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Malasanità in sala parto: errori, diritti e risarcimenti - Studio Legale MP - Verona

Le complicanze da parto causate da negligenza medica possono avere conseguenze gravissime su neonati e genitori. Dalle nuove sentenze sui danni da nascita alla tutela risarcitoria per errori in sala parto, vediamo quali sono i diritti delle famiglie colpite e gli obblighi di medici e strutture.


Il parto dovrebbe essere un momento di gioia, ma un errore sanitario può trasformarlo in tragedia. Questo articolo approfondisce la responsabilità medica durante il parto, analizzando casi reali e sentenze recenti che rafforzano la tutela legale per genitori e neonati vittime di malasanità. Scopriremo quali errori in sala parto possono dare diritto a un risarcimento, come provare la colpa medica e quali sono i diritti delle famiglie colpite. Un linguaggio chiaro ma tecnico guiderà attraverso normative e ultime pronunce dei tribunali, per capire come ottenere giustizia in situazioni tanto delicate quanto dolorose.

 

Quando il parto diventa malasanità

«Nascere, è ricevere tutto un universo in regalo.» – Questa frase di Jostein Gaarder ricorda quanto sia preziosa ogni nuova vita. Tuttavia, la nascita può purtroppo trasformarsi in un evento drammatico quando si verifica un errore medico in sala parto. Con malasanità in ambito ostetrico ci si riferisce a tutti quei casi in cui una gestione clinica sbagliata del travaglio o del parto provoca un danno grave alla madre o al neonato. Parliamo di situazioni come un taglio cesareo ritardato nonostante segni di sofferenza fetale, una manovra ostetrica eseguita in modo errato, l’uso improprio di ventosa o forcipe, la mancata diagnosi di complicazioni (es. rottura dell’utero, distacco di placenta) o un’anestesia mal gestita. In questi frangenti, l’evento lieto si tramuta in incubo: il bambino può riportare lesioni permanenti (danni neurologici da asfissia per mancato ossigeno, paralisi cerebrali, traumi da parto) o, nei casi più gravi, può perdere la vita; anche la madre può subire gravi conseguenze fisiche (lesioni interne, infertilità, emorragie non gestite) oltre a un immenso trauma emotivo. In Italia, il diritto tutela la salute in ogni fase della vita, compreso il momento della nascita: se un bimbo o la sua mamma vengono danneggiati da una negligenza sanitaria, esistono strumenti giuridici per chiedere giustizia. Salus aegroti suprema lex: la salute del paziente – in questo caso della partoriente e del nascituro – è “legge suprema” e deve essere protetta sopra ogni cosa.

Errori durante il parto e responsabilità del medico

La responsabilità medica in ambito ostetrico funziona in modo simile agli altri casi di malasanità, ma con particolari delicatezze. In genere, quando una donna si ricovera per partorire, si instaura un rapporto contrattuale tra i genitori (o la partoriente) e l’ospedale: ciò significa che la struttura sanitaria e il personale hanno il dovere legale di assistere il parto con la massima cura e professionalità. Se questo obbligo viene violato per negligenza, imperizia o imprudenza, e ne deriva un danno, scatta la responsabilità civile per inadempimento. Un aspetto importante è che, data la natura contrattuale, l’onere della prova è in parte invertito rispetto al solito: i genitori (o il paziente danneggiato) devono solo dimostrare di aver subìto un danno anomalo durante il parto e indicare una plausibile relazione con la condotta dei sanitari. Spetterà poi al medico e all’ospedale provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Questo principio – sancito dall’art. 1218 c.c. e applicato anche di recente dalla Cassazione – evita al paziente una “probatio diabolica”, cioè di dover ricostruire nel dettaglio tecnico l’errore commesso, cosa spesso impossibile per i non addetti ai lavori. Ad esempio, se un neonato nasce con lesioni da ipossia cerebrale e i tracciati cardiotocografici durante il travaglio mostravano sofferenza fetale ignorata, i genitori dovranno provare il danno (le lesioni neurologiche) e che in parto vi è stata una situazione critica; sarà poi la struttura a dover dimostrare che il personale ha agito correttamente e che il danno era inevitabile nonostante cure adeguate (evenienza ben difficile da provare se emergono negligenze).

Va ricordato che non ogni complicanza costituisce colpa medica: alcune emergenze ostetriche possono purtroppo accadere anche con medici diligenti. Il fulcro è capire se quella specifica complicanza era prevedibile e soprattutto evitabile. Un evento avverso conosciuto come possibile (es. emorragia post-partum) non implica automaticamente una responsabilità, a meno che si dimostri che il medico non ha fatto quanto doveva per prevenirlo o gestirlo. In altre parole, se la paziente ha una reazione imprevedibile e inevitabile, siamo di fronte al caso fortuito; se invece c’erano protocolli da seguire o segnali d’allarme ignorati, allora parliamo di errore medico. La Cassazione civile, con sentenza n. 9198/2024, ha chiarito proprio che il concetto di “complicanza” non esonera da responsabilità se in concreto il danno si poteva evitare con la dovuta diligenza. Ciò vale specialmente in ostetricia, dove esistono linee guida precise: ad esempio, di fronte a un tracciato cardiotocografico patologico è raccomandato intervenire tempestivamente (parto operativo o cesareo d’urgenza). Se ciò non avviene e il bambino subisce danni da ipossia, difficilmente il medico potrà giustificarsi dicendo che “era una complicanza imprevedibile”.

Prova del nesso causale: cosa sarebbe successo con cure adeguate?

Un nodo cruciale nei contenziosi per danni da parto è la dimostrazione del nesso causale tra condotta e danno. Bisogna cioè accertare che, senza l’errore, il bambino o la madre non avrebbero riportato quel pregiudizio. In giudizio questo si traduce nel dover ricostruire uno scenario ipotetico: ad esempio, se il cesareo fosse stato eseguito un’ora prima, il neonato avrebbe evitato l’asfissia? Oppure: se l’emorragia della madre fosse stata riconosciuta subito, si sarebbe evitato il danno d’organo? A posteriori non è facile rispondere con certezza assoluta (“del senno di poi son piene le fosse”, dice un proverbio reso celebre da Manzoni), ma il diritto offre criteri probabilistici. In sede civile vige la regola del “più probabile che non”: il nesso di causa è riconosciuto se, sulla base delle evidenze, c’è oltre il 50% di probabilità che un comportamento corretto avrebbe evitato il danno. La Cassazione – ad esempio nella sentenza n. 547/2025, riferita a un caso di terapia omessa – ha ribadito che il giudice deve valutare con rigore scientifico lo scenario ipotetico senza errore, basandosi su dati medici e linee guida, esigendo un’alta probabilità logica di successo della cura corretta. Tradotto nel contesto del parto: se emerge che un intervento tempestivo avrebbe quasi certamente impedito il danno (o lo avrebbe gravemente ridotto), il nesso causale viene riconosciuto; se invece il quadro era talmente compromesso che, anche agendo bene, l’outcome negativo sarebbe occorso lo stesso, manca il nesso e non c’è responsabilità civile.

Questo approccio evita sia ingiuste condanne “a prescindere” (non si punisce il medico per un evento inevitabile), sia ingiuste negazioni di tutela (non si richiede al paziente la prova impossibile della certezza assoluta). In concreto, spetterà ai consulenti tecnici medico-legali stabilire, caso per caso, cosa sarebbe successo in un parto gestito correttamente. Molto spesso, soprattutto nei danni cerebrali neonatali da ipossia, contano i minuti: un ritardo di mezz’ora nel nascere può fare la differenza tra un neonato sano e uno con gravi disabilità. Se il perito conclude, ad esempio, che iniziando il cesareo alle 10:00 invece che alle 11:00 il bambino sarebbe nato senza danni, siamo ben oltre la soglia del “più probabile che non” e la responsabilità sarà affermata. Viceversa, se la patologia fetale era talmente grave che nemmeno un intervento immediato avrebbe salvato il piccolo, la domanda risarcitoria verrà rigettata per mancanza di nesso causale, pur potendosi configurare eventualmente responsabilità disciplinari o organizzative.

Va aggiunto un elemento: in alcune situazioni borderline, dove non si può provare che il bimbo si sarebbe salvato con certezza prevalente, può comunque emergere un danno da perdita di chance. Ad esempio, se un grave ritardo diagnostico o terapeutico in gravidanza ha ridotto le probabilità di avere un neonato sano (pur senza azzerarle del tutto), la giurisprudenza ammette che quella “chance” di esito migliore perduta sia risarcibile pro quota. Tuttavia, nei casi di parto questa categoria si applica di rado, perché di solito il danno o c’è in pieno (morte o lesione grave) o non c’è. Quando però il nesso causale tradizionale difetta – ad esempio, non possiamo affermare che il bambino sarebbe stato sicuramente sano intervenendo prima, ma solo che avrebbe avuto, poniamo, il 30% di probabilità in più di evitare l’handicap – allora il giudice potrebbe riconoscere ai genitori il risarcimento di quella chance del 30% perduta (calcolando il 30% di quello che sarebbe il danno totale). Si tratta comunque di ipotesi complesse, da valutare con estrema perizia caso per caso.

Danni risarcibili: dal neonato ai genitori

Quando viene accertata la responsabilità medica in ambito ostetrico, si apre il capitolo della quantificazione dei danni risarcibili. Bisogna considerare tutte le ripercussioni negative causate dall’errore. I possibili danni in questi casi abbracciano diverse categorie:

Danno biologico del neonato: se il bambino sopravvive ma con lesioni permanenti (ad es. paralisi cerebrale infantile, disabilità motorie o cognitive, epilessia, cecità ecc.), ha diritto al risarcimento del proprio danno biologico per la perdita della salute e delle funzionalità. Questo comprende sia il danno fisico in sé, sia le conseguenze sulla vita di relazione futura. Essendo il bambino minorenne, l’azione legale viene promossa dai genitori in suo nome, ma il risarcimento spetta a lui (da gestire nell’interesse del minore). In casi del genere, oltre al valore monetario del danno biologico (spesso molto elevato per invalidità gravi), vengono riconosciute le spese mediche future, le terapie riabilitative, i costi di assistenza che i genitori dovranno sostenere per tutta la durata dell’assistenza al figlio disabile, eventualmente anche l’adattamento della casa o l’acquisto di ausili.

Danno morale ed esistenziale dei genitori (se il figlio sopravvive con handicap): la legge italiana ammette che anche i parenti stretti possano subire un danno morale dalla lesione gravissima di una persona cara. Vedere il proprio figlio sano trasformarsi in un figlio disabile a causa di un errore medico può causare ai genitori sofferenze psicologiche profonde, senso di colpa, depressione, sconvolgimento dei progetti di vita. Questo impatto viene talora risarcito come danno morale riflesso. Si tratta di valutazioni delicate: il giudice deve capire quanto la vita dei genitori sia stata stravolta dall’evento. Ad esempio, l’impegno di assistenza continua a un figlio con gravissima disabilità incide su ogni aspetto della vita familiare, lavorativa, sociale dei genitori. La Cassazione (ord. n. 21415/2024) ha ricordato che il risarcimento ai prossimi congiunti per la sofferenza derivante da lesioni altrui va calibrato in base alla gravità della compromissione del rapporto e alla durata/intensità delle cure prestate. Nel caso di genitori di un bambino con lesioni permanenti da parto, è evidente che la loro quotidianità sarà segnata per sempre: ciò giustifica una personalizzazione del risarcimento in aumento rispetto agli standard tabellari, per tenere conto del carico fisico e emotivo che dovranno sopportare vita natural durante.

Danno da perdita del neonato (danno parentale): se purtroppo il bambino muore in conseguenza dell’errore (sia che il decesso avvenga durante il parto, sia che intervenga dopo una breve agonia post-nascita), i genitori hanno diritto al risarcimento per la perdita del rapporto parentale con il figlio. È un danno immenso, incalcolabile sul piano umano, ma che il diritto cerca di ristorare in modo equo. Le tabelle del danno parentale (ad es. quelle elaborate dal Tribunale di Milano) forniscono dei range monetari per la perdita di un figlio, che tengono conto di fattori come l’età dei genitori, l’età della vittima e la profondità del legame affettivo. In passato vi è stata qualche incertezza sul riconoscimento del danno da morte del feto (nascituro): alcune corti liquidavano importi ridotti ritenendo che la relazione genitoriale non fosse ancora “consolidata” in assenza di vita extrauterina. Ma la giurisprudenza più recente ha superato questa visione. La Corte di Cassazione, con una pronuncia del 2025, ha enunciato chiari principi: il rapporto genitoriale esiste già durante la gravidanza e la perdita di un figlio al momento della nascita o poco prima causa ai genitori un dolore reale, non potenziale. In sostanza, la morte di una bimba appena nata o di un feto a termine non può essere considerata un danno “minore” solo perché la vita del figlio è stata brevissima. I genitori vivono comunque un vero e proprio lutto, con ripercussioni profonde sulla psiche e sulla sfera esistenziale. Pertanto, vanno risarciti pienamente al pari di qualsiasi perdita di un prossimo congiunto. Questa sentenza ha condannato l’orientamento di alcune corti d’appello che dimezzavano il risarcimento ai genitori per la perdita di un neonato, motivando con la “brevità del rapporto”: una motivazione definita inaccettabile, perché il legame genitoriale inizia già in gravidanza e il vuoto lasciato dalla perdita di un figlio non dipende dal numero di giorni vissuti insieme, ma dall’intensità dell’amore e delle aspettative spezzate. In conclusione, oggi i danni da lutto perinatale (morte del bambino intorno al parto) devono essere riconosciuti in misura piena ai genitori, senza riduzioni automatiche. Anche eventuali fratellini possono ottenere un risarcimento se già nati e abbastanza grandi da aver percepito e poi patito la perdita del nuovo fratellino/sorellina; mentre i fratelli concepiti successivamente ovviamente non entrano nel computo.

Danno biologico e morale della madre: spesso nelle vicende di malasanità in sala parto c’è anche un danno diretto alla partoriente. Può trattarsi di lesioni fisiche (lacerazioni gravi, danni all’utero o ad altri organi, infezioni, perdita della capacità di procreare in futuro) e del correlato danno psichico (depressione post-traumatica, disturbo da stress post traumatico dopo aver vissuto la perdita o il pericolo di morte proprio o del bambino). La madre ha pieno diritto di essere risarcita per queste sofferenze, distinte da quelle per la perdita o la lesione del figlio. Ad esempio, in un caso di isterectomia d’urgenza subita per un’emorragia non gestita, la donna potrà chiedere il risarcimento per il danno biologico (fisico e psichico) legato alla sua invalidità e alla perdita della funzione riproduttiva, oltre al danno morale soggettivo.

Infine, vanno risarciti anche i danni patrimoniali eventualmente subiti: spese mediche, costi funerari (nei casi di decesso), mancate retribuzioni dei genitori se hanno dovuto assentarsi dal lavoro per assistere il figlio o per propria convalescenza, spese di viaggio per terapie specialistiche, ecc. L’obiettivo del risarcimento è ristorare tutte le conseguenze negative economicamente valutabili derivate dall’illecito. Nessuna somma potrà veramente compensare la vita perduta o la salute compromessa di un bambino, ma alleviare gli oneri finanziari per le cure e riconoscere formalmente il torto subito è fondamentale sia per la dignità delle vittime sia per richiamare i responsabili alle proprie colpe.

Colpa individuale e responsabilità della struttura: errori medici e difetti organizzativi

Una caratteristica dei casi di malasanità per il parto è che coinvolgono più soggetti sanitari: ginecologi, ostetriche, anestesisti, neonatologi, infermieri. La responsabilità legale può riguardare sia i singoli professionisti sia la struttura sanitaria nel suo complesso. Anzitutto, ogni membro dell’équipe è tenuto a svolgere il proprio ruolo con perizia: la colpa medica può ricadere su chi commette direttamente l’errore (ad esempio, il ginecologo che esegue impropriamente una manovra, l’ostetrica che non monitora il tracciato, l’anestesista che dosa male il farmaco). Spesso però la dinamica non è riconducibile a un singolo gesto sbagliato, ma a una carenza di squadra o di organizzazione: comunicazioni sbagliate tra reparto e sala operatoria, mancanza di protocollo, ritardi nel reperire un chirurgo, turni scoperti. In queste situazioni emerge la responsabilità della struttura ospedaliera per cattiva organizzazione del servizio. Un principio ormai consolidato, affermato anche dalla Cassazione (sent. n. 5380/2023), è che l’ospedale risponde in proprio se il danno al paziente deriva dall’inosservanza degli obblighi a suo carico, inclusi quelli organizzativi. Ad esempio, se durante un parto complicato l’ospedale non dispone di un reparto di terapia intensiva neonatale (TIN) e non trasferisce in tempo la gestante in una struttura più attrezzata, l’azienda sanitaria è responsabile delle conseguenze. Nella sentenza citata, la Suprema Corte ha cassato una decisione che aveva escluso la colpa dell’ASL in un caso di danni neurologici a un neonato prematuro: i medici avevano fatto tutto il possibile con i mezzi disponibili, ma la struttura avrebbe dovuto prevedere il trasferimento della madre in un centro dotato di incubatrice e reparto specializzato, dati i rischi connessi a quel parto. Dunque, anche in assenza di errore tecnico dei singoli sanitari, l’ente ospedaliero è chiamato a rispondere se vi è un deficit organizzativo (apparecchiature insufficienti, personale insufficiente, procedure interne inadeguate) che abbia contribuito al danno. Questo perché l’ospedale ha un’obbligazione contrattuale “di sicurezza” verso il paziente: deve predisporre tutto il necessario per erogare cure efficaci in condizioni di sicurezza. Nemo auditur propriam turpitudinem allegans: non ci si può difendere invocando le proprie mancanze.

Da quanto detto deriva che in giudizio, di solito, vengono chiamati in causa sia i medici (assicurati per colpa professionale) sia l’ospedale (assicurato anch’esso per la responsabilità verso i pazienti). Sarà poi il processo a individuare le percentuali di colpa e l’eventuale distribuzione dell’addebito tra i vari soggetti. Ma per la famiglia danneggiata è importante sapere che può agire direttamente contro la struttura sanitaria, la quale risponde anche per fatti dei suoi dipendenti (responsabilità contrattuale diretta ex art. 1218 e indiretta ex art. 2049 c.c.). Inoltre, grazie alla Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), oggi tutte le strutture e i professionisti sanitari devono essere coperti da assicurazione obbligatoria: ciò garantisce che, una volta accertata la responsabilità, il risarcimento sia effettivamente erogato (anche tramite azione diretta del paziente verso l’assicurazione dell’ospedale). In pratica, il patrimonio del danneggiato è protetto: i costi economici dell’errore ricadono sugli assicuratori del sistema sanitario, non sulle vittime.

Casi esemplari e novità giurisprudenziali

Negli ultimi tempi, come accennato, la Corte di Cassazione ha emanato pronunce molto importanti in tema di danni da parto, spesso correggendo impostazioni restrittive dei giudici di merito e affermando principi a tutela delle famiglie colpite. Vale la pena richiamare brevemente alcuni casi esemplari per capire l’orientamento attuale:

Diagnosi tardiva di sofferenza fetale e paralisi cerebrale: in un caso seguito dai tribunali italiani, un bambino aveva riportato una grave encefalopatia ipossico-ischemica durante il parto, con conseguente paralisi cerebrale, a causa del ritardo nel procedere a taglio cesareo nonostante i tracciati fossero preoccupanti. Per anni, i genitori erano stati rassicurati con la spiegazione che i problemi del figlio fossero dovuti a fattori genetici; solo un approfondimento successivo escluse la causa genetica e ricondusse l’origine dei danni a una sofferenza perinatale. La vicenda è arrivata in Cassazione (ord. n. 21259/2024), dove i giudici hanno chiarito che se i sanitari imputano il danno a una malattia congenita inesistente, inducono in errore i genitori e ritardano la presa di coscienza dell’illecito, ma ciò non esonera dall’accertare la verità: una volta provato che la lesione deriva dall’asfissia da parto e non da un destino biologico inevitabile, scatta la piena responsabilità. Questo caso sottolinea due aspetti: da un lato l’importanza di non arrendersi alle prime spiegazioni se qualcosa non quadra (a volte la verità emerge anni dopo, grazie a nuovi esami o perizie); dall’altro che i termini di prescrizione dell’azione legale possono decorrere dal momento in cui i genitori hanno avuto consapevolezza del nesso causale reale (principio fondamentale per non lasciare senza tutela chi scopre tardi l’errore).

Mancata tempestività e morte neonatale: un altro caso paradigmatico riguarda la morte di una neonata per asfissia, sopravvenuta pochi minuti dopo il parto, in cui si è accertato che i medici avevano colpevolmente ritardato l’intervento nonostante chiari segnali di allarme. La Cassazione, con una pronuncia del 2025, ha stabilito tre principi di diritto innovativi sulla perdita del feto/neonato: (1) la lesione causata ai genitori dalla morte di una figlia al momento della nascita non è una mera perdita potenziale, bensì la lesione di un rapporto già esistente e meritevole di piena tutela; (2) il risarcimento per la perdita di un neonato non va automaticamente ridotto per la brevità della vita, poiché il dolore patito da madre e padre è profondo e reale quanto quello per la perdita di un familiare di lunga data; (3) nella liquidazione del danno parentale, la breve durata della relazione non può essere usata come parametro riduttivo se non in presenza di specifiche circostanze che indichino un minor impatto (circostanza difficilmente configurabile nel rapporto genitore-figlio, dove il legame affettivo nasce già in gravidanza). Questa sentenza rappresenta un’evoluzione significativa: riconosce finalmente, anche sul piano giudiziario, quella che per i genitori è un’evidenza emotiva, ossia che il figlio esiste già nel ventre materno come parte della famiglia. Alla luce di ciò, anche la perdita prematura di quella vita genera un vuoto incalcolabile (“costante, insanabile, implacabile dimensione del dolore genitoriale”, per citare le toccanti parole usate dalla Corte stessa).

Carenze strutturali e responsabilità dell’ospedale: come già evidenziato, i giudici supremi hanno mostrato mano ferma nel censurare le strutture che non rispettano gli standard organizzativi. Oltre al caso già ricordato del neonato prematuro non trasferito (Cass. n. 5380/2023), si segnala un’ulteriore pronuncia del 2025 in cui è stato ribadito l’obbligo di rispettare le normative introdotte dalla Legge Gelli sulla consulenza tecnica collegiale nelle cause di malasanità. Nel contesto di una causa per lesioni da parto, la Cassazione (sent. n. 15594/2025) ha annullato la sentenza di merito perché il giudice aveva basato la decisione su una perizia svolta da un singolo CTU anziché da un collegio di esperti (medico-legale + specialista ginecologo/neonatologo). La violazione della procedura peritale collegiale rende nulla la sentenza, a tutela del paziente: un accertamento monocratico infatti può risultare lacunoso. Richiamando ironicamente Molière – «È preferibile morire secondo le regole che guarire contro di esse» – la Corte ha voluto sottolineare che certe “regole” (come la perizia collegiale) non sono meri formalismi, ma garanzie sostanziali per avere una valutazione tecnica completa e imparziale. Tradotto, nei processi per errori medici – e segnatamente quelli complessi come i danni da parto – serve il contributo di più esperti per decidere con cognizione: se ciò manca, il processo va rifatto. Questo orientamento dà un segnale forte anche agli avvocati e ai giudici di merito sull’importanza di non sottovalutare gli aspetti procedurali pensati per assicurare perizie eque.

In sintesi, la giurisprudenza attuale in materia di responsabilità medica per il parto sta convergendo verso una maggiore equità e sensibilità: nessun cavillo deve sminuire il diritto al risarcimento di chi ha subìto un torto così grave. Che si tratti di un bimbo che porterà per sempre i segni di un errore, o di genitori che non potranno vedere crescere il proprio figlio, i giudici oggi mostrano di voler garantire un ristoro completo e giusto. Nasciturus pro iam nato habetur, quotiens de commodis eius agitur: il concepito è considerato come nato, ogniqualvolta si tratti di un suo interesse. Questo antico brocardo latino, nato in ambito successorio, ben si adatta al tema: l’ordinamento giuridico riconosce rilevanza alla vita fin dal grembo materno e tutela i suoi diritti (e quelli dei suoi genitori) quando un illecito ne interrompe il corso.

Come muoversi in caso di malasanità in sala parto

Di fronte al sospetto che un grave danno a madre o neonato sia dovuto a un errore sanitario, è comprensibile che i genitori si sentano travolti dal dolore e dalla rabbia. Tuttavia, è importante agire con lucidità per far valere i propri diritti. Ecco alcuni passi fondamentali:

Raccolta della documentazione clinica: chiedere subito copia integrale della cartella clinica del parto, dei tracciati di monitoraggio fetale, dei referti e di ogni documento medico (consensi informati firmati, registro operatorio, etc.). La cartella clinica è il documento chiave: deve riportare minuto per minuto l’andamento del travaglio, i parametri vitali, le decisioni prese e i motivi. Eventuali omissioni o alterazioni nella cartella possono indicare mancanza di trasparenza o tentativi di coprire errori. Se la cartella risulta incompleta, la giurisprudenza è dalla parte del paziente: secondo Cass. civ., sent. n. 11224/2024, le lacune nella documentazione sanitaria si interpretano a sfavore della struttura, perché è un suo preciso obbligo tenere traccia di tutto. In pratica, un dossier clinico mal tenuto avvantaggia il danneggiato: non potendo verificare causa ed esito per mancanza di dati (mancanza imputabile all’ospedale), il giudice può presumere che il medico abbia sbagliato se l’errore è astrattamente compatibile con il danno. Questo evita che un ospedale tragga beneficio dall’aver omesso registrazioni critiche.

Consulenza medico-legale: una volta raccolti i documenti, è essenziale affidarli a un medico legale e magari a uno specialista (ginecologo, neonatologo) di fiducia, per ottenere un parere tecnico preliminare. Gli esperti valuteranno se vi sono elementi che fanno presumere una colpa sanitaria (linee guida non rispettate, tempi eccessivi, manovre incongrue) e soprattutto se c’è correlazione tra eventuali mancanze e il danno riportato. Questa analisi iniziale è determinante per decidere se intraprendere o meno l’azione legale: uno studio legale serio, in collaborazione con consulenti medici, saprà dare un giudizio onesto sulla fondatezza del caso. In molti studi qualificati (come Studio Legale MP) la prima valutazione medico-legale viene offerta senza impegno e gratuitamente: lo scopo è evitare ai genitori un’ulteriore sofferenza di una causa inutile, qualora non emergano responsabilità chiare. Se invece la perizia preliminare individua errori e nesso causale, i legali consiglieranno di procedere. “Se curi una malattia puoi vincere o perdere, ma se ti prendi cura di una persona vinci sempre”, recita una citazione dal film Patch Adams: ecco, il medico legale e l’avvocato in questo frangente “si prendono cura” della famiglia, mettendo a disposizione le proprie competenze per dare un senso di verità e giustizia al loro calvario.

Tentativo di conciliazione e causa legale: la normativa attuale prevede, per le controversie di responsabilità medica, un tentativo obbligatorio di risoluzione prima del processo. Si può attivare una procedura di mediazione oppure, più frequentemente in questo ambito, un accertamento tecnico preventivo (ATP) con perizia collegiale. In pratica, il tribunale nomina subito un collegio di periti (come detto, medico legale + specialista) che valutano il caso; se la perizia riconosce la responsabilità, spesso si arriva a un accordo transattivo con l’assicurazione dell’ospedale, risparmiando tempo. Se invece la fase conciliativa fallisce, si procede con la causa civile vera e propria. In giudizio, sarà fondamentale avere al fianco un avvocato esperto in malasanità e consulenti tecnici preparati, perché questi procedimenti sono molto tecnici: si discute di cartelle cliniche, linee guida, probabilità statistiche, proiezioni sui bisogni futuri del bambino disabile, ecc. Il processo potrà concludersi con una sentenza o – se l’ospedale preferisce evitare una lunga disputa pubblica – con un’offerta risarcitoria soddisfacente per i genitori, che porti a una conciliazione in corso di causa.

Attenzione ai termini di prescrizione: le azioni di risarcimento per malasanità si prescrivono, di regola, in 10 anni (trattandosi di responsabilità contrattuale) a decorrere dall’evento lesivo. Tuttavia, come accennato, se i genitori scoprono l’errore solo dopo tempo (es. quando ricevono una perizia illuminante), la decorrenza può spostarsi al momento della “scoperta” del fatto illecito. È comunque prudente muoversi il prima possibile: a distanza di molti anni le prove possono divenire più sfumate, alcuni testimoni potrebbero non essere reperibili, i ricordi affievoliti. Idealmente, entro pochi mesi dall’evento ci si dovrebbe attivare per le perizie di parte e le procedure legali. Non bisogna temere di sembrare “aggressivi” nel farlo: è un passo necessario per tutelare il futuro proprio e del bambino (se vivo con disabilità), garantendo le risorse economiche per le cure. Ubi ius, ibi remedium – dove c’è un diritto violato, c’è un rimedio: il nostro ordinamento prevede gli strumenti per riparare, per quanto possibile, all’irreparabile. Ma tali strumenti vanno attivati nei tempi giusti, per non perdere la possibilità di agire.

Conclusione: una nuova sensibilità verso le vittime di errori in sala parto

La disamina svolta mostra come oggi vi sia, nei tribunali, una crescente sensibilità verso le vittime di malasanità ostetrica. Le recenti pronunce insistono su risarcimenti integrali e su procedure eque, in modo da non lasciare senza tutela proprio chi ha subìto il danno più grande. Certo, nessun risarcimento potrà restituire la salute a un bambino o colmare il vuoto di un figlio mai tornato a casa. E nessun medico vorrebbe mai arrecare tali sofferenze. Eppure, quando l’errore accade, è doveroso che la giustizia faccia il suo corso: per dare un sollievo (seppur economico) ai genitori e al piccolo paziente e per affermare in modo chiaro che la sicurezza del parto deve essere una priorità assoluta. Questa evoluzione normativa e giurisprudenziale ha anche una valenza preventiva: sapendo che ogni inadempienza verrà vagliata severamente in giudizio, strutture e professionisti saranno spronati ad alzare l’asticella della qualità e della prudenza. In definitiva, si intravede all’orizzonte un sistema più attento, in cui la tragedia di una nascita finita male non venga mai minimizzata né sotto il profilo umano né sotto quello giuridico.

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  • 14 novembre 2025
  • Redazione

Autore: Redazione - Staff Studio Legale MP


Redazione - Staff Studio Legale MP -

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