leges artis) sia stata violata: è il medico o l’ospedale convenuto che devono provare di aver agito in modo conforme alle leges artis oppure che l’eventuale inadempimento non è dipeso da loro colpa (ad esempio per una complicanza imprevedibile). In altre parole, l’onere della prova circa la diligenza del comportamento sanitario grava sul professionista o sulla struttura, mentre il paziente è agevolato: se ha sofferto un danno durante cure mediche e riesce a collegarlo plausibilmente all’azione o omissione del medico, tocca alla controparte fornire elementi per escludere la responsabilità.

Questo orientamento pro-paziente, confermato dalla Cassazione, assicura che la parte “debole” del rapporto (il paziente danneggiato) non sia caricata di un peso probatorio impossibile. Spesso, infatti, il medico detiene maggiormente le conoscenze tecniche e la documentazione clinica. Proprio la documentazione clinica (cartella, referti) gioca un ruolo essenziale: se risulta incompleta o lacunosa, si presume a sfavore di chi aveva l’obbligo di custodirla (la struttura sanitaria). Il giudice, per accertare il nesso di causa, si basa su ragionamenti inferenziali: confronta le varie possibili cause del danno e verifica quale sia la più probabile in base alle evidenze. Se l’errore del medico risulta l’ipotesi più plausibile, ed il medico non riesce a provare un’alternativa indipendente (ad esempio che il danno sarebbe avvenuto lo stesso per una patologia preesistente inevitabile), allora il nesso causale è ritenuto sussistente. Va sottolineato che in sede civile vige il criterio della preponderanza dell’evidenza (>50% di probabilità): basta cioè dimostrare che è più probabile che il danno derivi dalla colpa medica piuttosto che da altre cause.

In sede penale, il discorso sul nesso causale è più rigoroso, perché occorre accertarlo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. La sentenza Cass. pen., Sez. IV, n. 32359/2025 citata prima offre un esempio esplicativo: i giudici hanno chiarito che non ci si può basare solo su statistiche mediche per stabilire il nesso in caso di omissione (come una diagnosi mancata). Nel caso concreto, un paziente era deceduto per una peritonite non diagnosticata tempestivamente. La Corte ha ribadito che bisogna chiedersi con approccio controfattuale: “se il medico avesse fatto ciò che doveva (es. diagnosticare e operare subito), l’evento morte si sarebbe evitato?”. Per affermare il nesso causale in ambito penale occorre un elevato grado di credibilità razionale: tradotto, significa dimostrare una probabilità qualificata, molto alta, che l’omissione del medico sia stata la causa del decesso, resistendo al vaglio del dubbio ragionevole. Non serve la certezza matematica (che in medicina è quasi impossibile), ma una probabilità vicina alla certezza. Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito: dalle perizie emerse che un intervento chirurgico tempestivo avrebbe avuto altissime chance di successo (quasi il 90% di probabilità di salvare il paziente). Il ritardo diagnostico di oltre 13 ore è stato giudicato con alta probabilità logica la causa del decesso. La particolarità di questa pronuncia è il richiamo a non confondere i numeri con il giudizio giuridico: anche con un 90% di probabilità statistica di successo, il giudice deve verificare qualitativamente se, alla luce delle condizioni concrete del paziente e dei tempi di intervento possibili, quella chance di successo si traduce in un’effettiva evitabilità dell’evento. In sostanza, in ambito penale il nesso causale va accertato con un rigoroso esame caso-specifico, richiedendo un grado di certezza elevato (alta probabilità logica), mentre in ambito civile basta la prevalenza della probabilità (>50%) e, in mancanza di prova contraria del medico, il paziente ottiene il riconoscimento del risarcimento.

La perizia medico-legale collegiale: garanzia di imparzialità

Un capitolo importante delle recenti evoluzioni riguarda la consulenza tecnica nei giudizi di responsabilità sanitaria. La legge Gelli-Bianco del 2017 ha introdotto l’obbligo che la consulenza medico-legale, nei procedimenti per danni sanitari, sia svolta da un collegio di periti composto da almeno un medico specialista nella disciplina interessata e un medico legale (art. 15 L. 24/2017). L’obiettivo è garantire valutazioni tecniche più affidabili e complete, evitando che un singolo perito privo di alcune competenze specifiche possa influenzare in modo errato l’esito del giudizio. Ma cosa accade se il giudizio è iniziato prima della legge Gelli o se per errore il giudice nomina un perito singolo? La risposta è arrivata con una pronuncia esemplare: Cass. civ., Sez. III, sent. n. 15594/2025, dep. 11 giugno 2025. La Cassazione ha dichiarato nulla una sentenza di merito che si basava su una CTU (consulenza tecnica d’ufficio) eseguita da un perito singolo, in violazione dell’obbligo di collegialità. In quel caso, vi era stato inizialmente un accertamento tecnico preventivo monocratico (cioè un solo perito) nel 2016, quindi prima dell’entrata in vigore della legge Gelli, e sulla base di quell’ATP le parti erano andate in causa nel 2018. Il giudice di merito aveva utilizzato quella vecchia perizia singola senza disporne una nuova collegiale. La Suprema Corte ha affermato principi netti: tempus regit actum, conta il momento in cui si celebra il giudizio di merito. Se il processo si svolge sotto la vigenza della nuova legge, bisogna applicarla: dunque è obbligatorio nominare un collegio peritale, anche se l’ATP pre-legge Gelli era stata fatta da un solo perito. La mancanza di collegialità non è un semplice vizio formale sanabile: è una violazione grave e insanabile che inficia la perizia e l’intera sentenza che si fonda su di essa.

La Corte ha spiegato che qui non si tratta di valutare se la perizia monocratica fosse ben fatta o motivata: il punto è che non rispetta un requisito legale inderogabile. L’art. 15 L. 24/2017, infatti, è una norma imperativa: impone sempre la collegialità della CTU medico-legale (almeno un medico legale e uno o più specialisti della materia medica in questione). Se questa regola non è rispettata, la consulenza è nulla e di conseguenza la decisione basata su di essa deve essere annullata. Non c’è spazio per la discrezionalità del giudice: non è possibile “accontentarsi” di una perizia monocratica neppure se antecedente alla legge o se apparentemente esauriente. La sentenza 15594/2025 ha voluto così tutelare la parte debole del processo, cioè il paziente, garantendogli una perizia svolta con il massimo rigore tecnico e metodologico. La collegialità infatti non è solo una formalità: avere più esperti (ad esempio un medico legale e uno specialista chirurgo, anestesista, ecc. a seconda del caso) significa ridurre il margine di errore e coprire tutti gli aspetti scientifici rilevanti. Questa è una garanzia fondamentale di giusto processo nel contenzioso sanitario. La pronuncia ha segnato un cambio di passo rispetto a un precedente approccio più “pragmatico” di alcuni giudici, che talvolta tolleravano la vecchia perizia singola se considerata comunque valida. Ora la linea è rigorosa: niente perizie “fai da te” di un solo perito, pena la nullità.

Va notato che restano aperte alcune questioni applicative (sollevate dalla dottrina) sulla collegialità: ad esempio nei casi di odontoiatria, disciplina che non rientra nelle specializzazioni mediche tradizionali ma è una professione sanitaria autonoma. Come applicare l’obbligo di più periti lì? Serve sempre un medico legale più un odontoiatra? E se il caso riguarda una branca odontoiatrica particolare (ortodonzia, implantologia) qual è lo specialista “di branca”? La sentenza in esame non affronta questi dettagli, ma pone comunque un principio di portata generale: in ogni giudizio di responsabilità medica va assicurata una perizia collegiale multidisciplinare, pena il sacrificio dei diritti del paziente alla correttezza della prova scientifica. Per gli operatori del diritto, ciò significa prestare massima attenzione a chiedere (e verificare) che il CTU sia composto secondo legge, per evitare poi di veder annullata la sentenza con allungamento dei tempi di giustizia.

Il valore del consenso informato del paziente

Un ultimo aspetto, spesso affiancato al tema degli errori medici, è quello del consenso informato. Ogni intervento o trattamento sanitario richiede, salvo emergenze, che il paziente sia correttamente informato sui rischi, benefici e possibili alternative, affinché possa acconsentire in modo libero e consapevole. Il consenso informato non è una mera formalità burocratica, ma rappresenta un diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente. In caso di mancata o inadeguata informazione, anche se l’atto medico in sé è eseguito correttamente, il medico e la struttura possono essere chiamati a rispondere di un danno specifico: il danno da mancato consenso informato, consistente nel pregiudizio subito dal paziente per non aver potuto scegliere consapevolmente (magari avrebbe rifiutato l’intervento, oppure semplicemente ha patito uno shock o una sofferenza psicologica maggiore perché non preparato alle conseguenze). La Cassazione ha più volte ribadito questo principio e lo ha fatto nuovamente di recente (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 15079/2025, dep. 5 giugno 2025). In tale ordinanza, la Suprema Corte ha sottolineato che l’omessa informazione configura un illecito a sé stante: anche se non c’è errore tecnico nell’operazione, il paziente non informato adeguatamente ha diritto a un risarcimento autonomo per la violazione del suo diritto alla scelta. Si tratta di un danno non patrimoniale che può cumularsi, eventualmente, al danno alla salute se l’intervento stesso gli ha causato conseguenze fisiche. In pratica, il paziente può ottenere un ristoro economico perché gli è stata negata la possibilità di decidere sul proprio corpo e sulla propria salute in modo informato.

La giurisprudenza ha chiarito che per configurare questo tipo di danno non è nemmeno necessario che, col senno di poi, il paziente avrebbe rifiutato la cura; basta che la mancata informazione gli abbia fatto perdere un’importante chance di autodeterminazione, oppure gli abbia causato un vulnus alla dignità e serenità con cui affrontare l’intervento. Ad esempio, se un paziente non viene avvertito di un possibile effetto collaterale grave e questo poi si verifica, egli soffrirà non solo per l’effetto in sé, ma anche per lo shock di non essere stato preparato. Il risarcimento per consenso informato carente è dunque riconosciuto in misura proporzionata alla gravità dell’informazione omessa e all’impatto che ha avuto sulla sfera psico-fisica del paziente. Questo rafforza la necessità, per i medici, di dedicare tempo e attenzione alla comunicazione con il paziente, utilizzando un linguaggio chiaro e verificando che abbia compreso. Volenti non fit iniuria dicevano i giuristi latini: “a chi acconsente non è fatto torto”. Ma il consenso del paziente ha valore soltanto se è realmente informato; in caso contrario non vale a giustificare l’operato del medico, e anzi l’intervento effettuato senza valido consenso diventa di per sé illecito. Le strutture sanitarie ormai adottano moduli e formulari dettagliati, ma questo non esonera il personale dal dialogo diretto: non basta una firma su un foglio, serve una informazione dialogica e personalizzata.

 

 

Dalle recenti pronunce qui esaminate emerge un quadro di tutele rafforzate per il paziente e di corresponsabilità per il medico e le strutture. La responsabilità medica oggi si caratterizza per: un maggiore scrutinio sul comportamento del sanitario rispetto alle linee guida (che vanno seguite con giudizio critico, senza trascurare le peculiarità del caso); un sistema probatorio che tende ad agevolare il paziente danneggiato, imponendo a chi ha fornito la cura di dimostrare di aver fatto tutto il possibile; l’attenzione alla qualità della prova scientifica in giudizio, con la collegialità delle perizie come standard inderogabile; il riconoscimento del valore del consenso informato come diritto autonomo e risarcibile. In sintesi, salus aegroti suprema lex – la salute del paziente è la legge suprema – potremmo dire richiamando un altro motto adattato al contesto: l’ordinamento giuridico, con l’evoluzione giurisprudenziale, pone al centro la vittima dell’errore medico, cercando di garantirle giustizia e ristoro pieno. Chi ha subito un danno da malasanità può oggi contare su una serie di principi e presidi legali che rendono più efficace la sua tutela in giudizio.

Naturalmente ogni caso ha le sue specificità e non sempre è semplice orientarsi tra perizie, norme e tribunali. Per questo motivo, di fronte a un sospetto errore medico, è fondamentale rivolgersi prontamente a professionisti esperti in materia legale sanitaria.

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  • 27 dicembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


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