
“Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, scriveva George Orwell. Per decenni, nel diritto del lavoro italiano si è assistito a qualcosa di simile: in teoria la legge tutela tutti i lavoratori contro i licenziamenti ingiustificati, ma in pratica alcuni erano “più tutelati degli altri” a seconda delle dimensioni dell’azienda in cui lavoravano. In particolare, i dipendenti delle piccole imprese (quelle sotto la soglia fatidica dei 15 dipendenti) erano destinatari di una protezione ridotta: niente reintegra salvo rarissime eccezioni e, soprattutto, un risarcimento massimo molto limitato in caso di licenziamento illegittimo. Questa disparità – spesso percepita come ingiusta e punitiva verso i lavoratori delle aziende minori – è stata oggetto di critiche e, alla fine, di un intervento risolutivo della Corte Costituzionale nel 2025. Vediamo dunque come cambia la legge e cosa significa, in concreto, la fine del “tetto” di 6 mensilità per i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo nelle piccole aziende.
Per comprendere la portata delle novità, occorre partire dal quadro previgente. Nel 2015, con il Jobs Act (d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23), l’Italia ha introdotto il regime dei contratti a tutele crescenti per i nuovi assunti. Questo sistema, applicabile ai lavoratori del settore privato, distingueva nettamente tra le tutele garantite ai dipendenti di datori di lavoro oltre la soglia dimensionale dell’art. 18 St. Lav. (più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune, oppure più di 60 sul territorio nazionale) e quelle previste per chi lavorava in aziende sottosoglia (fino a 15 dipendenti locali e 60 in totale). In caso di licenziamento illegittimo (ad esempio perché privo di giusta causa o di giustificato motivo), nelle imprese grandi il lavoratore aveva diritto a un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità dell’ultima retribuzione, importo che il giudice poteva determinare discrezionalmente valutando vari fattori (anzianità di servizio, dimensioni dell’azienda, comportamenti delle parti, ecc.). Nelle piccole imprese, invece, l’art. 9, comma 1, d.lgs. 23/2015 fissava un range ridotto alla metà: minimo 3 e massimo 6 mensilità. In entrambi i casi, il rimedio era esclusivamente economico (salvo casi particolari come licenziamenti discriminatori o nulli, per cui resta la reintegrazione anche nelle piccole aziende ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 23/2015). Il risultato pratico? Un lavoratore ingiustamente licenziato in una ditta con 10 dipendenti poteva ricevere al massimo 6 mensilità di stipendio come risarcimento, anche dopo 20 anni di servizio, mentre un collega di un’azienda più grande, a parità di anzianità e di illegittimità del licenziamento, poteva aspirare fino a 36 mensilità.
Questa divergenza di trattamento era giustificata dal legislatore con l’intento di non gravare eccessivamente le micro-imprese, ritenendo che indennizzi troppo elevati potessero metterne a repentaglio la sopravvivenza. Tuttavia, col passare degli anni, tale impostazione è apparsa sempre meno ragionevole e più iniqua. Immaginiamo due lavoratori, Marco e Luca: Marco è dipendente di una grande società, Luca di una piccola azienda artigiana; entrambi vengono licenziati senza valido motivo. Marco – in base alla valutazione del giudice – potrebbe ottenere, poniamo, 18 mensilità di risarcimento, un importo che quantomeno gli dà un sostegno adeguato mentre cerca un altro impiego. Luca invece, a parità di condizioni, si vedrebbe riconoscere al massimo 6 mensilità, anche se il danno (perdita del lavoro) è identico. È evidente come questa sperequazione mal si concili con il principio – scritto in ogni aula di tribunale – che “la legge è uguale per tutti”. Inoltre, un indennizzo così basso difficilmente ha quell’effetto deterrente sui datori di lavoro scorretti che una tutela effettiva dovrebbe garantire: per un’azienda di piccole dimensioni, dover pagare al massimo sei mensilità potrebbe essere considerato un “costo accettabile” per liberarsi di un dipendente scomodo, sapendo che non c’è il rischio di reintegra.
Non a caso, la questione ha iniziato presto a sollevare dubbi di costituzionalità. Già nel 2018 la Consulta era intervenuta sulla parte del Jobs Act riguardante le aziende grandi, dichiarando illegittimo il rigido criterio di calcolo automatico dell’indennità basato solo sull’anzianità (sent. n. 194/2018). Ciò aveva restituito ai giudici il potere di determinare caso per caso l’indennizzo tra 6 e 36 mensilità per i licenziamenti illegittimi nelle imprese soggette all’art. 18, valutando tutti gli elementi del caso concreto. Rimaneva però intatto il dimezzamento per le piccole imprese, che continuava a precludere qualsiasi personalizzazione oltre la soglia delle 6 mensilità. Nel 2022 la Corte Costituzionale, con la sent. n. 183/2022, ha lanciato un monito al legislatore: pur non bocciando ancora la norma, ha evidenziato l’incongruità del tetto risarcitorio così basso e invitato il Parlamento a intervenire per riequilibrare la tutela dei lavoratori “sottosoglia”. A fronte dell’inerzia legislativa successiva, era solo questione di tempo prima che la Corte fosse chiamata a pronunciarsi nuovamente, questa volta in modo più deciso.
Finalmente, nel 2025 è arrivata la svolta. Con la sentenza n. 118 depositata il 21 luglio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, d.lgs. 23/2015, «limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”». In altre parole, la Consulta ha eliminato dal sistema la clausola che fissava il massimale di 6 mensilità per l’indennità risarcitoria nelle piccole imprese. La conseguenza immediata è che, pur restando ferma la regola del “dimezzamento” rispetto alle imprese maggiori, non esiste più un tetto assoluto di 6 mensilità. Il giudice potrà quindi condannare un datore di lavoro sottosoglia a pagare un indennizzo anche superiore a 6 mensilità, qualora lo ritenga necessario per adeguarlo al caso concreto.
La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che quel limite rigido impediva di personalizzare l’indennità sulla base della gravità del licenziamento e delle caratteristiche del rapporto di lavoro, non garantendo né un rimedio congruo per il lavoratore né un’adeguata funzione deterrente verso il datore di lavoro. Ha rilevato che il dimezzamento in sé (cioè l’aver previsto una soglia inferiore per le piccole imprese rispetto alle grandi) poteva ritenersi ancora legittimo e ragionevole, ma che fissare comunque un massimo di 6 mensilità produceva effetti sproporzionati e irrazionali in molti casi, specie per lavoratori con lunga anzianità di servizio. In pratica, la legge costringeva i giudici a riconoscere al massimo un forfait spesso insufficiente a compensare il pregiudizio patito dal lavoratore, trasformando la tutela in poco più di un pro forma. Si pensi ai casi in cui il dipendente licenziato illegittimamente avesse 20 o 30 anni di servizio: il vincolo del tetto comportava un evidente squilibrio tra danno e ristoro. Summum ius, summa iniuria – la massima di Cicerone calza a pennello – poiché l’applicazione pedissequa di una norma troppo rigida finiva per creare un’ingiustizia sostanziale. Eliminando il massimale, invece, si restituisce flessibilità al sistema, consentendo al giudice di tener conto di tutti i fattori rilevanti (anzianità, dimensioni e condizioni dell’azienda, ruolo del lavoratore, comportamenti delle parti, gravità della violazione, ecc.) per determinare un indennizzo equo e proporzionato.
È importante chiarire che cosa significa questo, in pratica, per i nuovi casi (e per quelli pendenti). La norma “corretta” dalla Corte Costituzionale va ora letta come se dicesse che, nelle imprese fino a 15 dipendenti, l’indennità è compresa tra 3 mensilità (minimo) e 6 mensilità per ogni anno di servizio, senza però un tetto fisso finale. Di conseguenza, autorevoli interpretazioni indicano che l’arco di discrezionalità del giudice nelle piccole aziende diventi tra 3 e 18 mensilità: ciò perché permane la riduzione alla metà rispetto al range 6–36 previsto per le grandi imprese, ma cadendo il tetto, teoricamente il massimo potrebbe arrivare fino a 18 mensilità (cioè metà di 36). Va detto che questa “nuova” soglia di 18 mensilità non è espressamente scritta in una legge, ma è un riferimento logico derivante dalla sentenza: in attesa che il legislatore intervenga a ridisegnare compiutamente la disciplina, sarà la giurisprudenza a orientarsi su importi via via più elevati, comunque entro limiti di ragionevolezza. Ciò che conta è che non esiste più un limite precostituito invalicabile: l’indennizzo dovrà essere calibrato sul caso concreto, potendo anche raggiungere livelli ben maggiori di prima quando le circostanze lo richiedono.
Per comprendere la portata innovativa della decisione del 2025, può essere utile confrontare alcuni esempi prima e dopo. Un caso realmente accaduto: una lavoratrice licenziata per presunto motivo oggettivo (economico) risultò vittima di un licenziamento ingiustificato. La Corte d’Appello, valutando la sua lunga anzianità (oltre 20 anni), le aveva riconosciuto 14 mensilità di risarcimento, pur lavorando l’azienda in regime “sottosoglia”. Ebbene, la Cassazione, Sez. Lavoro, ord. n. 13741/2025 (depositata il 22 maggio 2025) ha cassato quella sentenza, affermando che non si poteva superare il massimale di 6 mensilità se non ricorrevano contemporaneamente due condizioni: (1) anzianità ultraventennale e (2) un datore di lavoro con peculiari caratteristiche dimensionali (più di 15 dipendenti complessivi ma distribuiti su sedi ciascuna sotto i 15, entro il totale di 60 dipendenti). In mancanza del secondo requisito, la Cassazione ha ridotto l’indennità a 6 mensilità, considerandola la misura massima applicabile. Questo orientamento rigoroso evidenzia come, prima, anche di fronte a situazioni meritevoli di maggiore ristoro, il giudice di legittimità imponesse il rispetto del “tetto” normativo, a costo di sacrificare la giustizia sostanziale del caso.
Dopo la sentenza costituzionale 118/2025, un epilogo del genere non sarà più obbligato. Anzi, ci si attende che le corti di merito adeguino rapidamente le loro decisioni al nuovo corso: in circostanze analoghe, oggi un giudice potrebbe tranquillamente confermare 14 mensilità – o persino arrivare a 15, 16, etc., se giustificato – senza timore di violare la legge, dato che la clausola limitativa è stata espunta dall’ordinamento. Si delineano quindi nuovi parametri risarcitori per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, più vicini (pur restando inferiori) a quelli delle grandi. È plausibile che in casi di lunghissima anzianità o danno particolarmente grave, la soglia delle 6 mensilità venga ampiamente superata: ad esempio, un dipendente con 30 anni di servizio potrebbe vedersi riconoscere, poniamo, 12 o 15 mensilità di indennizzo, laddove prima ne avrebbe ottenute solo 6. Ciò restituisce dignità e completezza alla tutela risarcitoria, avvicinandola alla reale entità del pregiudizio subito dal lavoratore.
Va però sottolineato che restano alcune differenze rispetto alle imprese maggiori: nelle piccole aziende la reintegrazione continua a non essere prevista nei normali licenziamenti economici o disciplinari illegittimi (si applica soltanto se il licenziamento è nullo perché, ad esempio, discriminatorio o intimato in forma orale). La protezione rimane dunque sul piano monetario. Tuttavia, con indennizzi finalmente significativi, la posizione del lavoratore “di serie B” nelle micro-imprese diventa meno svantaggiata. La stessa Corte Costituzionale, pur non eliminando il dimezzamento in sé, ha evidenziato che la distinzione basata rigidamente sul numero di dipendenti è sempre meno attuale nel mondo del lavoro moderno: esistono aziende con meno di 15 dipendenti che hanno fatturati enormi o fanno parte di gruppi complessi, e viceversa grandi realtà organizzative con poche decine di dipendenti diretti (magari affiancati da collaboratori esterni). Insomma, la dimensione occupazionale non è più l’unico indicatore di solidità o importanza di un’impresa. Perciò, un riassetto globale della materia sarebbe auspicabile: la Consulta ha rivolto un nuovo invito al legislatore affinché aggiorni i criteri di distinzione e ridisegni le tutele in modo organico. Nel frattempo, però, grazie all’intervento del giudice delle leggi, almeno il caso più eclatante di disparità è stato risolto.
In conclusione, cosa comportano queste novità per chi dovesse trovarsi coinvolto in un licenziamento illegittimo in una piccola impresa? Dal lato dei lavoratori, la prospettiva di ottenere un risarcimento adeguato è ora più concreta. Chi ritiene di essere stato licenziato ingiustamente da un datore di lavoro “sottosoglia” non deve più scoraggiarsi pensando che comunque, anche vincendo la causa, riceverebbe solo poche mensilità: al contrario, può aspirare a un indennizzo ben più sostanzioso, proporzionato alla sua storia lavorativa e al torto subìto. Ciò potrebbe incidere anche sulle strategie di conciliazione: in passato molti lavoratori accettavano somme modeste in sede di conciliazione pur di non affrontare una lunga causa, sapendo che comunque la posta in gioco era limitata a 6 mensilità; ora, con la possibilità di ottenere importi maggiori in giudizio, sarà più forte la leva per negoziare transazioni più favorevoli o, se necessario, portare la vertenza fino alla sentenza confidando in un ristoro più giusto.
Dal lato dei datori di lavoro piccoli, la sentenza della Consulta rappresenta un campanello d’allarme: occorrerà prestare ancora maggiore attenzione nell’adottare provvedimenti di licenziamento. Sapere che, se il licenziamento verrà dichiarato illegittimo, l’azienda potrebbe dover pagare anche 10, 12 o più mensilità di stipendio, dovrebbe indurre a valutare con cura preventiva le decisioni espulsive, magari cercando soluzioni alternative (come il riassetto interno, il demansionamento consensuale, o incentivi all’esodo) prima di procedere a un recesso unilaterale. In altre parole, la dissuasione che prima mancava potrebbe ora farsi sentire: licenziare senza motivo diventa più “costoso”, e ciò certamente contribuirà a tutelare meglio la stabilità dei rapporti di lavoro nelle realtà minori. Va ricordato che resta comunque escluso l’obbligo di reintegrare il dipendente, quindi le piccole imprese non rischiano la riassunzione coatta (se non nei casi eccezionali già menzionati); tuttavia, l’onere economico di un eventuale errore o arbitrio nel licenziare sarà d’ora in poi più elevato.
In definitiva, la pronuncia del 2025 rappresenta una vittoria dell’equità su una rigidità normativa che era diventata insostenibile. Come ha efficacemente riassunto un osservatore, d’ora in poi anche nelle piccole aziende “il licenziamento illegittimo non è più a buon mercato”. Il principio di fondo è stato ristabilito: a parità di ingiustizia, un lavoratore ha diritto a una parità – o quasi – di tutela, indipendentemente dal fatto che il suo datore di lavoro abbia 10 o 100 dipendenti. Naturalmente, rimane margine perché il legislatore intervenga in futuro, magari rivedendo l’intero impianto di regole sui licenziamenti e aggiornando la definizione stessa di “piccola impresa” nel diritto del lavoro. Ma per ora il segnale lanciato dai giudici costituzionali è chiaro: non devono più esistere lavoratori di serie A e di serie B davanti a un licenziamento ingiusto. “Fiat iustitia, ruat caelum” – sia fatta giustizia, costi quel che costi – sembra essere stato il motto ispiratore di questa decisione storica. E se qualche piccolo datore di lavoro teme maggiori esborsi, può comunque stare sereno finché agisce nel giusto: la legge continua a proteggere chi licenzia per motivi validi e documentati. Chi invece pensava di poter licenziare con leggerezza contando su penali irrisorie, dovrà cambiare approccio.
Redazione - Staff Studio Legale MP